Acli: oltre i muri del carcere

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Un’apprezzata ricerca curata dall’Iref, Istituto di ricerca delle Acli nazionali, sul ruolo del Terzo settore nelle carceri, è stata presentata recentemente presso la Casa Circondariale di Busto Arsizio. È un’analisi approfondita che documenta l’impegno del “non profit” con le persone detenute: un lavoro che mira prima di tutto al reinserimento nella società.

Nel report sono descritte le attività che il Terzo settore – e in particolare le Acli – ha avviato per rendere più umano il carcere e accompagnare i detenuti durante il periodo di reclusione e nel postcarcere.

Cosa dicono le cifre

L’Associazione da anni è impegnata nell’organizzazione e nell’attuazione di progetti formativi, culturali e sportivi negli istituti di pena. «È difficile stimare il numero di organizzazioni impegnate con i detenuti, perché la maggior parte di esse sono piccole, alcune poggiano solo sul lavoro volontario», spiega Gianfranco Zucca, ricercatore Iref e curatore della ricerca.

«Negli ultimi due anni il numero dei detenuti è diminuito di 7.409 unità, ma c’è stato anche un crollo del volontariato che ha fatto crescere il rapporto tra volontari e detenuti, da 1 a 3,1 del 2019 a 1 a 5,4 nel 2020».

La flessione maggiore si è avuta nelle attività religiose (-61,3%) e nelle attività di formazione e di lavoro (-60,5%); anche le attività sportive, ricreative e culturali hanno accusato una diminuzione consistente tra i volontari (-56,5%); più bassa (31%) è la flessione rilevata tra i volontari impegnati in attività di sostegno alle persone e alle famiglie.

L’impegno del Terzo settore e dei suoi operatori (volontari o meno) all’interno delle carceri si esprime attraverso progetti specifici o supportando i compiti istituzionali dell’amministrazione, sia in partenariato con altri enti o da soli, coinvolgendo sia i detenuti sia i loro familiari.

Purtroppo la realtà carceraria è poco conosciuta; di fatto è molto trascurata dalla politica ed è lontana dai cittadini, il carcere appartiene a “un mondo altro”.

Il lavoro

Il lavoro è considerato lo strumento principale di risocializzazione dei detenuti ma, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, a giugno 2021 lavorava un detenuto su tre, per un totale pari a 17.957 individui su 53.637.

Bisogna precisare che, nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di un’occupazione alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, ovvero dei cosiddetti “servizi d’istituto” (pulizie, manutenzione ordinaria, lavanderia, cucina). Questo tipo di impieghi, in concreto, non sono “posti di lavoro”, ma “turni di lavoro” che prevedono anche mesi di attesa tra un turno e l’altro. Inoltre, questi impieghi sono ripetitivi e monotoni, non offrono una grande soddisfazione lavorativa; tutt’al più permettono una maggiore libertà di movimento all’interno della struttura carceraria.

Negli ultimi trent’anni la percentuale di detenuti che lavora non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria è sempre rimasta tra il 10% e il 15%, tranne (in percentuale alquanto ridotta) quelli che vengono contrattualizzati dagli Ets (Enti del Terzo settore) o dalle cooperative.

Se si cambia la base di calcolo, considerando tutti i detenuti, e non solo il totale dei lavoranti, si ottiene che solo il 4% dei detenuti lavora con un soggetto esterno al carcere: a giugno 2021, si trattava solo di 2.130 persone.

La formazione

La formazione, aspetto fondativo del modello riabilitativo adottato dal sistema penale italiano, purtroppo non offre grandi prospettive. Negli ultimi cinque anni i corsi attivati hanno avuto un andamento altalenante, oscillando in una forbice che va da 120 a 230 nel periodo pre-pandemia, per poi crollare con l’avvento del Covid-19. La percentuale di iscritti, sul totale dei detenuti presenti, non ha mai superato un esiguo 5%, arrivando all’1,4% nel primo semestre del 2020.

La pandemia ha avuto sicuramente un impatto negativo sulle opportunità formative e di lavoro dei detenuti nelle nostre carceri. Anche in questo ambito gli Enti del Terzo settore svolgono un’azione di rilievo. I principali enti di formazione, di varia tradizione, realizzano percorsi formativi all’interno delle carceri.

Tuttavia, anche prima del Covid le possibilità erano assai limitate. Il numero di chi usufruisce degli interventi formativi si restringe ancora se si considerano i detenuti che terminano i percorsi o, meglio, che sono riusciti a frequentare un corso completo, prima della chiusura causa Covid. Questa condizione riguarda, con oscillazioni di semestre in semestre, circa due detenuti su tre.

I progetti delle Acli

Un capitolo della ricerca descrive le attività che le Acli hanno avviato per rendere più umano il carcere e accompagnare i detenuti durante il periodo di reclusione e dopo.

Un’analisi tematica di 16 interviste a tutto campo a testimoni privilegiati che si sono occupati della realizzazione dei progetti delle Acli in carcere, ha evidenziato l’impegno sociale dell’Associazione. Il lavoro di ricerca reso noto è solo un primo passo, l’intento delle Acli è di rendere più umano il carcere e accompagnare i detenuti durante il periodo di reclusione e successivamente.

«Le Acli – afferma Antonio Russo responsabile nazionale – ritengono importante approfondire il ruolo del Terzo settore nel carcere, attraverso un’analisi cadenzata e regolare, capace di monitorare negli anni l’importante ruolo che esso svolge in questi luoghi.

Il Rapporto ci consegna un primo punto sull’impegno del mondo “non profit” in tema di detenzione e ci consente di individuare piste di lavoro per le successive edizioni con un focus particolare sull’importante tema della re-entry».

La posta in gioco è avviare esperienze e percorsi in grado di immaginare una vita oltre la pena, appunto “al di là dei muri”.

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