
Foto AP/LaPresse
L’accusa di antisemitismo mi è piovuta addosso all’istante, come previsto, da altri ebrei. Esprimendo sui social e nel romanzo La Metamorfosi dei Papaveri la mia totale disapprovazione della politica israeliana verso i palestinesi, ho chiamato la pioggia, che è divenuta burrasca, lo sapevo. Sono accusato di essere antisemita. Volendo continuare a camminare all’aperto, apro l’ombrello e… mi difendo.
Capita a chiunque osi tanto: governanti, giornalisti o persone comuni. A chi è solito analizzare i problemi con la ragione, può sembrare assurdo, ma su questo tema gli animi si accendono, il cuore parteggia e la mente si offusca.
Pur essendo ebreo nato in Israele, cerco di affrontare la questione fuori dalla mischia, nel modo più neutrale e sereno possibile.
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L’antisemitismo è un’ideologia razzista che discrimina gli ebrei come popolo inferiore, attribuendo loro le colpe di ogni male. Negli ultimi due secoli, vari governi europei hanno sfruttato questa retorica per deviare l’attenzione del popolo dalle proprie miserie, usando la comunità ebraica come capro espiatorio di calamità e frustrazioni popolari. Il nazifascismo ha portato questa orrenda ideologia al suo estremo.
Il Sionismo e la fondazione dello Stato di Israele sono una risposta legittima alle persecuzioni antisemite, ma hanno generato la tragedia di un altro popolo, per il quale è doveroso cercare almeno un rimedio parziale, per quanto tardivo.
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La politica israeliana verso i palestinesi è contestata in tutto il mondo e persino in Israele. Nel 2016 lo scrittore David Grossman(1) ha definito criminale l’operato di Benjamin Netanyahu per aver sacrificato la speranza di pace, mettendo a rischio la stessa sopravvivenza dello Stato. Grossman ammise di vergognarsi delle scelte del proprio governo.
Nello stesso anno, Amos Oz(2), altro grande scrittore israeliano, concordava: criticare le politiche di Israele non equivale ad antisemitismo, ma farlo con argomentazioni fondate è un esercizio democratico legittimo.
Condivido le riflessioni della sociologa svizzera Monique Eckmann(3): criticare leggi discriminatorie, denunciare i progetti di annessione dei territori occupati non è antisemitismo, bensì esercizio di cittadinanza. Negare il diritto dei palestinesi a uno Stato significa negare il diritto all’autodeterminazione di ogni popolo. E accusare di antisemitismo chi difende questo diritto significa colpire anche ebrei e movimenti per la pace che ne sostengono l’idea.
La Eckmann fa notare che «la soglia dell’odio è superata quando nella discussione irrompono emozioni che esprimono un’avversione viscerale. Succede, per esempio, quando gli argomenti usati evocano associazioni, simboli o sentimenti mutuati dall’arsenale antisemita».
Questa ambiguità lessicale è stata promossa dalla destra israeliana, che ha sovrapposto ebraismo e Israele per erigere un comodo scudo contro ogni opposizione alle proprie leggi verso i palestinesi. Ne è esempio la dichiarazione della Missione permanente di Israele all’ONU, che si attribuisce il ruolo di rappresentare non solo lo Stato e i suoi cittadini, ma l’intero popolo ebraico.
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Il nesso tra critica a Israele e antisemitismo è perfino codificato in leggi e regolamenti di diversi Paesi occidentali. In Australia, il giornalista Michael Visontay(4) ha denunciato l’opacità della normativa, che rende rischiosa ogni discussione pubblica sulla politica israeliana per timore di incorrere nell’accusa di crimine di antisemitismo.
Ricordo le mie scuole elementari in Israele, quando la povertà e le difficoltà del primo dopoguerra non scalfivano l’entusiasmo per la nascita dello Stato e il sogno della pace. Questa speranza è rimasta viva finché il paese era governato dal partito laburista fondato da Ben Gurion.
Dopo l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza del 1967, Israele considerava questi i territori come leva per negoziare una pace definitiva con i Paesi arabi e una qualche soluzione soddisfacente del problema palestinese.
Con l’avvento dei governi nazionalisti e ultrareligiosi, quel sogno è diventato chimera. Ancor più oggi, a seguito dell’atroce massacro di Hamas e della non meno orrenda rappresaglia israeliana – che ha fatto oltre 50.000 vittime, molte delle quali donne e bambini – la speranza di pace sembra un miraggio.
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Riprendendo l’assurda equazione: critica ad Israele equivale ad antisemitismo; ne sono testimoni i fatti recenti riguardanti la Columbia University: le proteste pro-Palestinesi hanno provocato una dura reazione dell’amministrazione Trump, che ha sfruttato l’accusa di antisemitismo per tagliare fondi e incidere sulla governance dell’università.
Vorrei invertire questa associazione: è l’attuale indegna politica israeliana ad alimentare l’antisemitismo nel mondo. Esso, infatti, è in forte aumento. Molti osservatori attribuiscono questa pericolosa ondata alle ingiustizie subite dai palestinesi, discriminati come cittadini israeliani, oppressi nei territori occupati e ridotti a carne da macello nel conflitto che oggi insanguina Gaza.
Mi si conceda, infine, una riflessione personale: è possibile che io, ebreo nato in Israele, sia accusato di antisemitismo perché critico la politica del mio paese natale? Posso essere davvero contro me stesso?
Concludo con le parole di Abraham Gutman(5): «Lungi dall’essere offensiva, la critica al governo israeliano dovrebbe essere vista come un atto d’amore, capace di rendere ciascuno più libero e sicuro. La libertà e la sicurezza degli ebrei, quella dei cristiani e dei musulmani palestinesi non si escludono a vicenda, ma si nutrono di una convivenza pacifica e giusta».
1) David Grossman, Israelis ‘more prone to fanaticism and fundamentalism’ (Euronews, 17 marzo 2016)
2) Amos Oz, Saying Israel should not exist is anti-Semitic (BBC Euronews, 14 settembre 2016)
3) Monique Eckmann, Critiquer Israël, est-ce de l’antisémitisme? Histoire des juifs, Shoah, ressentiments : un passé qui ne passe pas (TANGRAM39, luglio 2017; qui la versione in italiano)
4) Michael Visontay, Is it inherently antisemitic to criticise Israel? It may depend on who you ask (The Guardian, 22 ottobre 2021)
5) Abraham Gutman, Supporting Palestinian rights is antisemitic because Israel wants it to be (The Philadelphia Inquirer, 27 maggio 2021)






Come possiamo tracciare un confine chiaro tra la critica legittima alle politiche del governo israeliano e le espressioni che sconfinano nell’antisemitismo, soprattutto nei dibattiti pubblici?
Concordo che “la soglia dell’odio è superata quando nella discussione irrompono emozioni che esprimono un’avversione viscerale” ma osservo che l’avversione viscerale si manifesta anche quando la critica al governo di Israele si trasforma in iperbole del male, in equivalenza con il nazismo, in elevazione degli errori o dei crimini (questi, da provare) del governo israeliano a male assoluto, il massimo del male di cui il genere umano sarebbe capace da parte dei “Perfidi Ebrei”, verrebbe da dire a questo punto assieme al Cattolicesimo preconciliare.
In questo senso, domanderei al (pediatra) Nathan Levi se una frase dell’appello promosso da alcuni suoi colleghi (primo: P. Brovedani), presentato il 9/1/2025 e poi firmato da 320 sanitari di TS e GO (Nathan compreso, mi pare) non scada proprio nella condanna iperbolica-viscerale. Grazie
Grazie a questa voce ebraica che vuole dissipare un equivoco e una strimentalizzazione vergognosi, che però fanno comodo ai governi come quello italino, che, rinato fascista, con coscienza ipocrita, vuole ricostruirsi un’immagine di falsa innocenza di fronte alla storia, passata e a venire. Del tutto omologo l’ atteggiamento di Trump,bche programma lo svuotamento di quello che resta dell’ insediamento palestinese a Gaza, già gabbia di morte, da Netanyau e gli ultraortodossi, loro sì fascisti procurata per fuoco d fame.
Fascista è poi la politica interna agli USA, per cui Trump, anche con il falso pretesto del diffondersi dell’antisemitismo (= appunto ostilità all’attuale politica militare di Israele), dimezza le risorse economiche ed umane delle facoltà universitarie e del paese, in una propaganda nazionalista e segregazionista da subito sfociato nelle deportazioni forzate di degli “stranieri” e nei dazi.
Dunque Meloni che guida un governo “rinato fascista” vorrebbe “ricostruirsi una immagine di falsa innocenza”…
Mi chiedo come si possa pensare ad un futuro di vera consapevolezza della nostra storia passata e un progetto futuro basato sulla comprensione e accettazione e sul superamento di traumi passati, se ancora insistono teorie del genere che identificano il governo attuale con il fascismo storico, passato remoto e oscuro ma che molti italiani pur di fare “opposizione” a priori, senza andare troppo per il sottile valutano attraverso lenti ideologiche l’operato di un governo eletto democraticamente e a larga maggioranza. Purtroppo di quella rimasta tra il 50 per cento di elettori che non si spostano più per andare al seggio lasciando all’altro 50 per cento la responsabilità d decidere dei destini di un paese.