La lenta agonia dei giornali italiani

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All’improvviso, nel giro di pochi giorni, la crisi dei giornali italiani è diventata il tema sottostante a una serie di notizie di cronaca, dall’attacco alla sede de La Stampa alle censure del Tirreno, ai cambi di direzione nei quotidiani del gruppo Angelucci, agli scioperi per il rinnovo del contratto, alle risposte degli editori.

Come sempre, quelle che riguardano giornali e giornalisti sono un po’ vicende interne a una categoria sempre meno amata, ma sono anche questioni di interesse generale per le conseguenze che hanno sul modo in cui la realtà viene raccontata e percepita.

La vicenda di Torino

Il caso della Stampa è, da questo punto di vista, esemplare. Durante la giornata di venerdì 28 novembre un gruppo di manifestanti che si proclamano a difesa della Palestina ha fatto irruzione nella sede del quotidiano torinese, che era vuota perché anche i giornalisti stavano scioperando in piazza, nella stessa occasione.

Il pretesto per colpire la Stampa era l’espulsione dell’imam torinese di origine egiziana Mohamed Shahin, in Italia da oltre 20 anni, che in una piazza aveva detto di essere «d’accordo con quanto successo il 7 ottobre 2023, non è una violenza», nonostante 1.200 morti, stupri, bambini bruciati vivi e tutte le atrocità che conosciamo.

Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha firmato un decreto di espulsione per «motivi di sicurezza dello Stato e di prevenzione del terrorismo».

Questa storia è piena di paradossi. Il primo è che lo stesso imam, dal CPR di Caltanissetta dove è rinchiuso, ha condannato l’attacco alla Stampa: «Come persona di fede ho sempre provato a trasformare il dolore della Palestina in manifestazioni pacifiche, dove non ho appoggiato iniziative violente».

Invece che contestare il Governo per rivendicare una versione legittima per quanto estrema della libertà di espressione – censurare le idee sgradite è sempre scivoloso in un sistema liberale – i manifestanti ProPal di Torino finiscono per legittimare la linea del ministro Piantedosi, cioè per tenere la discussione sul rischio di terrorismo.

Entrano alla Stampa con gli slogan delle Brigate Rosse che a Torino i giornalisti, specie della Stampa, li uccidevano davvero negli anni Settanta: «Giornalista terrorista, sei il primo della lista». Peraltro, paradosso nel paradosso, quei manifestanti violenti e ammiratori dei terroristi, confermano di non sapere nulla del giornale che contestano, se non che è di Torino e dunque complice, chissà perché di una vicenda di ordine pubblico torinese.

Non sanno che i giornalisti sono in piazza con loro, non sanno che La Stampa è uno dei giornali che è stato più attento a raccontare il dramma e il genocidio di Gaza, con firme come Anna Foa, Rula Jebreal, Francesca Mannocchi, non sanno che il direttore Andrea Malaguti è stato l’unico a contestare la ministra della Famiglia Eugenia Roccella quando ha parlato di «gite degli studenti ad Auschwitz».

Soprattutto non sanno che da mesi la proprietà, il gruppo GEDI che fa capo a John Elkann, sta cercando di liberarsi del quotidiano in crisi strutturale – come tutte le testate regionali – e si parla dell’interessamento del gruppo NEM, Nord Est Multimedia, che sta costruendo un polo tra Piemonte e Veneto.

Dopo l’assalto dei manifestanti, lo stesso editore Elkann è costretto a schierarsi a difesa del giornale la cui storia è intrecciata con quella della famiglia Agnelli da oltre un secolo.

Insomma, i manifestanti che avversano tanto La Stampa da vandalizzarne la redazione, non soltanto non l’hanno mai letta, ma non hanno neanche mai consultato la voce di Wikipedia per sapere con chi se la stessero prendendo.

Poi, certo, ci si è messa anche Francesca Albanese, la relatrice speciale dell’ONU per i territori palestinesi che ha perso un’altra splendida occasione per stare zitta e prima ha parlato di «monito» per tutti i giornalisti, per poi smentire, smussare, spiegare, condannare. Anche se, va detto, in tutti i suoi interventi Albanese esplicita la stessa linea: la violenza è da condannare ma è sostanzialmente legittima perché quella di Hamas è una rivolta anti-colonialista e non un’azione terrorista.

Ovviamente, poiché condanna e legittimazione non possono stare insieme, le parole di critica sono da intendere soltanto come un modo per prevenire le polemiche, ma l’analisi di Albanese sui rapporti di forza in Israele e su come e quanto i palestinesi possano ricorrere alla violenza è ben nota e spesso ripetuta.

Ma torniamo alla crisi dei giornali. Venerdì in piazza c’erano anche i giornalisti, con il sindacato unitario della FNSI che chiedeva il rinnovo di un contratto scaduto da oltre dieci anni, così da recuperare potere d’acquisto.

Battaglia comprensibile, perché tutti i lavoratori dipendenti hanno subito le conseguenze dell’inflazione negli ultimi anni e senza aumenti non possono neppure recuperare l’impoverimento dovuto ai rincari (l’inflazione ha rallentato, ma i prezzi non sono scesi).

Però è una battaglia particolarmente difficile nel settore dell’editoria dove gli editori stanno provando a dimostrare ai loro battaglieri dipendenti che possono fare i giornali senza i giornalisti.

Giornali senza giornalisti

Non è soltanto una questione di tecnologia: l’intelligenza artificiale può aumentare la produttività e consentire di ridurre gli organici, correttori di bozze, grafici impaginatori e perfino redattori sono meno necessari. Il Foglio affida da mesi all’intelligenza artificiale anche editoriali e interi articoli.

Ma si moltiplicano i casi in cui un direttore, schierandosi con la proprietà, sceglie di mandare in edicola il quotidiano anche con la redazione in sciopero, grazie al lavoro di pochi dipendenti fedeli e di molti collaboratori pagati pochissimo che non possono scioperare o rifiutarsi.

E’ successo con il Sole 24 Ore, che il direttore Fabio Tamburini ha mandato in edicola in versione ridotta il 19 ottobre per far uscire comunque l’intervista alla premier Giorgia Meloni che presentava la legge di Bilancio.

Proprio quell’intervista, affidata a una collaboratrice del giornale, Maria Latella, invece che a un giornalista interno, aveva scatenato la protesta della redazione. Il giornale è uscito comunque, con sole 20 pagine, ma in edicola e nelle rassegne stampa c’era.

Nel giorno dello sciopero di venerdì il direttore della Gazzetta dello Sport, dello stesso gruppo RCS del Corriere della Sera, si è prodigato per far arrivare comunque in edicola una versione del quotidiano e per avere il sito aggiornato, contando su quelli che non volevano o non potevano aderire allo sciopero. Come protesta, il sindacato interno al giornale si è dimesso.

Stesso comportamento da parte della famiglia Angelucci, editore di riferimento della destra politica ed editoriale, che ha mandato in edicola Il Giornale sabato 29 novembre praticamente senza il contributo dei redattori.

Mancava il 90 per cento dei giornalisti, un atteggiamento quello dell’azienda – secondo il sindacato interno del Giornale – «che lascia supporre l’idea che un giornale possa uscire anche se sedute dietro alla scrivania non ci sono neanche 10 persone».

La risposta dell’editore è stata che sì, in effetti il giornale può uscire anche così e non è neanche male, visto che era addirittura «arricchito con contributi di firme apprezzate dai nostri lettori, nel rispetto della qualità editoriale ad essi dovuta».

Pochi giorni dopo Il Giornale ha cambiato direttore, nell’ennesimo giro di poltrone tra le testate del gruppo Angelucci, Alessandro Sallusti se ne va, arriva Tommaso Cerno dal Tempo, che pur avendo in curriculum un mandato da senatore del PD, una direzione dell’Espresso e persino una con-direzione di Repubblica, è considerato dall’editore il miglior interprete dello spirito del tempo, con la destra egemone.

Proprio il Tempo, giornale da cui arriva Cerno, è stato condannato ad agosto a pagare gli arretrati alla giornalista Gloria Oricchio che per un decennio ha scritto sull’edizione di carta e su quella online pezzi pagati tra i 3 e i 10 euro lordi, nella speranza di una assunzione che non arrivava mai. Ha fatto causa e l’editore ora è stato condannato a stabilizzarla e a pagarle 354 mila euro tra stipendi arretrati e contributi previdenziali.

Giornali fragili e permeabili

Il problema è generale: i costi del prodotto del giornale omnibus, quello che si occupa di tutto un po’ dallo sport alla geopolitica al costume, non sono più compatibili con i ricavi che genera. Affidarsi ai collaboratori sottopagati o agli editorialisti disposti a scrivere gratis in cambio di visibilità allunga l’agonia, ma non è una soluzione permanente.

Giornali più fragili sono giornali più influenzabili. E così ai problemi industriali si aggiungono quelli di legittimità. Mentre in altre redazioni lo scontro si consumava intorno alle battaglie sindacali, al Tirreno la redazione ha votato la sfiducia al direttore Cristiano Marcacci «per la scelta di non pubblicare notizie di rilievo nazionale come il recente “caso Manetti”».

Si tratta della storia, potenzialmente esplosiva, del presidente della regione Toscana Eugenio Giani che nella sera del voto va a recuperare la sua storica collaboratrice Cristina Manetti, già capo di gabinetto e dopo le elezioni assessora alla Cultura. Il 13 ottobre viene multata perché viaggiava in autostrada in corsia di emergenza: multa di 430 euro e possibile ritiro della patente.

Il presidente Giani, proprio nel giorno di chiusura della campagna elettorale, non solo arriva sul posto della multa, a parlare con la polizia, ma accompagna poi la collaboratrice in prefettura. Un approccio e un sostegno che non tutti i multati possono permettersi per contestare infrazioni gravi.

Ma se i giornali sono sempre sensibili alle priorità della politica, lo sono particolarmente a quelle della proprietà. Basta guardare alle prime pagine del Messaggero in questi giorni, dove non si trova traccia dell’inchiesta della Procura di Milano che riguarda la scalata dell’editore Francesco Gaetano Caltagirone, insieme a Delfin di Francesco Milleri, a Mediobanca tramite Monte Paschi di Siena.

Un’inchiesta che vede l’editore indagato per aver fornito false informazioni al mercato e il governo Meloni accusato di aver fatto la regia dell’operazione, che ha come obiettivo ultimo il controllo delle assicurazioni Generali.

Eppure, quando c’era da cavalcare l’operazione, tutti i giornali del gruppo erano schierati, la battaglia finale è stata innescata proprio da un editoriale di Roberto Napoletano sul Messaggero, contro l’alleanza tra Generali e la francese Natixis. In quel momento Napoletano dirigeva il Mattino di Napoli, ma ora è stato promosso al Messaggero.

I quotidiani all’italiana, insomma, hanno sempre meno lettori e sono un prodotto che non risponde più alle esigenze di informazioni del pubblico. Ma per gestire le partite di potere sono ancora considerati molto importanti. Almeno dagli editori e dalla politica.

Perché i giornali italiani sono più in crisi degli altri: l’analisi di Beda Romano

Beda Romano è corrispondente da Bruxelles del Sole 24 Ore. Per la rivista trimestrale del Mulino, in un numero dedicato all’informazione in Italia, ha scritto un interessante saggio sul declino dei giornali.

  • Perché sostieni che c’è una specificità italiana? Quali sono i modelli di successo che non abbiamo seguito?

Credo che ci siano almeno due caratteristiche che spiegano la crisi dei giornali in Italia.

La prima risale al secondo dopoguerra. Germania e Italia affrontarono in modo diverso la fine della dittatura e il ritorno della democrazia.

Nella Repubblica Federale i vecchi giornali furono chiusi, nuovi quotidiani videro la luce e tra la redazione e la proprietà furono create fondazioni indipendenti, con l’obiettivo di ridurre al minimo l’influenza degli editori sul giornale. Il periodo nazista aveva lasciato il segno e c’era il desiderio di garantire una stampa libera.

In Italia ciò non accadde. I giornali divennero, a seconda delle circostanze, proprietà di grandi aziende nazionali, di associazioni di categoria, di partiti politici, di enti confessionali. Non furono create muraglie cinesi tra redazione e proprietà. Questa scelta consolidò la tendenza degli editori a influenzare la linea editoriale, minando l’indipendenza dei quotidiani.

La seconda anomalia è più recente. I giornali italiani, a differenza di quelli di altri Paesi, tendono a seguire il flusso delle notizie, malgrado la rivoluzione provocata da Internet e dall’informazione in tempo reale.

La loro materia prima rimangono gli avvenimenti del giorno. I quotidiani guardano alla cronaca, piuttosto che all’attualità in senso più ampio. Non prendono le distanze dagli eventi: gli articoli, per la maggior parte, sono scritti a tambur battente, mancano gli approfondimenti.

Il risultato è che i giornali diventano un happening quotidiano. Non offrono molto di diverso dalla televisione, dalla radio o dai siti di informazione.

Se guardiamo agli altri Paesi europei, molti quotidiani riscuotono successo e aumentano le copie. Perseguono curiosità, rigore, indipendenza. Cercano di svincolarsi il più possibile dalla cronaca del giorno e guardano agli avvenimenti con il grandangolo. Così facendo competono ad armi pari con Internet, guadagnano lettori e offrono articoli di qualità che sopravvivono nel tempo.

I giornali italiani, per la maggior parte, sono invece rapidamente superati dagli eventi e invecchiano molto presto.

  • Un aspetto interessante che sottolinei è la cattura da parte della politica dei giornali, con ex politici o portavoce che fanno i direttori e i commentatori, o con agenzie di stampa che vivono solo grazie ai fondi di Palazzo Chigi. Anche questa è un’anomalia italiana?

In parte sì, è un’anomalia rispetto ai Paesi europei più moderni. Il motivo è relativamente semplice e si collega a quanto detto in precedenza.

I giornali italiani hanno, nella maggior parte dei casi, un assetto proprietario che tende a influenzare la copertura giornalistica, anche perché la stessa proprietà ha interessi che vanno ben oltre l’attività editoriale.

Il quotidiano diventa così uno strumento di pressione o di influenza nel dibattito pubblico. Da qui la tendenza a seguire il flusso delle notizie piuttosto che l’attualità più ampia.

In questo senso, con la politica i giornali hanno un rapporto promiscuo, comunque eccessivamente vicino. Guardiamoci attorno: di questi tempi, tre giornali nazionali contano tra i loro principali collaboratori tre ex presidenti del Consiglio.

In un recente passato, un altro ex premier è stato direttore editoriale di un quotidiano, mentre oggi un ex vicecapo del governo è commentatore assiduo di un grande giornale nazionale.

C’è di più: ai vertici del giornalismo italiano siedono persone che in passato erano parlamentari o portavoce di aziende pubbliche o private, di associazioni padronali o di personalità politiche.

Faccio un esempio: di recente un ex portavoce del governo è stato nominato alla guida di un giornale.

  • Il contesto — tra proprietà, ingerenze politiche e modelli sbilanciati sul flusso di notizie — condiziona anche i contenuti. Perché scrivi che il commento è un genere giornalistico molto più diffuso in Italia dell’analisi? Che differenza c’è tra i due tipi di articoli?

Il commento e l’analisi sono due generi giornalistici molto diversi tra loro. A differenza dell’analisi, il commento contiene l’opinione dell’autore, che è in fondo il succo dell’articolo.

L’autore farà del suo meglio — o almeno dovrebbe — per argomentare il proprio punto di vista con dati e fatti. Ma l’obiettivo rimane quello di offrire un commento, un punto di vista.

L’analisi, invece, non dovrebbe contenere l’opinione dell’autore: è chiamata a rivelare le diverse opinioni su un avvenimento o una tendenza, o più semplicemente a spiegare la complessità di una particolare situazione.

L’articolo serve a chiarire, non a giudicare. Prevede citazioni di osservatori esterni e dati che rafforzano le argomentazioni.

In Italia mi sembra che dominino i commenti più delle analisi. Sono più facili da scrivere e soprattutto meno controversi, se allineati alla proprietà.

In Italia ci si giustifica dicendo che un giornalista — come qualsiasi individuo — è portatore del suo bagaglio personale e quindi inevitabilmente soggettivo. È possibile. Ma farei una differenza tra oggettività e imparzialità: forse l’oggettività è difficile da raggiungere, ma l’imparzialità dovrebbe essere l’obiettivo del buon giornalismo.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 2 dicembre 2025

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3 Commenti

  1. Giuseppe 4 dicembre 2025
  2. Angela 4 dicembre 2025
  3. Angela 4 dicembre 2025

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