La Via Crucis di Bruno Vespa

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vespa12

Dalla riflessione di Bruno Vespa di venerdì santo da Gerusalemme che ha preceduto, su Rai 1, la via crucis del Colosseo, emergeva la potente fascinazione esercitata dal luogo, considerato sacro da ebrei, cristiani e musulmani. È come se il giornalista, dinanzi a quelle mura, a quelle moschee e a quella terra calpestata da Gesù, provasse “timore e tremore” e scorgesse, forte, l’eco dei millenni e, forse, di una dimensione ultramondana.

Proprio quell’elevatissima densità e intensità del “sacro”, vissuto e interpretato in almeno tre forme differenti, sarebbe così la chiave di lettura dell’impossibilità, oggi, di coesistere. Quasi fossimo al cospetto di un “troppo”, di un “eccesso”: una luce che abbaglia e impedisce di vedere, un suono tanto elevato che non consente di ascoltare.

Una lettura suggestiva, e a suo modo seducente. Ma è davvero così? Dipende veramente da una sorta di surplus di fede e di storia se la pace è abissalmente lontana da quei luoghi?

Il celeberrimo episodio di Gesù nel Tempio, ricordato peraltro da Vespa, ci suggerisce un’altra pista: se il potere legato alle presenze e alle pratiche religiose avesse, lì come altrove, attratto a sé interessi, forze e persone fondamentalmente estranee alla lettera e allo spirito delle fedi?

Se la zizzania si fosse insinuata fra le spighe di grano, fino a prevalere? Se forze esterne alle moschee, al Tempio, al Golgota orientassero quelle che paiono lotte intestine? Negli anni di Gesù, come è noto, diversi erano i “partiti religiosi” giudaici, le fazioni, le cosiddette “sette”: farisei, sadducei, zeloti e vari altri. Eppure a dominare era la spada imperiale di Cesare.

E neppure occorre con ciò ridurre la fede religiosa, nella pluralità delle sue forme, a instrumentum regni, a mero mezzo di sopraffazione nelle mani di despoti, principi e presidenti.

Ad aver colto bene tutto ciò era il frate servita Paolo Sarpi (1552-1623): ben consapevole, da un lato, dell’uso politico della religione (fu uno dei più importanti difensori dell’autonomia della Repubblica di Venezia al cospetto dell’Interdetto papale, che colpì la Serenissima proprio ad aprile, nel 1606), dall’altro del carattere relativo di tale uso: “Il politico, in formar la città, si vuol servire di tutta la materia che truova, uomini, denari, armi, spassi, medicine, etc. e se alcuno di cotali stromenti manca, egli ne fa senza. Perché anco trova la Tora (la legge di Dio, ndr), se ne serve, ma farebbe senza di lei se non la trovasse”.

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