Il Nobel per l’Economia oltre il patriarcato

di:

claudia goldin

La recente sensibilità alle discriminazioni di genere spesso manca di precisione analitica: l’abuso dell’espressione «patriarcato» finisce per presentare gli squilibri tra i generi – qui semplifichiamo: uomini e donne – come un sistema di oppressione ancestrale e immutabile. Da abbattere in una traiettoria che va dall’oppressione all’emancipazione, per quanto lenta e faticosa.

Il premio Nobel per l’economia a Claudia Goldin dell’università di Harvard è un utile stimolo a scardinare queste certezze, diffuse soprattutto tra chi rivendica la massima sensibilità all’argomento.

Per tutti i dettagli sul lavoro di Goldin rimando alla sintesi curata dal comitato per il Nobel e al background scientifico. Qui mi limito ai suoi risultati che contraddicono, con rigore scientifico, la visione semplificata ma dominante delle questioni di genere.

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Il progresso non basta

La curva a U che vedete qui sopra è che è uno dei risultati di ricerca più noti di Goldin ribalta l’idea che il progresso coincida con una maggiore facilità delle donne a partecipare al mercato del lavoro (con tutto quello che comporta in termini di autodeterminazione, autonomia economica dagli uomini ecc.).

Goldin ha studiato i dati di lungo periodo negli Stati Uniti e ha visto che le statistiche ufficiali andavano maneggiate con cautela. Perché per una lunga fase le donne sposate venivano identificate come «mogli» ma questo non era equivalente al novecentesco concetto di «casalinghe».

In economie contadine o proto-industriali, le donne potevano essere mogli e madri ma al contempo lavorare nei campi o in quelle prime forme di industrializzazione a cottimo e domicilio che precedevano la fabbrica.

Oltre a caricarsi di quasi tutto il lavoro di cura dei bambini (meno degli anziani, che morivano presto), le donne erano anche a tutti gli effetti presenti nel mercato del lavoro. Poi l’arrivo delle fabbriche ha imposto una scelta: o a casa o al lavoro, le vie di mezzo erano scarse e scoraggiate.

Quando l’economia cambia di nuovo, e a fianco delle fabbriche si sviluppa un vasto settore impiegatizio, si aprono nuove opportunità per le donne: quelli dei «colletti bianchi» sono posti sicuri, tranquilli, ben pagati. Il lavoro impiegatizio era maschile all’85 per cento nel 1890, diventa presto a maggioranza femminile. Ma la partecipazione alla forza lavoro delle donne non aumenta: per le donne sposate, negli Stati Uniti, era socialmente riprovevole lavorare, e in alcuni casi anche vietato per legge.

Ci sono due implicazioni attuali in queste scoperte storiche di Goldin.

Primo: la partecipazione e la discriminazione delle donne non sono fattori strutturali e ineliminabili, e non dipendono (soltanto) dall’atteggiamento degli uomini, ma anche dalla struttura dell’economia.

Lo smart-working, per esempio, potrebbe oggi garantire una partecipazione alla forza lavoro analoga a quella pre-industriale, perché consente di combinare accudimento dei figli (e oggi dei genitori anziani) con un lavoro.

Seconda implicazione: le barriere istituzionali sono un problema maggiore dei pregiudizi individuali e possono essere insormontabili per le donne.

Ma i pregiudizi e la discriminazione contano, eccome. Altre ricerche di Goldin dimostrano che quando il salario è legato alla performance – per esempio il lavoro a cottimo – la differenza retributiva tra uomini e donne è minima, mentre sale quando si passa a salari mensili, scatti di carriera ecc.

La dinamica è fin troppo nota: capi maschi tendono a promuovere altri maschi, che hanno fatto più carriera perché non si sono mai fermati per mesi o anni per accudire bambini ecc.

Scelte riproduttive e aspettative

Le ricerche di Goldin con Lawrence Katz sull’impatto della pillola anticoncezionale, disponibile negli Stati Uniti dagli anni Sessanta, sono invece più coerenti con la narrazione assodata nel vasto campo progressista e femminista in particolare: la possibilità di ritardare il matrimonio – che non è più la precondizione per una vita affettiva autonoma – e il momento di fare figli.

Quello che è più sorprendente è il ruolo delle aspettative: le carriere insoddisfacenti di molte donne – soprattutto prima della pillola – dipendevano anche dalla scelta tutto sommato razionale di investire poco sulla propria formazione, perché il percorso professionale di una donna lavoratrice era destinato a interrompersi dopo pochi anni con l’arrivo dei figli e riprendere – forse – dopo parecchio tempo e senza grandi prospettive.

Le donne si formano aspettative guardando le loro madri. Gli ostacoli nel percorso professionale di una generazione possono influenzare le aspettative di quella successiva e quindi le scelte in materia di istruzione.

A 20 e 21 anni, le donne nate nel 1947-1948 si aspettavano di lavorare a 35 anni in una percentuale del 30 per cento, perché quella era più o meno la quota che osservavano nella generazione delle loro madri. E hanno fatto le loro scelte educative di conseguenza, con poca università e molta attesa di una maternità imminente che le avrebbe messe fuori dal mercato del lavoro.

Ma i cambiamenti dell’economia e l’introduzione, tra l’altro del part-time, hanno disegnato per loro un futuro diverso e a 35 anni lavoravano il 65 per cento di loro, più del doppio delle attese. Ma lavoravano in occupazioni coerenti con una bassa istruzione, dunque con scarsa soddisfazione e salari mediocri.

Le donne un po’ più giovani, quelle del 1958-1959, a 20-21 anni avevano però aspettative molto diverse da loro: poiché vedevano una maggiore partecipazione femminile, si aspettavano di lavorare a 35 anni all’80 per cento.

Se ti aspetta una vita di lavoro e un matrimonio meno imminente, grazie anche alla pillola anticoncezionale, allora vale la pena studiare di più e scommettere sulla carriera.

Cosa si può fare?

Oggi le cose sono cambiate, le donne studiano quanto o più degli uomini, anche se le aspettative continuano a contare parecchio. Le donne, per esempio, ancora si concentrano su lauree umanistiche più che in quelle STEM, cioè le scienze dure (economia inclusa, nella parte più quantitativa) che garantiscono salari maggiori.

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Però proprio Goldin ha dimostrato che il grosso delle differenze retributive con gli uomini sono all’interno dello stesso campo, non tra i campi. Cioè il problema non è che ci sono poche donne che fanno gli ingegneri (o ingegnere), ma che gli ingegneri donne sono pagate meno degli ingegneri uomini.

Come mai?

Sempre Goldin, con Marianne Bertrand, ha studiato l’andamento delle retribuzioni degli studenti dell’Università di Chicago che hanno completato un MBA (il programma che ho seguito anche io). Grado di istruzione molto elevato, ambizione, spinta alla carriera: tutto bene, per uomini e donne, finché non arrivano i figli e le donne restano indietro con i salari, anche perché si assentano dal lavoro molto più degli uomini.

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La ricerca economica indica molte soluzioni concrete percorribili a queste storture. Grazie a Goldin sappiamo che non basta confidare nella crescita economica, che non fa automaticamente crescere la partecipazione femminile al lavoro e non riduce gli squilibri retributivi con gli uomini di per sé.

Ma sappiamo quali sono le cose che funzionano.

Paola Profeta, economista della Bocconi, in un articolo per l’«Institute for European Policymaking» (col quale collaboro) ha commentato le due direttive europee su quote rosa nei consigli di amministrazione e trasparenza sulle buste paga.

In sintesi: la ricerca ci dice che l’obbligo di avere un certo numero di donne nei consigli di amministrazione o nei board non danneggia le aziende, anzi. I consigli sono di qualità migliore, in termini di istruzione, età, e indipendenza (meno appartenenti alle stesse famiglie). Più donne ci sono nei board delle banche centrali, inoltre più la banca diventa prudente nel gestire l’inflazione.

Se siete curiosi della situazione italiana, a vedere il gender pay gap, cioè la differenza retributiva in base al sesso, sembriamo messi molto bene. O almeno meno peggio di altri.

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Ma c’è il trucco: in Italia la partecipazione alla forza lavoro delle donne è molto più bassa che in altri paesi Ocse, dunque le donne guadagnano poco meno degli uomini ma sono molto poche quelle che lavorano. Anche rispetto a paesi comparabili, come la Francia.

Ma come ci insegna Goldin, e come sancisce il premio Nobel che si è guadagnata, le statistiche descrittive sono soltanto la base per l’analisi, non la sua conclusione.

  • Dal blog Appunti, 10 ottobre 2023
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