
Foto di Annette Jones da Pixabay
Vorrei sottolineare due passaggi del discorso ampio e denso (qui) del Presidente Mattarella il 19 dicembre alla cerimonia di scambio di auguri con le diverse autorità politiche e civili.
Primo passaggio: «Abbiamo il dovere di coltivare e consolidare ogni piccolo spiraglio che si apra rispetto ai conflitti in corso, in Ucraina come in Medioriente. Con l’obiettivo di costruire quella “pace permanente”, come la definì il presidente Franklin D. Roosevelt che affermava: “Più che una fine della guerra vogliamo una fine dei principi di tutte le guerre”».
Secondo passaggio: «Il pluralismo delle idee, la dialettica tra opinioni diverse, il confronto tra posizioni culturali anche molto distanti sono indispensabili alla democrazia. Ma quando le sbrigative categorie amico/nemico prevalgono sulla fatica di trovare risposte condivise nell’interesse collettivo, quando si producono fratture che dividono le nostre società si alimentano i germi della estraneità alla politica».
Frasi inequivocabili, per superare quelle contrapposizioni che vediamo all’opera in questi anni, nel gioco tremendo di distribuire la «colpa» dei conflitti a questo o a quello. In realtà la «fine dei princìpi di tutte le guerre» è un appello etico e politico allo stesso tempo. Etico perché ogni conflitto è ingiusto in quanto colpisce la vita civile nelle sue articolazioni (scuole, ospedali, abitazioni, luoghi di riunione ed incontro). Politico perché ogni conflitto nasce dal fallimento della via della mediazione e dell’accordo – le «risposte condivise» del discorso del Presidente della Repubblica.
***
E l’1 gennaio 2026 è la Giornata Mondiale della Pace che non per caso ha per titolo «La pace sia con tutti voi. Verso una pace disarmata e disarmante». Cosa dice la convergenza tra il Papa da un lato e il Presidente della Repubblica? Al di là del cattolicesimo in politica del secondo, non possiamo annacquare la richiesta di riflessione che viene dai Due.
La riflessione si sostanzia nel cercare di compiere un passo avanti teorico e pratico. Dal punto di vista teorico dobbiamo riconoscere che le armi di cui oggi si dispone, rendono i conflitti eticamente insostenibili. I costi umani si scaricano sui civili; i costi materiali compromettono l’ambiente umano e l’intero ecosistema. Nel medio-lungo periodo, i conflitti hanno conseguenze troppo pesanti sulla convivenza civile delle popolazioni coinvolte.
Ricordo quello che diceva tre mesi fa mons. Vincenzo Paglia a Settimananews (qui): «La “guerra giusta” non esiste. Anzi le dirò: non è mai esistita. Ogni conflitto ha cause lontane e quando esplode vediamo la sintesi delle diverse cause sedimentate durante gli anni. È davvero difficile distinguere ‘nettamente’ tra un aggressore e un aggredito, sono due parti di una medesima medaglia. In ogni caso, la tecnologia bellica sta rendendo moralmente inaccettabile qualsiasi conflitto.
Aveva ragione don Luigi Sturzo nell’esortare a mettere fuori legge la guerra come tale! Va ridato spazio al multilateralismo, alle soluzioni negoziate, ad una politica sapiente che abbia a cuore il bene comune, non il bene particolare di qualcuno a scapito di qualcun altro. I politici fanno fatica e una cultura ‘sovranista’ fa prevalere sempre l’ ‘io’ (etnico o staturale) al ‘noi’ della società umana.
Purtroppo la guerra, oggi, è stata come sdoganata. E si sta riaffermando una economia ad essa confacente. Va dimostrato il contrario. È solo pace a favorire uno sviluppo stabile. E le dimostrazioni ci sono. Penso al gesuita economista Gael Giraud che ha pubblicato testi illuminanti o anche alla economista Mariana Mazzucato che dimostra la via alternativa a questo capitalismo odierno. Se non seguiamo queste strade, ci autodistruggiamo e non ci sarà più pane per nessuno. Anche la Chiesa deve fare di più. La sua parte – sulla scia di don Sturzo – è gridare: ogni conflitto è fuorilegge».
***
Il passo avanti «pratico» riguarda i teologi, gli intellettuali, gli imprenditori, gli economisti e quindi i politici. Far vedere in che modo la pace è più redditizia della guerra. Far vedere in concreto, in che modo un’economia di pace fa prosperare tutte le componenti di un paese. E non è utopia.
Kenneth Arrow (premio Nobel per l’Econonia 1972), ha dimostrato che l’incertezza riduce gli investimenti e l’innovazione; la pace è una condizione istituzionale che abbassa l’incertezza sistemica; senza stabilità politica, i mercati funzionano male o per niente.
Douglass North (premio Nobel per l’Economia 1993), ha dimostrato che le società crescono quando i diritti di proprietà sono stabili e le regole sono prevedibili, mentre la guerra distrugge esattamente questi due aspetti.
Paul Collier (Università di Oxford) ha studiato i paesi colpiti da conflitti, evidenziando come una guerra civile possa ridurre il Prodotto interno lordo tra il 10 e il 20%, mentre i paesi che restano in pace attirano investimenti.
Joseph Stiglitz (premio Nobel per l’Economia 2001) ha calcolato i costi reali delle guerre moderne in termini di debito, sanità, veterani, opportunità perse, stimando che le guerre Usa post-2001 costano trilioni di dollari. Da notare che trilione non è un termine dei fumetti, bensì è uguale a 10¹², cioè un 1 seguito da 12 zeri (in dollari).
John Maynard Keynes – proprio lui! – capì dopo la Prima Guerra Mondiale che una pace autentica produce crescita mentre una pace fragile è la base di un prossimo conflitto.
Amartya Sen (premio Nobel per l’Economia 1998) ha ridefinito lo sviluppo come: salute, istruzione, libertà reali; tutti aspetti incompatibili con la guerra.
Il sociologo e matematico norvegese Johan Galtung ha studiato gli effetti del commercio come modo di prevenire i conflitti e il ruolo politico positivo dell’integrazione economica (la UE insegna).
***
Poi abbiamo le tradizioni religiose che dovrebbero impegnarsi a fondo per incalzare la vita politica di ogni paese a seguire la via della pace. Come scrive il Papa nel Messaggio per l’1 gennaio: «Le grandi tradizioni spirituali, così come il retto uso della ragione, ci fanno andare oltre i legami di sangue o etnici, oltre quelle fratellanze che riconoscono solo chi è simile e respingono chi è diverso. Oggi vediamo come questo non sia scontato. Purtroppo, fa sempre più parte del panorama contemporaneo trascinare le parole della fede nel combattimento politico, benedire il nazionalismo e giustificare religiosamente la violenza e la lotta armata. I credenti devono smentire attivamente, anzitutto con la vita, queste forme di blasfemia che oscurano il Nome Santo di Dio. Perciò, insieme all’azione, è più che mai necessario coltivare la preghiera, la spiritualità, il dialogo ecumenico e interreligioso come vie di pace e linguaggi dell’incontro fra tradizioni e culture. (…)
Oggi più che mai, infatti, occorre mostrare che la pace non è un’utopia, mediante una creatività pastorale attenta e generativa. D’altra parte, ciò non deve distogliere l’attenzione di tutti dall’importanza della dimensione politica. (…) È la via disarmante della diplomazia, della mediazione, del diritto internazionale, smentita purtroppo da sempre più frequenti violazioni di accordi faticosamente raggiunti, in un contesto che richiederebbe non la delegittimazione, ma piuttosto il rafforzamento delle istituzioni sovranazionali».
Una pace «disarmata e disarmante» ma – come si vede – non ingenua e neppure utopistica.





