Tra Scilla e Cariddi: carcere e scuola

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scuola

Pubblichiamo qui una relazione[1] tenuta al raduno annuale del CCIT Comité international Catholique des Tziganes[2] svoltosi a Praga. Per trattare del tema della crisi e della vulnerabilità si è scelto come punto di partenza e come base per la riflessione un’esperienza di lettura collettiva che si svolge presso la scuola di un carcere del nord Italia. La riflessione ha l’andamento di una relazione orale ed introduttiva ad una discussione comune.

Propongo una piccola riflessione sul significato possibile della crisi e del suo attraversamento consapevoli che sono molte le crisi a livello personale, comunitario e collettivo. Rimando da subito a un bel discorso di papa Francesco – del 21 dicembre 2020 – sul senso biblico e sul significato spirituale della crisi, in quel bel testo egli racconta la crisi come un evento che prima o poi tocca tutti, singoli, comunità, istituzioni.

Si tratta per papa Francesco di un momento delicato, di estrema vulnerabilità, ma anche di possibili evoluzioni, aperture, maturazioni infatti: “Dio continua a far crescere i semi del suo Regno in mezzo a noi”.[3]

Ho, quindi, molto pensato come impostare questo breve discorso che vorrei diretto e non astratto. Credo che ogni discorso nasca in definitiva da un’esperienza perché ogni esperienza profonda in qualche modo ci sposta, ci modifica, ci influenza. Negli ultimi anni una parte del mio lavoro di insegnante – e anche di teologo – l’ho fatto in carcere, quindi vorrei qui parlare con voi e a voi, rom e non rom, a partire da questo luogo, per me, difficile e caro.

Credo che può essere utile seguire il lavoro e l’esperienza fatta con classi e gruppi di studenti detenuti del carcere della città, non tanto perché sia un’esperienza esemplare, ma perché mi pare importante riflettere qui sulla crisi e il suo attraversamento a partire da un terreno concreto su cui stare.

Se qualcuno fosse interessato ad approfondire vi consiglio anche un documentario – Dustur che in arabo significa Costituzione – curato da Marco Santarelli e Ignazio de Francesco sul tipo di lavoro che si può svolgere in carcere; consiglio inoltre di leggere Lampada a sé stessi di Pier Cesare Bori[4] che molto ha lavorato sul tema della lettura (interreligiosa) in contesti detentivi.

A partire da queste esperienze ho individuato, in maniera molto ampia, alcune tappe che credo possano essere applicate a diversi ambiti personali e comunitari, ecclesiali e sociali. Ho così suddiviso la riflessione in alcune tappe più una conclusiva di sfondo, nella consapevolezza che “la vita è superiore all’idea” e che si tratta solo di piste di ricerca, senza alcuna pretesa di ordine e completezza, ma con il desiderio di aprire riflessioni e confronti.

Per attivare la conversazione comune mi permetto di: a) introdurre ogni tappa con brevi citazioni, ci cui la maggior parte sono di Etty Hillesum, un’ebrea – perseguitata, detenuta e poi uccisa – negli anni ‘40, b) aggiungere qualche testo in nota e, infine, c) concludere ogni tappa con un interrogativo, che spero utile.

“Signore ognuno di noi è a una delle tue frontiere […] noi avevamo pensato che tutti i paesi fossero segnati sulle carte geografiche e che le linee nere che indicano le ferrovie e i battelli fossero sufficienti per andare dagli uni agli altri. Vivendo in mezzo agli uomini, noi abbiamo imparato il contrario. Se ci sono carte geografiche in estensione, ce ne vorrebbero in spessore” (M. Delbrêl, Missionari senza battello – in occasione della partenza di missionari dal porto di Le Havre 1943).

Il terreno di partenza

Parto a riflettere – come prima tappa – descrivendo il tipo di lavoro che facciamo con un gruppo di giovani ricercatori e ricercatrici presso alcune classi di una scuola superiore di un grande carcere del nord Italia.

Sono classi di persone detenute: vi sono quelli in alta sicurezza quindi persone accusate di essere collegate a qualche tipo di associazione, le classi di detenuti di media sicurezza con accuse per reati diversi per gravità e per lunghezza della pena (vi sono ad esempio alcune persone molto giovani già con pene lunghissime), una classe è di studenti detenuti protetti ossia accusati, in prevalenza, di reati a sfondo sessuale o con uno statuto particolare. Una classe – molto bella e vivacissima – di donne con provenienze culturali e linguistiche estremamente diverse.

Cosa facciamo? In queste classi, nell’ambito dell’insegnamento scolastico, leggiamo testi classici (Antigone[5], l’Iliade, l’Odissea, alcune favole di Luis Sepulveda, alcuni libri della Bibbia – come Giona – con anche versetti coranici a commento, diverse poesie) cercando di capire insieme questi testi con domande filosofiche sulla vita, le scelte, la giustizia e l’ingiustizia.

Insomma cerchiamo domande e risposte che ci aiutino a leggere la crisi personale e collettiva che le persone in classe stanno attraversando, sperando di avere da questo lavoro di lettura qualche chiave per leggere le nostre crisi collettive. Questo è davvero – per usare le parole di Paulo Freire – un lavoro “con”: riflettiamo insieme con gli studenti e i giovani – studenti e ricercatori – in una comunità di ricerca strana, ma spesso estremamente viva, interrogante e talora drammatica.

Ci pare che tale lavoro sia molto ricco perché è collocato su una frontiera sociale (chi è dentro e chi è fuori) ma soprattutto perché ci si trova su molte frontiere della vita dell’uomo (tra disperazione e speranza, tra violenza e pace, tra ingiustizie radicali e ristabilimento della giustizia, tra solitudini giganti e ricerca del sostegno umano, tra umiliazione e dignità). Forse – ma è solo un’ipotesi – per tentare di comprendere ogni crisi bisogna cercare di osservarla e comprenderla da una zona di ‘frontiera’, da un qualche ‘margine’[6].

  • Qual è il mio/nostro contesto? Quali le frontiere su cui siamo collocati?

“Lo spirito non dovrebbe forse continuare a lavorare e a essere creativo anche quando il corpo è malato? E amare e hineinhorchen [ascoltare dentro] se stessi, gli altri, il contesto di questa vita, e te. Hineinhorchen, vorrei trovare una buona traduzione olandese di questa parola. In fondo la mia vita è un ininterrotto ascoltar dentro me stessa, gli altri, Dio […]. La parte più essenziale e profonda di me che ascolta la parte più essenziale e profonda dell’altro” (E. Hillesum, 17 settembre 1942).

Cercare di capire cosa succede

Una seconda tappa del nostro lavoro è quella della lettura insieme dei testi. I testi – come la realtà – hanno bisogno di tempo per essere capiti, per comprendere chi sono i personaggi, il loro carattere, il loro modo di comportarsi.

Non solo, è molto importante prendere il tempo necessario per capire le parole usate: molti studenti sono non italiani, vi sono molti slavi, molti arabi e africani, diversi sudamericani, quindi le parole italiane suonano difficili e con significati diversi. Poi bisogna capire cosa succede, perché i personaggi si comportano in un certo modo, quali sono i molti sentimenti in gioco presenti nei racconti e i sentimenti che invece sono suscitati dal racconto nelle nostre piccole aule (che hanno qualche volta come sfondo le urla e i rumori del carcere).

Va inoltre sottolineato che per tutti coloro che visitano i nostri laboratori risulta forte la differenza tra le sezioni maschili e quella femminile, lì le domande e le risposte sono diverse, il modo di sentire più ricco, il contatto con i sentimenti più diretto, la commozione e le lacrime – rispetto alla talora ostentata durezza dei contesti maschili – più immediate: la lettura – e la realtà – risulta così profondamente diversa per gli uomini e per le donne.

Sembra un’osservazione banale, ma sappiamo che non lo è: il punto di vista maschile appare lì per quello che è, un punto di vista parziale. La lettura insieme richiede, così, molto tempo e credo sia l’operazione che ogni rapporto con la realtà richiede, ossia cercare i piccoli indizi e i segnali che aiutano a decifrare quello che succede nel racconto, nella realtà e in me.

  • Come lavoriamo sul cercare di comprendere quello che succede? Quali i segnali che ci interrogano ora?

“C’è differenza fra temprato e indurito. Spesso non se ne tiene conto, oggi. […] Temprato distinguerlo da indurito” (E. Hillesum, 28 luglio 1942 otto e mezza di sera).

Cercare le parole

Una terza tappa può essere descritta da una poesia di un amico – che vi allego in nota[7] – la quale ha come ritornello “io cerco le parole”. Si tratta del lavoro che facciamo assieme per “dare la parola”, per trovare le parole giuste nel descrivere quanto avviene nel racconto, ma molto spesso questa ricerca sfocia nel raccontare – a volte con grande rabbia, a volte con saggezza e voglia di riscatto, a volte con rassegnazione sconfitta – la situazione delle persone in classe.

Ad esempio il viaggio di Ulisse diviene la metafora del viaggio nella prigione e negli ingranaggi infernali della giustizia. La lontananza da Itaca viene interpretata come il simbolo del raffreddamento – drammatico per molti – dei rapporti con la moglie e i figli, che avviene dopo lunghi anni di carcerazione e di contatti radi (poche settimane fa una signora proveniente da un paese africano ci ha raccontato che per anni – prima dei cellulari – per dare notizie alla madre senza telefono fisso nel villaggio incideva lunghe audio cassette con le proprie notizie che poi mandava in Africa).

Le vicende di Ulisse con altre donne l’occasione per parlare dei tradimenti subiti dagli uomini della propria vita. Per molti – ascoltando il ritorno di Ulisse a Itaca – emerge la questione del non semplice ritorno a casa, non solo per i lunghi anni dentro, ma vengono domande del tipo: chi sarò per i miei figli? Cosa troverò? Come sarà dopo dieci, venti, trenta anni, la relazione con il mio compagno/a?

È la tappa in cui insieme cerchiamo le parole adatte per descrivere quello che sta succedendo. È una tappa complessa, che qualche volta sfida la disperazione e il cinismo, perché dentro spesso – ma anche fuori – da l’impressione che «tutte le parole sono spossate/stanche/senza forza» (Qo 1, 8).

Talora bisogna attraversare questa fase in cui ogni parola sembra vuota, senza valore per poter giungere ad una riconquista di parole con un senso o in una espressione inglese molto bella words that make sense parole che costruiscono un senso. Se si riesce in qualche modo ad aggirare questa barriera del “è tutto inutile”, “sono tutti uguali”, “fa tutto schifo” si apre un nuovo compito.

Infatti, sul piano personale, ognuno si trova impegnato a cercare le parole che sente giuste per lui/lei, per trovare un’interpretazione con un qualche senso del racconto della propria vita.

Questo, sul piano del lavoro insieme, vuol dire aiutarsi a trovare parole adatte che non siano solo un’esplosione di dolore, scompenso e rabbia [talvolta è così], ma che siano espressione di un dolore che viene in un qualche modo sostenuto, che non siano quindi parole-chiuse, parole-tomba con cui sentire la propria vita come sepolta, ma parole aperte che aprano qualche tipo d’orizzonte.

Spesso in questo lavoro si sente che vi è una differenza nei lunghi anni in carcere tra l’essere induriti e resi insensibili e l’essere temprati, in qualche modo maturati. È un lavoro difficile e delicato, in cui tra diversi errori e tensioni, faticosamente si cercano parole che aiutino a non chiudersi, ad orientarsi in una situazione spesso buia verso una qualche luce.

  • Quali parole cerchiamo? Quali le realtà per noi più indecifrabili?

“In me c’è un silenzio sempre più profondo. Lo lambiscono tante parole, che stancano perché non riescono ad esprimere nulla. Bisogna sempre più risparmiare le parole inutili per poter trovare quelle poche che si sono necessarie” (E. Hillesum 25 luglio 1942).

La parola e il silenzio

Una quarta tappa probabilmente può essere individuata nella ricerca non solo delle parole, ma anche nella ricerca del silenzio. Intendo qui due cose. Uno spazio collettivo in cui si può leggere, ragionare e riflettere insieme, al riparo, almeno un po’, dalla violenza, dalla tensione e dal rumore del carcere.

Una letterina della scorsa estate – di uno studente di una sezione di alta sicurezza – diceva così: “è stato un piacere avervi conosciuto ma soprattutto condividere le nostre emozioni dopo la lettura dei testi, e credetemi, in certi contesti, la mente torna ad essere libera per qualche ora, e per tutti noi fa tanto”. Tale lavoro sembra aiutare le persone a cercare un poco di spazio interiore – e collettivo – in cui soppesare le cose e in cui poterle condividere.

Credo sia quel luogo ossia il cuore di cui parla spesso la Scrittura in cui si custodiscono, si confrontano, si valutano le cose che stanno avvenendo per cercarne di capire il significato[8]. Questo in carcere lo si fa con grande delicatezza e con attenzione perché spesso per chi è detenuto – ma forse non solo lì – l’intimità è abitata da un dolore e da una fatica giganteschi, da rabbia e da violenza subita e agita, da malinconie recenti e antiche.

Il cuore è un luogo delicato e quindi bisogna essere attenti nell’invitare a rientrare in sé e a dialogare con sé stessi, nello stesso tempo ci pare un passaggio essenziale per poter fare un cammino e forse per trovare risorse interiori. Un poeta antico – e una poetessa recente – parlano di una specie di sorgente del cuore, di una frescura al centro del petto che bisogna in qualche modo disseppellire[9].

Spesso le stesse persone detenute cercano questo luogo, dedicando spazio – soprattutto verso sera e di notte – a scrivere, a leggere e comporre poesie, a redarre lettere lunghissime, a diari, a disegni e molto spesso a scrivere narrazioni della propria vita. Quella crisi particolare che è la vita dentro un carcere ha un grande bisogno di interiorità, di un luogo di custodia del silenzio e della parola.

  • Quale la coltivazione dell’interiorità? Quale spazio alla parola soppesata e al silenzio? Quali le risorse che tale spazio – di silenzio e parola custodita – può dare per riconoscere e attraversare le crisi?

“Il mio cuore è una chiusa che ogni volta arresta un flusso ininterrotto di dolore” (E. Hillesum, 17 settembre 1942).

Tentativi di risposte alla fine del mondo

Una quinta tappa, estremamente complessa, è il progressivo e discontinuo venire a galla da parte di alcuni studenti detenuti di numerosi traumi. Traumi di cui si è stati gli attori e traumi di cui si è stati o si è le vittime.

È un tema estremamente complesso e delicato in cui non possiamo qui entrare. Però possiamo dire che nelle letture insieme emergono una serie di questioni, ne ricordiamo solo alcune: una prima questione riguarda il rapporto con la propria famiglia – quando c’è – con i propri figli, genitori, compagni e compagne.

È il tema della casa, della nostalgia del ritorno, del distacco da un mondo amato. Uno studente detenuto – originario di una zona di confine del medio oriente – in un dialogo recente in una classe ha parlato che il rapporto con la propria moglie e i figli piccoli dopo ormai diversi anni di carcere è come un vetro rotto, difficile da riparare, rovinato per sempre. Credo che qui si parli davvero del cuore spezzato di cui spesso trattano i salmi e le scritture[10].

Un secondo tema che spesso emerge è la fine di un mondo, del proprio mondo, moltissimi raccontano nelle nostre riunioni dei primi giorni in carcere in cui ti sembra che il mondo sia venuto giù – credo precisamente nel senso apocalittico di cui parla Mt 24 – oppure altri narrano del giorno della sentenza, il giorno in cui hanno sentito abbinare al proprio nome la parola ‘ergastolo’ o la descrizione della propria persona come ‘omicida’, come ‘criminale pericoloso’.

Si tratta davvero della fine di un mondo, del proprio mondo, che porta ad un grande smarrimento, ad un vacillare di molte certezze, ad una domanda sul ‘sentirsi persi’. Alcune settimane fa uno studente ha detto che vorrebbe incontrare Tiresia, l’indovino cieco, a volte uomo, a volte donna, che dice la verità nelle tragedie greche e nell’Odissea, per poter rispondere alla domanda ‘chi sono io?’. La crisi comporta sempre un passaggio attraverso una qualche “fine del mondo”, una ridefinizione di sé, che è davvero una prova molto dura e sradicante, dentro e fuori dal carcere.

Nel lavoro insieme cerchiamo, attraverso la lettura e la discussione comune sui testi, di parlare sapendo che sullo sfondo vi sono questi traumi, cercando così qualche elemento di risposta. Recentemente è stato pubblicato un bellissimo studio – Santa resilienza. Le origini traumatiche della Bibbia – sul fatto che, a ben vedere, anche la Bibbia ebraica e cristiana, in molte sue parti, può essere letta come la messa per iscritto di una serie di risposte al trauma, alla colpa, alla fine di un mondo.

Un esempio – ed un consiglio di lettura – riguarda la vicenda commovente del rabbi Kalonymus Shapira (Grodzisk 1889 – campo di concentramento di Trawniki 1943), di cui recentemente sono stati pubblicati discorsi e una breve biografia. Si tratta di un rabbi del ghetto di Varsavia durante gli anni dell’occupazione nazista e della soluzione finale.

I suoi testi – sotterrati nei giorni del ghetto e ritrovati alla fine della guerra – testimoniano un tentativo di sostenere la speranza e la fede degli ebrei della sua comunità in una situazione infera e buia, interrogandosi continuamente sul senso delle sofferenze e dei traumi subiti.

Con una fede molto salda e una ricerca intensa nelle Scritture parlava delle lacrime umane, di quelle di Dio, dell’assenza del Signore e della presenza nascosta del suo regno. Forse non solo la Bibbia, ma anche la sua interpretazione è spesso – anche – la ricerca di una risposta ai traumi personali, collettivi ed epocali[11].

  • Quali le crisi – personali e collettive – che rappresentano la fine del nostro mondo? Come e dove trovare le risposte per attraversarle?

“Bisogna essere sempre disposti a rivedere la propria vita, a ricominciare tutto da capo in un luogo diverso” (E. Hillesum 27 luglio 1942).
“Io, infatti, conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – dice il Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza” (Ger 29,11).

La possibilità del ripensamento

Una sesta tappa è qualche cosa di insondabile che talora si affaccia e si rivela. La chiamo con il termine ripensamento, ossia quando succede che nel lavoro insieme si intravede – certo grazie a percorsi molto lunghi, spesso carsici – una certa volontà di riconsiderazione della propria vita.

È una soglia che quando è attraversata diviene percepibile, ossia quando le persone dentro ripensano alla propria vita e attraverso la rabbia, le negazioni, gli infiniti sensi di colpa ripensano alla propria vita con un desiderio di cambiamento. Questa modalità mi pare che spesso si manifesti come un passaggio da una idea di destino – parola comunque centrale in molte culture mediterranee religiose e/o mitiche – ad una idea di responsabilità personale.

Quello che è successo, la crisi che si attraversa, la crisi che si ha provocato sono ora in qualche maniera legate a delle scelte. Si tratta di un evento molto delicato che ha a che fare con il contatto con sé stessi, con affetti che sostengono, con percorsi intellettuali che ampliano gli orizzonti, con l’esercizio della lettura e del pensiero critico, in una visione più laica questo significa l’essere toccati da quanto tocca in maniera ultima – the ultimate concern (P. Tillich) – in una visione cristiana e religiosa questo può essere descritto come l’azione della grazia, di una “luce gentile” (J.H. Newman), la grazia di poter ripensare la propria vita.

Alcuni mesi fa parlando dell’incontro di Ulisse con – ancora – l’indovino Tiresia che è capace di vedere il futuro si è chiesto in una classe se qualcuno di loro volesse sapere il proprio futuro in anticipo. Dopo un acceso dibattito uno studente del carcere, che di solito non interviene molto, ha detto: “conoscere il futuro non mi interessa, vorrei però cambiare delle cose del mio passato”.

Ecco mi pare che sia uno di quei segnali di un movimento indicante un desiderio di affrontare la propria vita, di disseppellire il bene e la speranza. Qui spesso mi aiuta a decifrare questi passaggi con gli studenti una comprensione del futuro trovata in Arjun Appadurai – e anche in Ivan Illich – nel suo lavoro con i poveri degli slum di Mumbai: c’è un modo ci concepire il futuro che è quello della previsione, del calcolo in base alle premesse attuali (e se così fosse per molti davvero le speranze si restringono potentemente), e vi è un modo di sentire e concepire il futuro che è quello della possibilità, di futuri possibili (che apre modi inediti e – piccole – vie di speranza)[12].

  •  Quali le previsioni sul nostro futuro? Dove/come cercare i futuri possibili?

“Quando verrà il regno di Dio?”. Egli rispose loro: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: “Eccolo qui”, oppure: “Eccolo là”. Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!” (Lc 17,21).

Un orizzonte di fondo

Quest’ultima affermazione sul tema dell’esistenza di possibilità di futuro apre ad un’ultima riflessione. Malgrado l’attività sia svolta in maniera laica e interreligiosa, senza atteggiamenti confessionali, la prospettiva che sorregge questo lavoro è quella di un collegamento profondo – seppur nascosto o carsico – tra un annuncio esistenziale e l’annuncio evangelico.

Questa prospettiva è raccolta in maniera sintetica e credo molto chiara in un appunto del giovane Bergoglio che commenta un testo – il racconto di un sogno – del teologo Romano Guardini: “questa notte mentre albeggiava, quando di solito arrivano i sogni, cominciai a farne uno. Cosa successe nel sogno non lo so più, però qualcosa fu detto, e non so se fu detto a me o su di me. E fu detto che quando l’uomo nasce gli viene donata una parola e ciò ha un significato molto importante: non è solamente una capacità o un’attitudine, ma è una parola.

Questa parola è detta dentro sé stesso (Wesen), però è una parola d’ordine (Passwort) per tutto ciò che accade. È sia forza che debolezza. È un incarico e un dono. È una sicurezza (protezione) e un rischio. Tutto ciò che accade mentre gli anni scorrono è la traduzione di questa parola, è il suo chiarimento, è la sua realizzazione. E tutto questo avviene perché colui a cui fu detta questa parola (a ogni uomo viene detta una parola) la comprenda e viva rispettandola. E forse questa parola sarà la base (il supporto) di quella che il Giudice un giorno gli dirà”.

Bergoglio nei suoi appunti di lavoro commenta così: “qui troviamo un riferimento a una nostalgia suscitata dalla prima Parola che fu detta (e ciò significa che fu annunciata). Quindi abbiamo un kerygma esistenziale previo al kerygma evangelico e sul quale si radica il kerygma evangelico. Com’è questo kerygma esistenziale? Questa parola-kerygma esistenziale è donata all’uomo. La sua vita è un’avventura fatta di incontri, perdite e re-incontri con la vita stessa.

I momenti in cui si realizza una sorta di ‘consonanza’ interiore riguardano l’incontro, quelli che si riferiscono alla ‘dissonanza’ sono la ricerca e il non-incontro. Anche qui abbiamo una base per la consolazione teologale (esempio di consonanza) e la desolazione (dissonanza). La parola centrale è: nostalgia. Questa parola, quindi, ha una storia: è storica […]. Il mito che meglio rappresenta sia il rincontro che il ritorno è quello di Ulisse: il nostos-algos [il dolore per ritorno a casa] in quel contesto è chiaro. Tutto il suo viaggio è non accettare le ‘parole’ che non sono la parola”[13].

Con quest’ultimo accenno ad un dialogo profondo tra i fondamenti della vita ed il vangelo – tra le biografie e l’azione nascosta del regno di Dio – spero di aver chiarito, almeno un po’, il senso del nostro lavoro. Credo anche che tale sforzo comune di leggere insieme storie importanti nel tentativo di far emergere gli snodi delle nostre storie – di persone dentro e fuori – sia un possibile aiuto nella ricerca di prospettive e possibilità nuove per attraversare le nostre vite e le nostre crisi.


[1] Il nome della relazione si riferisce, oltre che al racconto dell’Odissea, ad un dialogo avvenuto in classe: durante una lezione parlando di Scilla e Cariddi uno studente – molto sveglio – è intervenuto dicendo: “certo prof. Scilla e Cariddi sono… [tutti attendavano che facesse un riferimento geografico allo stretto di Messina] i nomi dei due bracci del carcere di Reggio Calabria [facendo cioè riferimento ad un altro tipo di geografia e di senso del mondo]”.

[2] https://www.ccitsiganes.org/

[3] https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2020/december/documents/papa-francesco_20201221_curia-romana.html

[4] http://www.settimananews.it/profili/pier-cesare-bori-percorso-intellettuale/

[5] http://www.settimananews.it/societa/leggere-antigone-in-carcere/

[6] J.M. Bergoglio, «Criteri di azione apostolica», in Id. Pastorale sociale, a cura di M. Gallo, Jaca Book, Milano 2015, 63: «Un’opera perde il suo vigore apostolico quando è incapace di volgersi apostolicamente verso la frontiera e di conseguenza quando non sa raccogliere in sé le problematiche e le persone che fanno parte di questa frontiera».

[7] “I piccioni atterrati frugano / tra le foglie di gennaio / il pettirosso sgomento / invoca la neve persa / il picchio e la ghiandaia / scrutano alberi da depredare / la donna ricciuta sulla panchina / cerca un senso / al romanzo che legge / l’anziano chiama / il cane fuggito / Io cerco le parole / per narrare lo scempio / dei volti e dei nomi / dei gesti e dei desideri / degli abbozzi e dei sogni / come in cielo così in terra / Io cerco le parole / Per sottrarle / alla luce corrosiva / e avvolgerle / nel panno del silenzio / e adagiarle / nella teca della lentezza / e la teca nell’antro del tempo / dove la polla d’argento / l’acqua fossile / della terra sorgente” (M. Mattarelli, Almeno la notte, Bologna 2016).

[8] Lc 2,19: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore/πάντα συνετήρει τὰ ῥήματα ταῦτα συμβάλλουσα ἐν τῇ καρδίᾳ αὐτῆς.”.

[9] “Ci sono due tipi di intelligenza: una acquisita / come lo scolaro memorizza fatti e concetti / dai libri e da quel che il maestro dice, / accumulando informazioni dalle scienze tradizionali, / come da quelle nuove. / Con questa intelligenza emergi nel mondo / ti collochi davanti o dietro gli altri / in base alla tua competenza nel memorizzare / l’informazione, con questa intelligenza te ne vai a zonzo / per i campi della conoscenza segnando sempre più / come sul tuo quaderno d’appunti. / C’è un altro tipo di quadernetto / Uno già completo e custodito dentro di te, / una sorgente che straripa dal suo alveo. Una frescura / al centro del petto. Quest’altra intelligenza / non ingiallisce e non ristagna. È fluida, / e il suo movimento non è da fuori a dentro / attraverso le condutture di un sapere idraulico. / Questo secondo sapere è una fonte / che da dentro di te va verso l’esterno” (Rumi cit. in C. L. Candiani, Ma dove sono le parole?, Milano 2015, 14-15)

[10] Cf. Sal 147,3: “Risana i cuori affranti[spezzati] e fascia le loro ferite”

[11] C. Chalier, Kalonymus Shapiro rabbino nel ghetto di Varsavia, Giuntina, Firenze 2014 e K. Shapira, Nuovi responsi di Torà dagli anni dell’ira, Giuntina, Firenze 2023.

[12] Cf. “[…] è sconfortante. Eppure io sostengo che se noi non opponiamo a tutto ciò un’alternativa forte e luminosa con cui si possa ricominciare da capo in un luogo del tutto diverso, allora siamo perduti definitivamente e per sempre. Saprò ben riscoprire l’accesso a questa nuova, radiosa sorgente” (E. Hillesum 27 luglio 1942) e “Un giorno qualcuno ha detto: i poveri li avrete sempre con voi; non certo per rassegnarsi al peggio, ma per inventare, con umana attenzione e dedizione, qualcosa che aiuti a vivere, a respirare, a sperare; perché ci si possa guardare in faccia senza paura, senza vergogna, senza sottintesi amari, ma con quella volontà di bene che è in definitiva, espressione dell’unica resistente e convincente e coraggiosa speranza” (P. Serrazanetti, Bologna 2003).

[13] Introduzione L’arte di guardare il mondo di D. Fares a R. Guardini, L’opposizione polare, Milano 2014, VIII-IX.

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