Pier Cesare Bori: percorso intellettuale

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A Monaco, nella seconda metà del 1919, e dunque a un anno circa dalla fine della Grande Guerra, a pochi mesi dalla sanguinosa repressione dei moti rivoluzionari in Baviera e dalla proclamazione della Costituzione della repubblica a Weimar, Max Weber teneva una conferenza su Il lavoro intellettuale come professione.

In essa invitava a comprendere cosa significasse la «razionalizzazione intellettualistica per opera della scienza e della tecnica orientata scientificamente« che segnava irreversibilmente la modernità: «La coscienza o fede – aveva detto – di poter sperimentare, se soltanto si vuole, che in linea di principio non si dà alcuna potenza misteriosa e incalcolabile che entra in gioco, che, piuttosto, si può – in linea di principio – dominare ogni cosa con la ragione [Berechnen – il calcolare]. Il che significa – aggiungeva – il disincantamento del mondo. Non occorre più ricorrere alla magia per dominare o per ingraziarsi gli spiriti, come fa il selvaggio. A ciò sopperiscono la ragione [die Berechnung] e i mezzi tecnici. È soprattutto questo il significato dell’intellettualizzazione come tale».

Platone

Al principio di questo processo «proseguitosi per millenni nella cultura occidentale» sta Platone, affermava. «Vi ricorderete – diceva rivolgendosi ai suoi ascoltatori – di quella meravigliosa immagine al principio della Repubblica di Platone: quegli uomini in una caverna incatenati, col viso rivolto alla parete di roccia, la luce li colpisce alle spalle, non possono vederla e si preoccupano perciò soltanto delle ombre che essa getta sulla parete e cercano di stabilirne la causa. Finalmente uno di loro riesce a spezzare le catene, si volta e mira: il sole. Abbagliato brancola all’intorno e descrive balbettando quel che ha veduto. Gli altri gli danno del pazzo. Ma a poco a poco egli impara a vedere nella luce e allora si adopera a scendere tra gli uomini delle caverne e a trarli verso la luce. Egli è il filosofo e il sole è la verità della scienza, che sola non va in caccia di fantasmi e d’ombre ma persegue il vero essere [c.n.]».

«L’appassionato entusiasmo di Platone nella Repubblica si spiega in ultima analisi – concludeva – considerando che allora per la prima volta si era scoperto con piena consapevolezza il significato di uno dei più importanti mezzi di ogni conoscenza scientifica: il concetto. […]».

Certo, aggiungeva Weber, la conseguenza per Platone era «che, ove si fosse trovato l’esatto concetto del bello, del buono, come pure del coraggio, dell’anima, e via dicendo, se ne potesse cogliere anche il vero essere, e ciò sembrava di nuovo aprire la via per sapere e per insegnare il modo giusto di agire nella vita, soprattutto come cittadino. Giacché la mentalità completamente politica dei greci riduceva tutto a questo problema. Perciò si coltivava la scienza [c.n.]».

Ma l’effetto a lungo termine sarebbe stato un altro, del tutto diverso: la netta separazione del sapere e del progresso che esso delinea dal problema del senso della vita… E qui Weber, in relazione all’inquietudine della gioventù del suo tempo, in cerca non di un sapere, ma di un’esperienza che desse senso alla vita, introduce una seconda figura: Tolstoj. Davanti all’impossibilità per la scienza di dare un significato al mondo, alla sua onesta rinuncia a offrirlo, osservava, «sorge in voi il Tolstoj a domandare: “se dunque non è la scienza a farlo, chi risponde allora alla domanda: che dobbiamo fare? E come dobbiamo regolare la nostra vita?”». E infine: che senso ha allora la scienza stessa?

Lettura dei classici

«Verso la metà degli anni Ottanta – annota Pier Cesare Bori – cominciammo qualcosa di importante: la lettura in comune dei classici. Ricordo che a chiedermelo furono Lisa Ginzburg e Saverio Marchignoli, una sera, a metà febbraio del 1988».  «Ci trovavamo – prosegue – alla Canovetta [un posto in collina, sulla strada della Futa] il sabato sera (alcuni ragazzi venivano da lontano), si leggeva, si cenava (e si beveva), e si discuteva con passione. Fu qualcosa che trasformò la nostra mente e segnò ciascuno di noi, in modo diverso», conclude.

Tra le prime letture ci fu la sera del 30 settembre di quello stesso anno un testo di Platone: il VII libro della Repubblica. Di quell’incontro Pier Cesare scriveva così a Massimo Lollini: «C’era, attorno al tavolo della Canovetta, una magnifica cerchia di giovani amici. Abbiamo letto tutto il libro VII: Gianfranco [Bonola] avrebbe voluto insistere sul mito della caverna, ma io temevo la concentrazione sul tema epistemologico, mentre il tema è la paideia, l’educazione, e il servizio da rendersi alla polis, una volta raggiunta la cultura. Il doloroso girarsi alla luce, ci ha molto colpito. E poi il problema di cosa sia oggi l’enciclopedia, che cosa oggi al posto di (o accanto) all’antico quadrivio. Idea mia: un percorso (methodos) interculturale, volto alla scoperta di un centro, pressoché indicibile, non fuori di noi, ma dentro, “l’idea del bene”, come principio etico, non metafisico […]. Vorrei poterti riferire ampiamente di tutto quello che è stato detto fino a mezzanotte».

Queste righe sono illuminanti, a mio avviso, per comprendere l’itinerario di Bori, a tutti i livelli, ma qui vorrei metterne in rilievo due.

Ambivalenza

Pier Cesare evita, si legge, che la discussione si attardi o s’inceppi sul tema epistemologico. Per Weber questo era il cuore della «meravigliosa immagine», questo il decisivo lascito di Platone all’occidente, mentre l’orizzonte entro cui lo situava, quello della polis greca, era caduco.

Forse era caduco davvero nei termini in cui era formulato, ma non nell’orientamento che indicava, sostiene Pier: il sapere è da ultimo ordinato a «insegnare il modo giusto di agire nella vita», come uomo tra uomini e con loro, al cui centro sta, in ciascuno e in tutti, «l’idea del bene». La «ragione», infatti, non è Berechnung, calcolo, come vuole Weber, ma principalmente razumenje, quella «sapienza di vita» le cui radici Tolstoj aveva individuato nella letteratura sapienziale biblica «sin dal tempo delle sue esperienze pedagogiche».

E l’uomo che questa sapienza formava era quello la cui immagine era «degna e completa, comprensiva e rispettosa dello spirito, ma anche della carne, senza fratture tra naturale e cristiano, perché proprio negli aspetti più bassi, naturali, corporei paradossalmente si celavano cose nobili e mirabili… senza fratture tra ceti spirituali e ceti dediti alle cose materiali».

Ma qual è allora oggi, in un mondo divenuto uno, nonostante le sue profonde differenze e lacerazioni, la enkyklios paideia, l’ordine circolare dei saperi, che conduce al loro esercizio nella nuova «città»? Un ordine, sostiene Pier, che preveda, come suo necessario momento, il «percorso interculturale», cioè la lettura dei classici di quella che già Goethe chiamava la Weltliteratur, una letteratura dal respiro universale, accanto alla quale nei confronti di altre letterature, regionali, come scrive Marcel Reich-Ranicki a proposito della poesia romantica tedesca, non si può non provare «un rapporto caratterizzato dall’ambivalenza – pieno di amore e ammirazione ma nel contempo di scetticismo e di valutazioni critiche».

«Ambivalenza»: mi sembra che questo termine consenta di evidenziare un tratto maggiore del pensiero di Pier, la compresenza di opposti cui arrendersi: monismo e dualismo; estetica ed etica; conoscenza e contemplazione…

Si vedano le righe di Incipit riprodotte in CV a proposito del Daodojing: in esso «non si negava il bisogno [del] pensiero concettuale […] che traccia i confini tra una cosa e l’altra, ma si afferma che esiste un atteggiamento ulteriore di chi non dà nomi e contempla così la perfezione della realtà innominata. In ogni caso – concludeva – l’invito a ritornare bambino, ad accettare di stare indietro e in basso, a non agire, suonava gradito: in una formulazione sapienziale e naturale riscoprivo cose che avevo appreso in termini religiosi e autoritari, di ascesi e mortificazione».

Lo spirito e il tempo

Poche parole allora sul secondo punto del percorso di Pier Cesare che intendevo mettere in rilievo, del tutto coerente a quanto qui si è detto: il contesto in cui la lettura avviene quella sera del 30 settembre 1988 – e tante altre volte in simili incontri intrapresi, tra amici, all’università, nelle carceri.

È sempre un contesto di tensione intellettuale, libera, franca, sincera, nel «ritorno a sé stessi» che lì ciascuno, con l’altro, a poco a poco matura, certo, ma anche un contesto di spontanea condivisione della felicità del compito intrapreso, del ritrovarsi per esso, che si riverbera, prolunga e accresce nella condivisione amicale del cibo, della bevanda…

Piccole esperienze, circoscritte nella «grande storia» che sembra avere altri protagonisti, si dirà. Ma credo Pier accetterebbe che in relazione a questi incontri ripeta quel che scriveva a proposito di simili iniziative Jacques Maritain, un autore da lui non amato, se non per il primato della contemplazione che coltivava, quando forse si tolga ad alcune sue parole la loro punta «teologica».

«Le iniziative dello Spirito Santo nel mondo […] sono per propria natura effimere, vivono il tempo di una vita umana e di per sé non lasciano tracce visibili: è nell’invisibile che si produce l’essenziale, l’influenza che si trasmette da persona a persona, i benefici dell’accoglienza e dell’amicizia e quel che ciascuno ricava, nel fondo del suo cuore, dal passaggio in una casa dove è stato amato, dalla pace di Dio che vi ha percepito e della quale forse non aveva la minima idea, e anche dagli incontri che vi ha fatto.

Questa rinuncia a creare un’istituzione che domini il tempo è il prezzo dell’irraggiamento unico che simili centri esercitano sul loro tempo, sul momento storico. Questo passa nel flusso del tempo ed è di un’importanza incalcolabile, di un’importanza che nulla rimpiazza nella vita degli uomini […]. Ma è anche la ragione per la quale – e questo sia detto per noi – è tanto auspicabile che, finché ancora vivono gli uomini grazie ai quali simili cose accadono e vivono pure dei testimoni di esse davvero affidabili, si produca e resti una storia di ciò di cui sono stati lo strumento»[1].


[1] Lettera di Jacques Maritain a John Howard Griffin, del 26 settembre 1967, a proposito degli incontri di Kolbsheim.

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