
È opportuno (o meglio: necessario) che anche il modo di pregare dei militari divenga segno e strumento di «educazione alla pace pacificata e pacificante».
Il documento della CEI “Educare a una pace disarmata e disarmante” riconosce come da un po’ di tempo a questa parte «le Forze armate italiane sono state sempre più impegnate in missioni all’estero sotto l’egida delle Nazioni Unite, non solo come forze di interposizione ma talvolta anche come parte integrante di itinerari di autentica pacificazione, portando stabilità politica, superamento dei conflitti, costruzione di processi di sviluppo», ponendosi come «strumento» per «fare la pace» in varie parti del mondo.
Ne consegue la necessità, a giudizio dei nostri vescovi, «che questo impegno sia sostenuto da una spiritualità della pace all’altezza del compito a cui i militari sono chiamati», con il conseguente interrogativo «se non si debbano prospettare diverse forme di presenza in tali contesti, meno direttamente legate a un’appartenenza alla struttura militare», nella convinzione che i cappellani militari, liberati da tale appartenenza, godrebbero di «maggior libertà nell’annuncio di pace specie in contesti critici».
La questione che il documento della CEI pone non è separabile da una domanda: come sostenere in coloro che hanno scelto la professione militare la «spiritualità della pace all’altezza del compito» a cui sono chiamati? Una spiritualità che – a mio giudizio – è difficilmente riscontrabile nelle preghiere con cui si concludono le celebrazioni eucaristiche delle forze armate. Si vedano la preghiera della marina militare:
«… noi, uomini di mare e di guerra, Ufficiali e Marinai d’Italia, da questa sacra nave armata della Patria leviamo i cuori. Salva ed esalta, nella Tua fede, o gran Dio, la nostra Nazione. Dà giusta gloria e potenza alla nostra bandiera, comanda che la tempesta e i flutti servano a lei; poni sul nemico il terrore di lei; fa che per sempre la cingano in difesa petti di ferro, più forti del ferro che cinge questa nave, a lei per sempre dona vittoria»;
e quella dell’aeronautica militare:
«Tu, Dio, dacci le ali delle aquile, lo sguardo delle aquile, l’artiglio delle aquile, per portare, ovunque tu doni la luce, l’amore, la bandiera, la gloria d’Italia e di Roma. Fa’, nella pace, dei nostri voli il volo più ardito: fa’, nella guerra, della nostra forza la tua forza, o Signore, perché nessuna ombra sfiori la nostra terra».
Alla luce di quanto il documento della CEI afferma – e senza dimenticare il Concilio Vaticano II che chiede di «considerare l’argomento della guerra con mentalità completamente nuova» (GS n. 80), né la Costituzione della Repubblica in cui si afferma che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli» (art. 11) – appare evidente come sia opportuno (o meglio: necessario!) che anche il modo di pregare dei militari divenga segno e strumento di «educazione alla pace pacificata e pacificante».
L’argomento – varie volte addotto a giustificazione dai cappellani e dagli stessi Ordinari militari – dell’attaccamento a forme di preghiera che appartengono alla storia delle istituzioni militari non dovrebbe diventare un ostacolo all’aggiornamento di quelle preghiere, in analogia con quello che la Chiesa ha saputo fare dei testi liturgici ufficiali, compreso il Padre nostro.





