Il Crocifisso patiens e triumphans

di:
crocifisso

Catalan Batlló Majesty

La figura del re nella parabola dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-43) è introdotta da Gesù come il personaggio che, per i «sacerdoti del tempio e per i capi del popolo», rappresenta Dio, così come il padrone della vigna, che assolda operai lungo la giornata e li paga alla sera, il padre dei due figli, quello che distribuisce i talenti.

Gesù si destreggia con queste figure con una signoria ironica e chiede anche a noi l’astuzia evangelica. Quell’elenco di immagini rappresenta per i capi religiosi un quadro che definisce il loro Dio e la sua giustizia, e Gesù le richiama per attivare un confronto con l’immagine del Padre suo: tale confronto si conclude con un’ironia di quelle figure faraoniche di Dio coltivate nel fondo della loro coscienza e, in una qualche misura, anche dai discepoli.

L’intenzione di Gesù e la croce

Gesù ha il compito di sottrarre la dimostrazione di Dio da queste parodie assurde, che poi si concludono con il gioco perverso di eliminare l’altro, siano essi gli invitati a nozze, o l’invitato senza l’abito di nozze, oppure il figlio che non va nella vigna, o chi ha ricevuto solo un talento.

Il Padre manda il Figlio, ma il Figlio deve decidere liberamente di offrire la propria vita: e lo deve fare a suo rischio e pericolo, appropriandosi del terrore e dello smarrimento che incombono.

La croce di Gesù diventa, così, il luogo in cui ogni divinità, in nome della quale si piantano croci e si crocifiggono uomini, è travolta dalla sua stessa sopraffazione: Gesù vi sale trascinandola con sé in un abbraccio mortale.

La condanna dell’innocente, il Figlio di Dio, sottrae al serpente antico la sua ragione. Crocifiggere Gesù «in nome di Dio», infatti, espone l’immagine del serpente, che si insinua dietro quel nome, alla vergogna definitiva, rendendo alla fine inaffidabile la sua giustizia.

Il Cristo patiens

Scriveva U. Eco in «Storia della civiltà europea», edizione in 75 ebook: «La dottrina della doppia natura – umana e divina – di Cristo, affermata nei grandi concili di Nicea (325), Costantinopoli (381) ed Efeso (431), fornisce il quadro per l’illustrazione della morte sulla croce del Figlio di Dio, fatto uomo per la redenzione dei peccati dell’umanità. La raffigurazione del Cristo inchiodato alla croce, in cui i Padri della Chiesa vedevano il simbolo dell’universalità della redenzione, diviene centrale nell’arte medievale».

Il noto medioevalista italiano riesce a tenere assieme il senso di due tipi di crocifissi, il «Cristo patiens» e il «Cristo triumphans».

Gesù, vero uomo e vero Dio, morto in croce, è ben rappresentato dalle immagini dei crocifissi con il Cristo morto, il «Cristo patiens», come è raffigurato nella prima immagine, opera che trasmette un intenso pathos umano.

Tale mistica della sofferenza e della croce nel Medioevo divenne un momento centrale della riflessione cristiana, soprattutto per opera dei Francescani. Fautori di una religiosità umanizzata, in cui largo spazio è dato alla componente emotiva, i Francescani ricorrono con frequenza a immagini che, attraverso un linguaggio comprensibile, possano commuovere il fedele avvicinandolo alla Chiesa. I crocifissi del «Cristo patiens» cominciarono a diffondersi nel XIII secolo, soprattutto con il diffondersi del francescanesimo.

Il Cristo triumphans

Il secondo crocifisso appartiene all’inizio del II millennio. Si tratta di una grande scultura lignea ed è ben diverso dal «Cristo patiens»: anzitutto, ha gli occhi aperti ed è raffigurato in un trionfo di colori. Raffigura il «Cristo triumphans», nella sua maestà, che richiama sì la morte, ma anche la risurrezione e anche oltre. L’opera è la «Catalan Batlló Majesty», ora nel Museo Nazionale d’Arte della Catalogna a Barcellona, Spagna.

La croce è caratterizzata dalla sua solennità, grazie a una marcata composizione frontale e geometrica e all’aspetto lussuoso della tunica, che ricorda i tessuti mozarabici (per un video dell’opera cf. qui).

Il «Cristo patiens» segue la linea discendente dell’incarnazione, mentre il «Cristo triumphans» segue la linea ascendente, pur conservando la morte e tutto quanto è stata la sua vita terrena. Le due linee sono affermate da Paolo in Filippesi.[1]

Il «Cristo triumphans» richiama però più il Vangelo di Giovanni e soprattutto l’Apocalisse, dove il Cristo risorto è il personaggio principale nelle tipiche figure dell’Agnello ritto in piedi con i segni del Risorto, lo «Sposo» e il «Cristo equestre».

Questo libro fu annesso al canone dei libri ispirati nel 633 nel Concilio provinciale di Toledo.[2] Da quell’assise i monaci mozarabici nell’ampia regione del nord della Spagna miniarono l’Apocalisse su Codici. Tra questi anche il Codice Beatus di Girona[3] che fu composto qualche anno prima del «Catalan Batlló Majesty», anch’esso scolpito a Girona. Il foglio n. 16 riporta la miniatura di una Crocifissione, dove il Cristo morto ha gli occhi aperti come i due ladroni ancora vivi.

L’intelligenza della fede

Le due opere hanno la loro plausibilità spirituale, storica e artistica ma il pensiero che cerca di argomentare l’intelligenza della fede va oltre la semiotica di U. Eco. «Nella nostra tradizione culturale ‒ scrive P. Sequeri in «L’iniziazione», p. 32 ‒ la ricerca dell’origine, del principio, dell’inizio che spiega tutto è certamente stata prevalente, rispetto al pensiero della destinazione. Questo sbilanciamento impone alla ricerca del senso della singolarità umana una logica regressiva: come se ciò che non si lascia ricondurre/ridurre all’origine fosse accidentale e irrilevante per il senso della mia vita e per il destino di ciò che sono».

La critica storica, dunque, ha rilevato che il pensiero ha privilegiato la linea discendente, il «fondamento», Gesù consustanziale con il Padre e con l’umano, lasciando in ombra la sua destinazione e, conseguentemente, la novità di tale destinazione e l’articolarsi ad extra della Trinità.

Ma che cos’è l’oltre dove ascende? L’immagine del «Cristo triumphans» non dice chiaramente e tutto; allude, come per altro la cultura mozarabica nella quale è stato concepito e scolpito.

Noi oggi potremmo dire che è il consegnarsi di Gesù al Padre nell’abbraccio d’amore, con il riscatto della minaccia che incombeva sulla vita dell’altro e di ogni altro.

Egli ritorna al Padre non più nella figura del Logos, ma del Figlio «generato non creato» (Credo niceno) nella carne, e, oltre la morte, glorificato nella carne e negli affetti, nella passione viva in cui risplende la bellezza delle loro relazioni con la pienezza della sua Signoria, speranza aperta per gli umani.


[1] «Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre».

[2] Il testo afferma che “Il libro dell’Apocalisse è dell’Evangelista Giovanni e hanno disposto di accoglierlo fra i libri divini, e di proclamarlo nella Chiesa di Dio … nel tempo che va da Pasqua fino alle Messe di Pentecoste…”

[3] Nel colophon del manoscritto si firmano gli autori, una monaca e un monaco: “En depintrix et Deu aiutrix. Frater Emeterius e presbiter”.

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2 Commenti

  1. Giuliana Babini 4 novembre 2023
  2. Orso Garibozzi 27 ottobre 2023

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