Esercitarsi a morire

di:

vannini

– Caro Marco, ci spieghi cos’è la mistica e cos’è la filosofia, e perché, nel tuo pensiero sono – sostanzialmente – la stessa cosa?

La domanda che mi poni è proprio quella alla quale cerca di dare risposta il libro di cui parliamo, che raccoglie i saggi che ho pubblicato nella rivista Mistica e filosofia, da me fondata nel 2019, che tenta di riportare alla loro vera natura sia la filosofia sia la mistica, distinguendo anche quest’ultima dal profluvio di presunto misticismo da cui oggi siamo invasi.

Che mistica e filosofia siano, nella loro vera essenza, la stessa cosa, non è tanto e solo il mio pensiero, quanto e soprattutto quello della realtà storica. Che la filosofia sia un genere di vita – quella compiuta nel distacco e, in quanto tale, un “esercitarsi a morire” – lo dice esplicitamente Platone, con queste stesse parole, nel Fedone, il dialogo sull’immortalità dell’anima.

Secondo la tradizione, la parola “filosofia” fu coniata da Pitagora, sostenitore – potremmo dire inventore – di un genere di vita in cui il distacco è la componente essenziale; e tale rimase in tutta la storia della filosofia antica, sia pure nelle sue varie sfaccettature.

Ciò è assodato dagli studiosi più seri, anche contemporanei, tra i quali mi limito a ricordare Pierre Hadot. Lo stesso grande studioso francese sostiene che la filosofia, nella sua vera origine e natura, dopo la fine del mondo antico, è proseguita non nelle scuole o nelle università, ma solo nel monachesimo e nella mistica cristiana, ove è rimasta quello che era, ossia una vita nel distacco, soprattutto in quella cosiddetta renana (Meister Eckhart e dintorni).

Bisogna, perciò, depurare il concetto di mistica da tutte le superfetazioni che gli sono nate addosso, per le quali la parola è andata a significare esperienze paranormali, visioni…, come ancor oggi spesso si ritiene; “mistico” era originariamente un aggettivo che si riferiva al silenzio, soprattutto al silenzio interiore, ovvero al distacco dalle passioni e da tutti quei legami interiori che nutrono l’egoità e oscurano la luce della ragione, che è la luce stessa della grazia.

Non si deve perciò pensare alla mistica come a una sorta di campo speciale, una forma particolare di esperienza religiosa, perché questo porta fuori strada. No, mistica è l’operazione dell’intelligenza che sempre scopre il relativo del nostro presunto sapere e così opera il silenzio, ovvero il distacco: «l’intelligenza distacca», scrive sinteticamente Eckhart; in queste due parole – se bene intese – è già compresa l’identità di mistica e filosofia.

– Come questo tuo pensiero – che affonda in origini e in fonti più antiche del cristianesimo – si salda nella persona di Gesù il Cristo?

«Seguendo la filosofia di Cristo, facciamo della nostra vita un esercizio di morte», esorta san Massimo il Confessore. Questa frase, che ho messa in quarta di copertina al libro di cui parliamo, risponde, implicitamente, alla tua domanda.

Nel Vangelo essenziale è l’invito a “rinunciare a sé stessi” (Mt 16,24, Mc 8, 34; Lc 9, 23), a “odiare la propria anima” (Gv 12, 25): invito rivolto da Gesù a chi vuole seguirlo; ciò non significa altro che esercitare il distacco più radicale, “morendo” all’amore distorto di sé stessi, alla propria egoità.

La morte di cui parla il Vangelo è quella del chicco di grano caduto in terra, che deve “morire” per portare frutto (Gv 12,24), che è, perciò, una morte gioiosa e gloriosa, in quanto principio di nuova vita.

Non meraviglia, quindi, che le menti più illuminate riconoscessero nel messaggio evangelico l’essenza stessa della filosofia in quanto amore della verità; perciò, san Massimo il Confessore parla della “filosofia di Cristo” usando per essa la terminologia platonica, scrivendo: “esercitarsi a morire”.

La tradizione spirituale cristiana non ha avuto dubbi: l’insegnamento di Gesù, la sua stessa vita e morte, sono esempio supremo di quel distacco che anche i “maestri pagani” – come sostiene Eckhart – già praticavano.

***

– Il titolo del tuo libro è molto forte, e la domanda che ti pongo è anche personale: come possiamo esercitarci a morire? Come tu ti eserciti a morire, anche rispetto alla tua morte corporale?

Va innanzitutto chiarito che l’esercitarsi a morire di cui si parla nel libro non riguarda la morte fisica, bensì – come abbiamo detto – il distacco, e non ha dunque alcun carattere funereo, e neppure dolorifico: al contrario – dice Eckhart – «nessuno è più gioioso di chi si trova nel più grande distacco», grazie al quale ogni momento, ogni evento della vita, è trasfigurato – visto sub specie aternitatis – e, con ciò, fonte di perenne letizia.

Perciò si ama la vita, senza temere la morte corporale, cui si guarda con la serena fiducia che tutto andrà bene, come pensava anche Socrate nel momento di congedarsi dalla vita.

Il timore della morte è il segno più chiaro di una vita falsa, cioè cattiva – diceva Wittgenstein – e questo pensiero, di origine stoica, vale anche oggi per il cristiano, convinto che la morte sia solo un passaggio.

In questo senso io non mi preparo affatto alla morte corporale, se non tenendo presente che essa è vicina, e, in fondo, lo è sempre: Cotidie morimur; moriamo ogni giorno, insegna Seneca, e dobbiamo esser pronti, in modo che la morte ci colga mentre facciamo il bene, il nostro dovere.

– Come in questo “esercizio” – la rinuncia a sé stessi – si affronta il dolore che c’è nella vita?

È chiaro che il dolore che c’è nella vita è in certa misura ineliminabile, sia che si tratti di dolore fisico, come quello della malattia, sia che si tratti del dolore morale, come quello per la sofferenza altrui.

L’uomo completamente distaccato, che ha appunto “rinunciato a sé stesso”, ha nella fortezza della ragione, come direbbe Marco Aurelio, ovvero in ciò che san Giovanni della Croce chiama “centro dell’anima” – ove è la presenza di Dio con la sua luce – la capacità di non cedere al dolore che la vita ci impone.

Certo, il corpo o le facoltà dell’anima sono toccati dal dolore, ma non tanto da incidere sul “fondo” dell’umano, inattaccabile da tutto ciò che sta nel tempo e nello spazio.

– Cosa puoi dire delle opposizioni natura/soprannatura, corpo/anima, realtà del mondo/realtà fuori dal mondo?

Parlare di queste cose in breve è piuttosto difficile. Tento perciò un abbozzo di discorso riassuntivo e, per farlo, mi avvalgo dell’auctoritas che preferisco, ovvero quella di Meister Eckhart.

Noi siamo per un verso nel tempo, nella molteplicità e nel corpo, cui è correlata una psiche: su questo non ci sono dubbi. Per un altro verso però – e qui la cosa diventa più seria e profonda – siamo anche “non nel tempo” bensì nell’eterno; “non nel molteplice” ma nell’Uno; “non nel corpo/psiche” ma nello spirito.

La tradizione cristiana esprime questa sorta di duplice realtà, o duplice vita – che poi è una sola realtà e una sola vita – distinguendo tra “uomo esteriore” e “uomo interiore”, come fanno san Paolo, sant’Agostino, Eckhart e tanti altri.

Sottolineo che questa conoscenza – perché di conoscenza si tratta – apparteneva già alla filosofia antica (a Platone, da cui proviene, a Plotino ecc.), a conferma che unico e concorde è il sapere della filosofia e della cosiddetta mistica.

Purtroppo, tale sapere è andato largamente perduto nella superficialità di quelle che oggi si chiamano, con termine assai vago e poco significativo, “scienze umane” naturali, che riducono l’umano alla sola dimensione del tempo, del corpo, del molteplice; e questo spiega il disorientamento e la sofferenza esistenziale che pervade oggi la nostra società.

***

– Come si concilia questo tuo pensiero filosofico con la scienza e la fisica contemporanea?

Prima di rispondere alla tua domanda, voglio fare una puntualizzazione importante. Quello che la scienza – “cimitero di errori”, la definisce il filosofo della scienza Paul Feyerabend, alludendo al fatto che il tempo demolisce incessantemente le “verità” di volta in volta proclamate dalla scienza – afferma non ha alcun rilievo per ciò che riguarda la religione, se questa riguarda il rapporto tra l’anima e Dio, e non è una dogmatica che pretenda di spiegare la natura, l’origine dell’universo e simili cose.

Ricordo, in proposito, che all’arcivescovo di Canterbury che chiedeva ad Einstein che cosa la teoria della relatività cambiasse per la religione, lo scienziato rispose candidamente che non cambiava proprio nulla, perché quella della relatività è una teoria fisica e, in quanto tale, nulla ha a che fare con la religione. Dal canto suo, un filosofo vero come Wittgenstein scrive che «anche se tutte le possibili domande scientifiche avessero risposta, i nostri problemi vitali non sarebbero neppure sfiorati».

Ciò premesso, le cose che più o meno sostengo – poiché io non ho un “mio pensiero filosofico” ma mi limito a ripresentare conoscenze tanto antiche e sempre nuove – sono in perfetta sintonia con la fisica contemporanea, nella quale è superato il concetto univoco di tempo lineare, per cui passato, presente, futuro sono, in certo senso, compresenti; come lo sono pure finito e infinito, materia e spirito…

Ciò che era ritenuto miracoloso e perciò incredibile dalla scienza di ieri, appare del tutto contemplabile dalla fisica odierna. Un esempio soltanto, ma non insignificante: che la preghiera, ossia il pensiero, rivolto a tutte le anime, del presente e del passato, metta davvero in comunicazione con loro – così che tutte le anime sono una sola, come pensava Plotino e come la Chiesa ancora insegna nella comunione dei santi – non appare più un’arcaica concezione mitologica come sostenuto dallo scientismo positivista, ma, al contrario, è del tutto in accordo con la fisica contemporanea.

Beninteso, non voglio ripetere qui l’errore del passato, ovvero appoggiare il pensiero religioso sulla scienza della natura, che lascio tranquillamente andare per la sua strada; anzi, i tentativi in tal senso di tanti sedicenti teologi mi fanno profonda pena: a questi, come pure agli scienziati che si improntano a teologi, ricordo sempre l’aneddoto che Plinio il Giovane racconta di Apelle: Sutor ne ultra crepidam, “il ciabattino non vada oltre i sandali”.

– Papa Leone ha recentemente detto: «lo studio della filosofia deve essere volto alla ricerca della verità attraverso le risorse della ragione umana aperta al dialogo con la cultura e soprattutto con la Rivelazione cristiana». Cosa ne dici?

Io ho grande simpatia e stima per questo papa, fin dal suo presentarsi quale “figlio di sant’Agostino”, il che significa, tra l’altro, sostenitore appunto dell’accordo tra filosofia e religione, in forza della quale il vescovo di Ippona, nel suo La vera religione, poteva scrivere che i cristiani sono i veri eredi di Platone. Mi pongo perciò assolutamente nella prospettiva indicata.

Però occorre precisare cosa si intenda con “Rivelazione”, in quanto oggi non possiamo prendere la sacra Scrittura allo stesso modo con cui la si prendeva qualche secolo fa, o come fanno oggi i fondamentalisti, che deducono dalla Bibbia il diritto degli israeliani a sterminare i palestinesi, o quantomeno ad espellerli tutti dalla terra che Dio ha dato loro.

Se la Scrittura, in questo modo, viene gabellata come Rivelazione, ovviamente mi chiamo fuori, insieme, peraltro, con la cultura contemporanea, con cui giustamente Leone XIV invita a dialogare.

Insomma, sempre citando l’Agostino dal libro La vera religione, tra la retta ragione e la Scrittura il primato va dato alla prima, nella consapevolezza che la rivelazione più vera e profonda è quella che avviene tra Dio e l’anima.

Concludo la risposta con due versi di un autore che mi è molto caro, il poeta mistico del ’600 Angelus Silesius, che nel suo Pellegrino cherubico (II, 137) recita: «La Scrittura è scrittura, nient’altro! Mio conforto è l’essenza/ E che Dio parli in me la Parola di vita eterna».

Penso che anche il papa sia assolutamente di questo parere.

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2 Commenti

  1. Marco Pellegrini 3 dicembre 2025
  2. Pietro 2 dicembre 2025

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