Nel ’900: immagini del Natale

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L’arte religiosa e sacra del ‘900 – nelle sue rare ma incisive manifestazioni – privilegia la rappresentazione della morte di Cristo a quella della sua nascita. Gli “Ecce homo” di Rouault, il Cristo Giallo di Gaugin, gli splendidi crocifissi di Congdon, solo per fare qualche esempio, raffigurano il Figlio dell’uomo nella sua difficile, estrema e libera adesione alla volontà del Padre.

Forse tale privilegio si spiega con i presagi e gli echi di orrende guerre che gli artisti hanno avvertito nel loro tempo. Oppure – come direbbero con Hanna Arendt molte altre pensatrici – il motivo è nella stessa filosofia occidentale che fin dalle origini ha riflettuto più sulla fine che sull’inizio della vita. Certo è che il momento della morte in croce di Cristo risulta centrale nell’avventura della fede.

Lì si compie il percorso esistenziale di Gesù e di ogni credente segnato, fin dalla nascita, dall’affidamento a Dio. Una nascita vissuta in un isolamento pari a quello della fine. In alcune immagini “natalizie” dei citati maestri del ‘900 sembra cogliersi tale messaggio.

Sono brani artistici che non rimandano all’armonia e allo splendore delle composizioni tardomedievali e rinascimentali e tanto meno alle raffigurazioni che popolano il mercato odierno. In genere nelle icone novecentesche per lo più manca la luminosità e lo splendore a cui il Beato Angelico e molti altri ci hanno abituato.

La luce del divino è incompiuta, convive con l’ombra. Il piccolo Figlio dell’uomo è autenticamente immerso nella povertà – ultimo tra gli ultimi – e a volte abbracciato a una giovane donna, dimessa, come il suo compagno. Genitori che si sono affidati a un misterioso annuncio, inascoltato dai benpensanti. Seppur scardinate le prospettive di straordinarie pale d’altare, di splendide miniature e fondi oro, veniamo immessi nel messaggio dell’Incarnazione con forme aderenti al tema evangelico.

Potremmo paragonare i maestri del ‘900 a quei ragazzini intelligenti che voltano le spalle alle omiletiche lezioni degli adulti ma nel frattempo ascoltano parole, che riconoscono vere, gli insegnamenti dei loro maestri e la Parola che in qualche modo li abita.

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Difficile dire “bella” una scena ombrosa e defilata se siamo abituati a colori dai toni alti e a prospettive centrali. Eppure, la nascita del Cristo è stata appartata e incompresa.  Paul Gauguin (1848-1903) ritaglia il presepe in un angolo buio del quadro dove nel minuto spazio di un’edicola pone la Madonna e una contadina adoranti. In primo piano due buoi e donne con copricapo in un paesaggio innevato e freddo.

È la Bretagna primitiva in cui amava vivere con gli altri artisti di Pont Aven. All’orizzonte, nella breve luce di un tramonto, sembra intravedersi la croce di una chiesa. In primo piano motivi egizi (i buoi) e giavanesi (il presepe), come dicono i critici che collocano l’ultimazione del quadro (iniziato nel 1894 a Pont-Aven) nelle isole del Pacifico. L’universalità del messaggio cristiano è espressa anche così.

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Paul Gaugin, Notte di Natale, ca.1902-3. Indianapolis Museum of Art at Newfields, USA.

Forse pochi maestri come Georges Rouault (1971-1958) potevano cogliere cosa significa nascere in un antro oscuro. L’artista – “dalla fede religiosa, sincera e profonda” (sono parole di Jaques Maritain che con la moglie Raissa seguì da vicino il percorso dell’artista) – nacque in una cantina di Belleville nel maggio del 1871 durante il bombardamento prussiano di Parigi, in piena guerra civile. Figlio di un ebanista (come il falegname Giuseppe!), non ha mai perso i contatti con il mondo operaio e il suo lavoro mantenne la forza della creatività di un artigiano detestando la mediocrità borghese. Eppure, mancano icone specifiche di Natività nella sua ricca produzione artistica a lungo ignorata e derisa anche dagli amici.

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Georges Rouault, Il vecchio faubourg Mère et enfants, 1951. Fondation Georges Rouault, Parigi.

Come scrive Raissa Maritain, egli fu un artista solitario, capace di abbandonare il successo facile e di tracciare i propri sentieri con molta pazienza e fiducia nel “Dio dell’arte e della bontà” (Raissa Maritain, I grandi amici, Vita e Pensiero, Milano 1956).

Tuttavia, la tenerezza dell’abbraccio materno dipinta in un capolavoro della maturità dice il lavoro interiore volto a riconoscere l’umanità di un Dio che si fa bambino. I profondi tratti neri che contornano le figure (come le piombature delle vetrate su cui, in età giovanile aveva lavorato) evidenziano la calda luce solare evocante tenerezza e fiducioso abbandono.

Fa pensare una sua riflessione in una lettera inviata a Raissa: “Quel che rimpiango è di non avere una seconda vita per portare alcune opere a un certo punto”.  Quando viene colto il valore del proprio percorso artistico e la forza spirituale di Chi lo ha sostenuto è inevitabile la speranza in una vita piena che superi la morte.

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William Congdon, Natività,1965.

La Natività di William Congdon (1912-1998) eseguita dopo 6 anni dal suo battesimo (15 agosto 1959) si colloca in una fase nuova della sua esperienza artistica. Ѐ un’immagine che rivela l’irrompere dell’azzurro nel buio di uno spazio e di un tempo indefiniti.

La madre e il bambino galleggiano su una fragilissima barca venuta chissà da dove, nel biancore di una luce imprevista. La forte componente materica ampiamente presente nelle tele e nelle tavole dell’artista rivela la dimensione corporea dell’assoluto.

Un “corpo a corpo…colpo di spatola dopo colpo di spatola” scrive Massimo Morasco per descrivere lo sguardo di Congdon “sull’assoluto” (Essere Trasfigurato. Una lettura teologica dell’opera di William Congdon, QiQajon,2012). Il mistero dell’Incarnazione vibra nell’esperienza pittorica che stratifica i pigmenti.

Difficile oggi trovare cartoncini di auguri natalizi raffiguranti questi soggetti che ammiriamo più nei musei che nelle chiese.

Sproporzioni, lacerazioni, deformazioni e destrutturazioni possono a prima vista impressionare occhi troppo adesi a visioni ottimistiche e pacificate. In realtà parlano del sacro che entra improvvisamente nella storia, ammutolisce i pastori dell’Essere, richiama persino i potenti della terra. E invita ad inchinarsi a Chi prende dimora in una sfasciata capanna e regalmente apre strade di libertà, giustizia e solidarietà umana.

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