Di grammatica in grammatica

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femminile

Capisco l’intenzione che ha mosso la collega Anita Prati a scrivere il breve articolo sulla inaffidabilità della grammatica italiana (qui); faccio però più fatica a comprendere se seguire questa via rappresenti un percorso efficace rispetto alla soluzione della questione di genere sottointesa.

Alcune premesse di parte. Personalmente cerco di usare il più possibile la soluzione 3): ossia, esprimermi al maschile e femminile insieme. Il prezzo della ridondanza e cacofonia, per uno che fa il mio mestiere (insegno all’università, prevalentemente in una piccola facoltà di scienze dell’educazione), lo paghi immediatamente – anche se il tutto viene circondato da molto affetto. Infatti, per i miei studenti (e studentesse) io sono «prof… educatori ed educatrici».

Rimango all’interno della mia esperienza quotidiana di lavoro per cercare di ampliare un po’ la riflessione. La mia cacofonica attenzione al genere, e il tentativo di un uso non discriminatorio e/o obliterante del linguaggio, non pare essere poi così decisiva nel definire la qualità della mia relazione con le studentesse (e gli studenti) che frequentano i miei corsi. Nella loro hit-parade dei docenti sembra sì che io occupi una delle prime posizioni – ma nel momento in cui un rigurgito di orgoglio mi aumenta di un pelo l’autostima, ci pensano loro a riportarmi sulla terra: «prof lei è il migliore… ci fa fare sempre le pause lunghe…» (almeno, un po’ impietositi, per una volta hanno omesso il nomignolo «educatori ed educatrici» – si tenga conto, poi, che ogni tanto, quando sono particolarmente in vena, divento per loro anche «prof educatori slash educatrici»).

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Per fortuna ci sono momenti in cui la vita è più leggera di questioni certamente importanti che portiamo avanti per renderla un luogo migliore, più vivibile per tutti e tutte. Ma dietro questa ironia dei/delle ragazzi/ragazze con cui passo molto del mio tempo, c’è una cosa che mi fa pensare proprio in relazione alla questione posta da Anita Prati – e molte altre insieme a lei (forse, anche da un paio di altri).

Ossia, cosa pensano le persone concrete che sono in classe di tutto questo? Quali soluzioni immaginano per uscire dal vicolo cieco «inclusione/esclusione» della grammatica italiana? Ha certamente senso non reiterare stereotipi grammaticali che producono discriminazione di genere, ma esiste una lingua concreta e praticabile che non sia semplicemente l’inversione del registro patriarcale della grammatica e del suo uso corrente? Nel caso non ne avessimo una a disposizione, da dove e come iniziare? Chi avrebbe diritto di parlarla e chi deciderebbe delle regole che ne fanno una parlata comune e non un gergo da iniziati/e?

Quando una lingua è in perdita di parole, frasi, sintassi – tutte sostituite dall’indistinto emozionale dell’icona o delle contrazioni –, c’è ancora spazio per un lavoro sensato sui resti archeologici del linguaggio?

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Faccio un primo collegamento alla prassi linguistica delle teologhe (e, insieme a loro, di molte donne che sentono di appartenere a quella comunità che chiamiamo Chiesa cattolica). L’uso del nome comune singolare «donna» da parte di papa Francesco è stato puntualmente criticato, non senza ragione, perché implica una astrazione rispetto alle donne concrete e al loro vissuto – astrazione che presuppone l’esistenza di un’essenza (femminile, decisa da maschi), universale e quindi a-culturale e a-storica, che finisce con l’imporsi su quello che le donne effettivamente sono e vogliono essere.

Personalmente ritengo questa critica pertinente, come molte altre attenzioni linguistiche e di postura della fede che le teologhe hanno messo in luce e consegnato ai vissuti delle nostre comunità. Mi chiedo, però, se la doverosa riconsegna ecclesiale al plurale del vissuto delle donne, e a quello che ciascuna di essa è concretamente, non sia esposta al medesimo rischio. Me lo chiedo perché, almeno in questo caso, l’uso fatto di «alunne» mi sembra tendenzialmente andare nella medesima direzione. I nomi comuni, maschili o femminili che siano, permettono certo di raccogliere la disseminazione delle/dei molte/i ma, al tempo stesso, finiscono per eliderne i volti e celarne le storie. Dentro quel contenitore comune molti nomi propri possono riconoscersi e molti altri no (e questo non necessariamente lungo una linea di demarcazione di genere).

Cosa/chi autorizza a ritenere inadeguato il singolare del papa e sicuramente adeguato il plurale della insegnante? Una risposta possibile mi sembra essere quella che vede nel secondo l’esito di un lungo lavoro collettivo delle donne – tra cui anche le teologhe. E credo che si tratti di una risposta pertinente; che rimane, però, estremamente contingente: ossia, non sottratta al rischio di produrre esclusione proprio nel suo voler essere il più inclusiva possibile. Ci possono essere delle donne che non si sentono rappresentate da quell’esito del collettivo delle donne.

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Cerco di spiegarmi. Nel novembre scorso ho partecipato a un panel sulla teologia femminista nell’islam tenutosi durante il meeting annuale dell’American Academy of Religion. La moderatrice del panel, una docente universitaria americana (bianca), introducendo i lavori ha esposto le regole di ingaggio linguistico che avrebbero dovuto caratterizzarlo – e ci ha messo più di dieci minuti per farlo. Ha sottolineato più volte che queste regole servivano soprattutto a evitare «violenza» nel corso del dibattito – condizione, questa, necessaria affinché tutti i partecipanti e tutte le partecipanti potessero sentirsi inclusi/e in esso.

Ma nel momento in cui un determinato uso della lingua diventa regola, non si può sfuggire al meccanismo dell’esclusione – questo anche quando è ciò che si vorrebbe evitare. Per stare dentro la regola era, ad esempio, necessaria una affinata capacità di uso della lingua inglese (appena al di sotto della soglia dell’essere madre lingua). Sarebbe bastato guardare i nomi delle persone e le università di affiliazione per capire che la regola, così come era stata esposta, avrebbe lasciato fuori molti/e.

Ma non è questo il punto. Dopo la lunga presentazione delle regole di ingaggio linguistico, hanno preso la parola tre teologhe/giuriste islamiche. Ognuna, a modo suo, ha declinato la necessità di una «decolonizzazione» dell’approccio femminista islamico – ossia, di liberarsi dalla presa/pretesa normativa imposta dalle teorie femministe occidentali sulle donne appartenenti alla cultura islamica – molte tra le quali sicuramente vogliono lottare per una uguaglianza di genere all’interno di questa cultura, ma vogliono anche che essa rimanga la loro cultura (islamica).

La cosa che mi ha colpito è che nessun intervento, di un dibattito interessante da cui molto ho imparato, ha messo a tema l’antitesi fra presentazione delle regole di ingaggio linguistico (istruite da donne occidentali) e la richiesta di una loro disattivazione (da parte di donne islamiche).

Se ho, almeno in parte, colto il senso di questo non detto, di questa ombra lunga che approssimava e allontanava al tempo stesso le donne in quella sala, unendole e separandole, è che ogni possibile inclusione è fatta per essere disattivata, ripatteggiata, ridefinita. Ma da chi? Da tutte/i coloro che desiderano entrare, insieme, nell’alleanza linguistica – probabilmente. E, nel momento in cui il patto diventa regola linguistica condivisa, quest’ultima va di nuovo stanata nel suo essere di fatto meccanismo che produce esclusione.

grammatiche

Foto di Dennis Maliepaard su Unsplash.

È chiaro che tutto questo chiede un lungo tempo di apprendimento comune – e qui ritorno a casa nostra, in particolare al rapporto fra teologhe e teologi in Italia. La lunga digressione iniziale della moderatrice del panel mi ha fatto tornare ai tempi della mia giovinezza, quando giocavo a pallacanestro. Un anno furono introdotte alcune modifiche di rilievo nelle regole del gioco e, prima di ogni partita per tutto il campionato, gli arbitri, armati di santa pazienza, entravano negli spogliatoi delle due squadre per spiegare i cambiamenti di regolamento. Tutti d’accordo, pronti via, si scende in campo.

Dove, regolarmente, a ogni fischio arbitrale concernente le nuove regole da corpi madidi di sudore si levavano improperi e vituperi più o meno garbati (a dire il vero quasi mai garbati). Il fatto è che le vecchie regole ci erano entrate nel corpo – e il corpo aveva bisogno di tempo e soprattutto di pratica per farle proprie in movimento. In mancanza di questa pratica, le nuove regole di gioco ci spedivano in panchina con cinque falli ben prima della fine del primo tempo.

Dopo le prime due partite di campionato in cui si era ritrovato il meglio della squadra in panca per falli prima dell’intervallo, dovendo finire la partita in maniera non molto decorosa con noi brocchi in campo (che oltre a essere tali avevamo anche ricevuto l’ordine perentorio di non fare cinque falli, pena sedute massacranti di suicidi nell’immediato dopo partita), il nostro allenatore stravolse completamente il programma settimanale della squadra.

Basta sedute di atletica, basta allenamenti in palestra, basta ore passate ad assimilare gli schemi… solo partite amichevoli, tante partite amichevoli, anche due in un pomeriggio – le prime con nove falli a disposizione prima di finire in panca, poi otto, sette, sei… fino ai cinque permessi nelle gare di campionato.

Così il nostro corpo ha imparato il nuovo regolamento. Credo che le cose siano molto simili con il linguaggio – e il suo uso non discriminatorio, per rendere onore a ogni genere che partecipa al suo gioco.

***

Il linguaggio che le teologhe italiane hanno messo in circolo è frutto di un lungo e duro lavoro di apprendimento – hanno sudato per affinarlo e, credo, talvolta si sono anche scazzottate fra loro per dargli forma.

Ora il loro corpo lo maneggia con rapidità, destrezza e strategia mirata. Ma ora è anche il momento per loro di scegliere che uso farne. Se scendiamo in campo solo per partite di campionato, lo vincerete sicuramente – il nostro corpo maschile non lo ha ancora appreso come si deve, anche se ci ripetete con santa pazienza le sue regole prima di ogni partita.

C’è poco da fare: «za-zac» chiama la teologa a ragione – e noi finiamo in panchina a partita appena iniziata. «Za-zac» e un altro compare si siede sconsolato accanto a te sulla panca – e non è neanche sudato più di tanto.

E «za-zac» qui, «za-zac» lì, finisce che non gioca più nessuno – ma vincere il campionato per manifesta inferiorità delle altre squadre non vuol dire necessariamente essere una buona squadra.

***

Il mio consiglio, da uno che non entra in un campo italiano di teologia da decenni – e che comunque, anche con le nuove regole di ingaggio linguistico, finirebbe in panchina senza fiato ben prima dei cinque «za-zac» fischiati dalle colleghe? Iniziamo a fare anche delle partite di allenamento, perché solo così il nostro corpo maschile potrà apprendere qualcosa del linguaggio generato dalle pratiche teologiche delle donne italiane. Partite dove si apprende divertendosi (insieme), senza l’incubo del «za-zac» che ti toglie le parole di bocca.

Nella teologia italiana ce ne vogliono tante di queste partire di allenamento – e il tempo è poco per tutti/e, e la paura di infortunarsi in una partita che non conta nulla per la gloria è tanta, lo so… ma l’alternativa è la semplice sostituzione del patriarcato col matriarcato. E non è detto che questa sia cosa necessariamente buona, anche solo per le donne. Non lo è perché la forza del potere è più forte della forza di genere – e finisce per piegare a sé quest’ultima quando essa pensa di addomesticarlo solo in forza di sé.

Forse, dopo tante partire di allenamento, e dopo un campionato vinto non per estinzione delle squadre avversarie, potremmo arrivare a mettere in campo anche una squadra mista capace di fronteggiare la subdola attrazione del potere – senza cedere a essa, insieme.

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6 Commenti

  1. Alberto 13 maggio 2025
  2. 68ina felice 13 maggio 2025
    • Angela 13 maggio 2025
      • 68ina felice 13 maggio 2025
  3. Marcello 13 maggio 2025
  4. Angela 13 maggio 2025

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