La formazione teologica /2

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teologia

Nel quadro del dibattito aperto dal contributo di Paolo Cattorini sulla formazione teologica e sui suoi destinatari (cf. SettimanaNews, qui), credo possa entrare anche una riflessione su quanto si sta facendo all’interno dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in materia di ricerca, insegnamento e formazione teologica.

Da qualche anno il lavoro comune si è incentrato sul nodo sapere-sapienza – come forma teorica e retorica scelta per dare senso alla presenza della teologia in Cattolica. Scelta fatta esplicitamente per aprire la disciplina teologia alla transdisciplinarità, anticipando così sia le aperture del proemio di Veritatis gaudium, sia il rilievo che la transdisciplinarità ha assunto ultimamente nell’ambito complessivo dei saperi.

Sapienza e razionalità

Quanto fatto in questi anni, trova una sua sintesi e presentazione nella pubblicazione Ordo sapientiae. Per un dialogo fecondo fra teologia e saperi (2017). In questo volume, complesso nei temi, il ruolo della teologia in Cattolica appariva connesso al superamento della frammentazione dei saperi accademici e della riduzione del pensiero alla figura unilaterale della razionalità scientifico-economica. La scelta del termine sapienza annunciava già che, per favorire questo superamento, non sarebbe stato sufficiente un vago appello a una razionalità plurale. Piuttosto, si sarebbe dovuto rimettere in gioco l’idea stessa di razionalità.

Si trattava, anzitutto all’interno della teologia, di tornare alla figura del logos cristiano nella sua differenza, senza negarne la continuità, dal logos dei greci. Infatti, il logos cristiano non si esaurisce nella giustapposizione delle diverse forme di razionalità, perché si presenta come ciò che genera la pluralità stessa del pensiero (realtà davanti alla quale la teologia cattolica si trova spesso in sofferenza, perché la chiama ad abdicare dal ruolo sia di pensiero in un qualche modo più alto, sia da pensiero organizzatore cui compete il primato della sintesi tra i saperi).

Detto in altre parole: pronunciare la parola sapienza non significa solo dare un nome al risultato del lavoro del pensiero, ma anche fare appello a quel misterioso incanto che genera nell’umano il desiderio di conoscere. La sapienza biblica si presenta come ciò che «nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano (…), va in cerca di quelli che sono degni di lei» (Sir 6,13.16) – ovunque questi si trovino. Il lavoro transdisciplinare appare alla teologia, pertanto, come la possibilità di riscoprire l’origine stessa della conoscenza – che è affettuosamente riposta nella generativa manifestazione della verità incarnata di Dio.

Non potremo condividere con tutte le discipline la figura della Sapienza che al principio del mondo giocava con Dio e con la sua fantasia; non possiamo condividere con l’insieme dei saperi il legame che la teologia ha con colui che è «il più bello tra i figli dell’uomo», ma possiamo condividere una figura del debito che ogni intelligenza ha nei confronti della verità, nello stupore del suo apparire, nell’esultanza di aver generato una conoscenza nell’altro. Soprattutto, possiamo condividere con tutti un desiderio così originario da apparire, a chiunque faccia ricerca, un’ingiunzione: quella di non mentire, di dire il vero.

È giunta l’ora di prendere definitivamente congedo dalla polemica antica e dai suoi molti corollari che ancora nutrono il rapporto tra i saperi: la questione, infatti, non è più chiedersi se aveva ragione Galileo, suggerendo che la realtà è scritta in linguaggio matematico e contrapporre a essa un’altra scrittura. Va abbandonata non per tolleranza, ma perché la questione oggi è se davvero la realtà sia un testo, un libro già scritto. Non è, piuttosto, un grembo che genera incessantemente ogni cosa, inclusi i nostri codici?

Il laboratorio

Quando si ridefinisce l’idea stessa di sapere, si va a toccare la relazionalità connessa alla sua produzione. Ripensamenti di tale genere non sono accaduti così di frequente nella storia della cultura; e ogni volta che si sono verificati hanno provocato tensioni generative. Penso alla nascita delle scuole teologiche, con l’uscita della teologia dagli studi monastici, di cui abbiamo traccia nell’intenso dibattito tra Bernardo di Chiaravalle e Abelardo. Credo che la svolta transdisciplinare non sia di portata inferiore a quella.

Forse l’ultima grande elaborazione teorica del sapere fu la nascita della figura del laboratorio (tipica della scienza sperimentale, ma che è stata lentamente assunta anche dalla teologia). A essa dobbiamo l’immaginario di una comunità di conoscenza, una comunità di pari, mossa dall’amore per la verità. Da qui sono nati i processi del sapere e della sua verifica – come le dinamiche di peer review che tutti conosciamo.

Le opere che hanno cercato di comprendere questo grande passaggio precisano che la nascita del laboratorio non fu anzitutto un evento della razionalità, ma della socialità. Boyle fondò il suo primo laboratorio attorno a una pompa che creava il vuoto, pretendendo che questo vuoto fosse condizione di possibilità della ripetibilità dell’esperimento.

Ma non fu il laboratorio a guadagnare alla scienza sperimentale la fiducia della comunità scientifica, né il vuoto (che, ovviamente, egli non creò mai), bensì il consenso della società per l’affidabilità del dialogo tra i ricercatori, per la correttezza del loro dibattito, per la figura (mitica, come ogni rappresentazione) di una comunità nella quale sarebbe stato possibile tenere a bada la competizione, la discordia delle opinioni, gli interessi di parte, in nome di un’unica grande passione per la verità. Fu questo – e non il vuoto – a guadagnare alla scienza sperimentale il credito del mondo moderno.

Ora, nell’andare oltre questo modello, noi dobbiamo ricordare che, al di là di tutte le critiche che la riflessione filosofica o teologica hanno portato al mondo scientifico e a quello della tecnica, quel passaggio è stato decisivo, ha avuto qualcosa di prodigioso, ci ha permesso di attraversare alcuni secoli complicatissimi, ha propiziato una crescita esponenziale del sapere. Noi non possiamo superarlo senza riconoscere ciò che, in esso, non può in alcun modo essere abbandonato: non possiamo retrocedere e, certo, la sfiducia di alcuni cittadini nei confronti della comunità scientifica non può essere salutata come il momento per uscire dai nostri nascondigli e tirare fuori i nostri trucchi.

Senza retrocedere, penso però che la transdisciplinarità ci chieda di superare alcuni paradigmi propri di questa ultima grande elaborazione del sapere. Credo, in particolare, che ci chieda di smettere di pensare al luogo della verità come a un luogo vuoto.

Se vogliamo essere all’altezza di un cambiamento che riteniamo epocale, è necessario che i luoghi della transdisciplinarità sappiano accreditarsi con la stessa forza a partire dal fatto che sono, appunto, luoghi, non solo spazi, ma luoghi umani, con tutto il portato simbolico e relazionale che abbiamo imparato a riconoscere, anche grazie alla filosofia contemporanea – senza la quale, bisognerà pur dirlo, noi saremmo rimasti indietro anni luce.

Il sapere transdisciplinare

La ripetibilità dei percorsi è stato uno dei paradigmi della scienza sperimentale. Occorre riconoscere che la ripetibilità dell’approccio transdisciplinare è molto più complessa, perché di volta in volta il contesto fa la differenza; anzi, direi che alcuni percorsi di transdisciplinarità sono irripetibili. Io non credo si debba rinunciare alla scientificità, ma credo che non si possa più cercare la ripetibilità in virtù del vuoto. Inutile nascondersi dietro a finezze epistemologiche: nel momento in cui il laboratorio si apre, avviene una contaminazione. Ciò rende il metodo della ricerca sempre più parte integrante della ricerca stessa.

L’epistemologia della transdisciplinarità pone un’altra questione a tutte le discipline, compresa la teologia: quella della conflittualità interna. Chiunque si avvicini a un percorso transdisciplinare fa questa scoperta, qualunque sia l’ambiente con cui si confronta: tutte le discipline sono attraversate da conflitti, da contrapposizioni e le linee di frattura spesso sono le stesse che attraversano la teologia.

L’ultima rivoluzione che occorre imprimere al laboratorio è l’apertura agli esterni: quella che chiamiamo terza missione, per la teologia, è inseparabile dalla prima (la ricerca) e dalla seconda (la didattica). Questo significa che il rapporto tra la teologia e il sensus fidei fidelium, uno dei capisaldi del cammino sinodale, è costitutivo. Il mondo accademico deve rimanere tale, con tutta la serietà possibile, ma forse la teologia è la prima che può permettersi di ricordare a esso la sua profonda continuità con l’esperienza di tutti, anche dei più dimenticati o marginali. La figura dell’accademico che approfitta della sua stessa incapacità di vivere nel mondo va bene per i film di Verdone, non per l’università contemporanea.

La teologia ha una sua lingua specifica, è ovvio, ma si occupa di parole comuni. La lingua specifica che abbiamo elaborato serve propriamente a dare senso e profondità alle parole che gli esseri umani usano, nella loro lingua comune, a dare voce alla profondità che queste parole contengono.

Libertà, giustizia, felicità, salvezza. Sarà pur vero che alcune parole più connotate religiosamente stanno lentamente scomparendo, ma la lingua degli uomini e delle donne del nostro tempo è ancora piena di riferimenti al mondo cristiano e, in ogni caso, sarà sempre l’interlocutore principale del lavoro teologico. Non solo perché la teologia non può permettersi di trasformarsi in gnosi (la cui tentazione ricorrente è la costruzione di una lingua da iniziati), ma soprattutto perché il suo compito non è produrre la fede, ma piuttosto riconoscerla, là dove si dà.

E poi perché, di fronte ad alcune questioni oggi definitie epocali (l’Intelligenza Artificiale, la crisi ecologica, le grandi migrazioni) talvolta un buon senso condiviso è lo strumento più efficace per resistere alle ideologie e teorie più bizzarre.

Forse, nell’ambito della transdisciplinarità, noi dovremmo ricordare a noi teologi (anzitutto) e ai nostri colleghi (poi) che tutti i nostri fratelli e le nostre sorelle hanno accesso al vero, in quanto esseri umani. Immaginare una nuova forma di laboratorio significa anche liberarsi il più possibile della pesante eredità del mito platonico, che vede tutti rinchiusi nella doxa mentre pochi eletti possono ambire all’episteme.

Questa figura di logos, per quanto convincente, non è quella del Vangelo, nella quale il primo a uscire dalla caverna e a vedere la luce vera è un ladro appeso a una croce, grazie a quell’ultimo straccio di umanissima compassione di cui persino lui è ancora capace.

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