Nicea 325: il grande e santo sinodo

di:

nicea

Il sinodo di Nicea e il ruolo dell’imperatore Costantino. La dottrina sul Figlio di Dio e la proposta di un’unica data per celebrare la Pasqua.

Come ha osservato lo storico conoscitore del diritto romano Francesco Lucrezi,[1] ricostruire ciò che è accaduto nel passato sulla base delle fonti antiche e tardo-antiche non è impossibile, ma richiede alcune “istruzioni per l’uso”. Ad esempio, occorrerà conoscere le finalità di coloro che, peraltro in assenza degli atti ufficiali del primo sinodo ecumenico di Nicea del 325, ne fanno cenno o ne danno il resoconto.

Quelle finalità tardo-antiche erano del tutto diverse da quelle perseguite dagli storici contemporanei, i quali lavorano e scrivono sulla base di una teoria scientifica – denominata storiografia – assente nel bagaglio culturale antico, non essendo ancora maturata l’idea di una ricerca, e relativa rappresentazione, della cosiddetta “verità dei fatti”.

Così, quando Eusebio di Cesarea (che è una delle fonti per conoscere ciò che poté avvenire nel corso del primo concilio ecumenico del 325) narrava i fatti e i fasti dell’imperatore Costantino, sapeva benissimo che stava descrivendo una vicenda non soltanto reale, ma anche intrisa di leggenda e di aspettative. La stessa era, perciò, da lui narrata anche alla luce della prospettiva che fosse ormai avvenuta, nell’esistenza personale di un imperatore romano, l’irruzione del divino cristiano: esso lo stava trasformando, anzi stava parallelamente riformulando l’esistenza stessa di tutti i cristiani (vescovi, presbiteri, diaconi e diaconesse, laici) nelle vastissime terre, ormai aggregate in una sola mano: quella del potere imperiale, sia su Roma che su Costantinopoli.

Del resto, tra le altre incombenze e titoli, l’imperatore aveva anche quello di essere pontifex maximus, ovvero sommo pontefice (un titolo che, progressivamente, sarà attribuito e assorbito dal vescovo di Roma).

Questo ruolo di sommo pontefice – già nel 63 a.C. – era stato assunto da Giulio Cesare, il quale aveva ricevuto il titolo di “divus” (divino) e, così, poteva avere un proprio “flamen”, ovvero uno che accendesse il fuoco in onore della divinità.

Il divino Costantino, unico religiosissimo imperatore dei due polmoni dell’impero romano, oltre a poter nominare, tra i membri del senato, i componenti dei collegi sacerdotali (che divennero, in alcune zone, la via per il riconoscimento della liceità del culto cristiano, che così non avrebbe più dovuto subire le persecuzioni da parte dei governatori locali), ri-affermò la funzione degli aruspici/indovini, deputati a osservare le folgori che cadessero sul palazzo imperiale e sugli altri edifici pubblici. Egli aveva nominato, infatti, il 20 agosto 315, Vettio Rufino quale praefectus Urbi: costui era membro di uno dei più importanti collegi sacerdotali.

Sempre in quanto pontefice sommo, il medesimo Costantino si fa accompagnare da Vettio Agorio Pretestato nei riti di consacrazione e di dedicazione dell’altera Roma (= seconda Roma), cioè di Constantinopolis.

A Nicea, la fine del primo sinodo ecumenico del 325 sarà seguita, non a caso, dai ventennali di Costantino, di cui fa cenno la Vita Constantini, redatta da Eusebio di Cesarea.

Questo “storico” ricorda che, circondato dai numerosi vescovi del Nicea I, Costantino, avendo completato il ventesimo anno del suo regno, ordina anche la celebrazione delle feste generali per la sua designazione, nel corso delle quali offrire preghiere comuni di ringraziamento a Dio.[2]

Nell’aula conciliare dove, il 19 giugno del 325, viene sottoscritta la comune formula di fede, l’imperatore sembra aver avuto una conoscenza abbastanza generica e imperfetta degli errori discussi dai padri a proposito dell’eresia ariana. È ciò che emerge nella Lettera alla chiesa di Alessandria, che l’imperatore vuole si scriva per pubblicizzare le determinazioni del sinodo, il cui testo ci viene riportato dallo storico Socrate.[3]

Costantino, in quest’altro resoconto, non appare potersi leggere un apprezzamento specifico delle sottigliezze dottrinali dibattute, per cui la ricostruzione in esso riportata appare dipendere molto dalle “spiegazioni” di altri vescovi suoi amici.

Anche per questo la scelta filo-cristiana di Costantino, più che un incentivo all’unanimità dottrinale, diviene una sorta di catalizzatore – come ha scritto Giancarlo Rinaldi – di antiche e recenti controversie teologiche. Se, infatti, in Africa imperversava lo scisma donatista, «l’oriente e, più in particolare, le grandi città di Alessandria e di Antiochia, erano invece lacerate dalle dispute sorte intorno all’insegnamento di Ario».[4]

Intanto, al vescovo “rigorista” Melezio di Licopoli, che si mostrava scontento del mite trattamento riservato dalla Chiesa di Alessandria a coloro che avevano apostatato dalla fede sotto Diocleziano, fu ingiunto di non immischiarsi nelle vicende di un’altra chiesa particolare.

Lotte dottrinali mai sopite

I pastori di Oriente e di Occidente, grazie all’iniziativa del “facitore di ponti” – l’imperatore Costantino –, stanno come imparando il lungo cammino verso una fede unanime e una disciplina con tracciati unitari, però differenziata da contesto a contesto geo-culturale.[5]

Non è un caso che, anche sotto Costanzo e nonostante il già celebrato sinodo ecumenico di Nicea del 325, le lotte teologiche non si assopiranno e i conflitti tra Chiese particolari non diminuiranno. Anzi tutto ciò comporterà, da parte dei vescovi, soprattutto di Oriente, ma non solo, continue provocazioni/appelli all’autorità imperiale, perché intervenga e metta pace tra le parti, che spesso vanno diventando, invece, delle vere e proprie fazioni.

Indipendentemente dagli sviluppi della grande controversia dottrinale, messa a punto nel 325 a Nicea, anche in Gallia, come attesterà l’episcopato di Ilario di Poitiers, si andranno a poco a poco precisando alcuni punti nodali della dottrina “creduta”, rispetto al linguaggio oggettivamente più fluttuante dei secoli precedenti.

Lo stesso Ilario ci dice che soltanto nel 356 egli, seppur in ritardo di trent’anni dall’assise conciliare presieduta da Costantino, prenderà conoscenza diretta della formula di fede di Nicea.[6]

Il pontefice massimo imperiale viene, dalle diverse parti in conflitto, considerato come una “sorta di tribunale di ultima istanza” per approvare formule di pacificazione e di concordia.

Nonostante la formula del simbolo niceno, la generazione eterna del Figlio, sarà ancora intesa, da parte di alcuni, ora come creazione del Figlio dal nulla (per cui lo stesso Figlio, essendo generato da un Padre nel tempo, sarebbe da considerare una creatura, seppure la prima), ora, invece, come creazione avvenuta in un certo momento: forse che, in Dio, a un certo punto, viene generato, forse creato, quello che il prologo del Vangelo di Giovanni chiama “Logos” che diviene “sarx/carne”? Si tratta, forse, della genesi corporea come di un qualunque altro essere umano da parte del proprio padre?

Spesso le parti in causa si accusano reciprocamente di aver abbandonato la “lettera” dei testi sacri, soprattutto dei Vangeli, spacciando, con artifici retorici, una formulazione dottrinale, che approfitterebbe della fede dei semplici, allontanandosi dalle testuali parole che il Signore stesso aveva, invece, comandato di utilizzare; di fatto, si lamenta che si stia operando una cesura rispetto alla fede tradizionale (o ricevuta) e, quindi, si vadano propugnando teorie che le parti avverse avrebbero bollato come irreligiose ed empie.

Come la sacra Scrittura cresce insieme con chi la legge,[7] così anche il sensus fidei si precisa e si approfondisce, come opportunamente ci è stato ricordato nel corso della XVI Assemblea del Sinodo mondiale dei vescovi: «L’esercizio del sensus fidei non si confonde con l’opinione pubblica. È sempre congiunto al discernimento dei Pastori ai diversi livelli della vita ecclesiale, come mostra l’articolazione delle fasi del processo sinodale. Esso punta a raggiungere quel consenso dei Fedeli (consensus Fidelium) che costituisce “un criterio sicuro per determinare se una particolare dottrina o una prassi particolare appartengono alla fede apostolica”».[8]

È proprio per questo che, nel periodo che va dall’impero cristianeggiante di Costantino all’impero cristianissimo di Teodosio, che si ricorre e si scrive, da parte dei vescovi, al pacificatore-imperatore di turno, affinché egli assecondi, per esempio, la linea prevalente, sottoscritta a Nicea nel 325, che tuttavia molti, tra gli stessi sottoscrittori, se non proprio ripudiarla, re-interpretavano con notevoli differenze.

Quasi unico difensore della dottrina di Nicea rimarrà Atanasio, il quale, dal 328, tre anni dopo il Nicea I, è vescovo di Alessandria, la stessa sede episcopale in cui Ario aveva iniziato a proporre le sue peculiari formulazioni della fede cristologica.

I due esili di Atanasio, dovuti anch’essi a motivi politici oltre che teologici, faranno poi sì che anche il papa di Roma, Giulio (337-352) possa finalmente venire anch’egli a conoscenza dei termini della rilevante vertenza dottrinale, fino a decidere, da parte sua, di difendere le formule greche di Atanasio, ma anche di Marcello di Ancira (che gli orientali accusavano, invece, di sabellianismo), mentre, tra gli occidentali, sarà Ilario di Poitiers ad essere designato come l’Atanasio dell’occidente per la sua elegante messa a punto dottrinale latina contro le eresie.

La dottrina del Sinodo niceno del 325, del quale tutte le parti in causa continuano a dire di aver voluto continuare a professare ininterrottamente la fede, non impediscono frattanto che se ne riformulino continuamente, in nuovi modi, con omissioni e/o aggiunte, i punti ritenuti “cardine”, dalle diverse parti in causa e, spesso, in conflitto.

Si ricordi che, sotto l’imperatore Costanzo II, il “potere” nel frattempo acquisito, anche grazie a Nicea, dai vescovi cristiani non considererà assurdo delegare all’imperatore alcuni caratteri e segni esterni di chiaro tipo episcopale, come un cerimoniale liturgico e uno stile iconografico, mentre, a sua volta, la cattedra episcopale sarà improntata a uno stile proprio del fasto imperiale.

Sarebbe troppo facile parlare di alleanza fra trono e altare, come farà, assai tardivamente, la storiografia scientifica che, come si diceva all’inizio, ha altri intenti rispetto agli scrittori tardo-antichi.

In ogni caso, a partire dal 350, un vescovo avrà addirittura diritto all’omaggio di un’icona e sarà pure raffigurato in modo tale che non possa essere subito percepita la differenza tra modo di rappresentare un imperatore e modo di raffigurare un vescovo.

Nessuna meraviglia, quindi, che le opere storiche del pagano Ammiano Marcellino, che spaziano sugli eventi dal 353 al 378, facciano ancora cenno alle controversie filosofico-teologiche, sorte già prima di Costantino e proseguite all’epoca di Costanzo II, fino addirittura a contrapporre la religio simplex dei fedeli alla vera e propria concertatio verborum, che caratterizzava, invece, i pastori.

Riferisce il medesimo Ammiano Marcellino che le diatribe e le lotte tra vescovi sulle formule venivano addirittura messe in scena a teatro, con lo scopo, non nascosto, di suscitare le risate degli spettatori.

Quella che noi oggi chiameremmo opinione pubblica, metteva ora in piazza – come già nei tempi arcaici di Aristofane, che portava in scena su una cesta sospesa in aria, il filosofo Socrate – le diatribe e contrapposizioni sulle formule di fede, come peraltro ci attestano sia Eusebio nella sua Vita di Costantino, sia Socrate e Teodoreto.

Absit iniuria verbis: perfino la contemporanea formulazione di ben due recenti ondate di dubia, da parte di alcuni cardinali di età contemporanea, fanno addirittura sorridere, se paragonate con quelle controversie tardo-antiche, spesso aspre e, in qualche caso, anche violente, che avvenivano sia fuori che dentro le aule dei sinodi locali e perfino nella prima aula conciliare ecumenica di Nicea di Bitinia.[9]

Il senso delle formule di fede, ieri e oggi

Il primo dubium dei cardinali, sottoposto al papa nell’ottobre 2023, come si ricorderà, poneva al centro la correttezza del procedimento della re-interpretazione storica delle verità della Divina Rivelazione.

Se paragonato alle narrazioni delle controversie, non soltanto episcopali, ma anche politiche e imperiali, circa le posizioni espresse prima da Ario e poi, al suo seguito, dai suoi seguaci, il dubium di oggi, affrontato con il punto di vista della storiografia scientifica, sembra una questione circoscritta a poche persone, che si auto-configurano con il ruolo di difensori della retta dottrina, per provocare la presa di posizione del vescovo di Roma sul punto controverso o generatore di dubbio.

Le cautele storiografiche odierne potrebbero ricordare che, mentre si vanno formulando dubbi circa il corretto modo di dire la fede, frattanto si rischia di sapere che il re è nudo.

Fuor di metafora, mentre si chiedono chiarimenti su formulazioni dubbie della dottrina da credere, l’indifferenza religiosa, e perfino la miscredenza, caratterizzano l’intero occidente cristiano, anzi lo stesso nord del mondo.

Non è un caso che, almeno da Giovanni Paolo II in poi, ci si spinga a parlare di nuova evangelizzazione: ovvero, quasi una nuova seminagione del Vangelo cristiano in un terreno, divenuto, se non desertico, almeno arido, che attende, come insiste papa Francesco, la missione di una Chiesa in uscita.

La fiaba di Hans Christian Andersen – “I vestiti nuovi dell’imperatore” – narrava di un imperatore superficiale e vanitoso, molto attento al suo aspetto esteriore, soprattutto all’abbigliamento, che dà credito a due furfanti, che gli garantiscono di essere in grado di produrre una stoffa preziosissima e meravigliosa, con il pregio di essere invisibile agli ignoranti. Solo i dignitari, per dovere di mestiere, si sperticano comunque in lodi esagerate della preziosa stoffa invisibile indossata dal sovrano, fino a che la voce innocente di un bambino, grida: “Il re è nudo!”.

Solo che il “vestito” della fede creduta – ovvero le formulazioni dottrinali di essa, come quella confessata nel simbolo di fede elaborato a Nicea – non è la truffa di un furfante, che l’innocenza di un bambino un domani smaschererà. È in questione, infatti, una scommessa più elevata: cioè se si debba/si possa re-interpretare, e in quali termini, la formulazione linguistica della verità rivelata; o anche se le riformulazioni periodiche – andate a convergere nelle varie redazioni dello Io credo, oppure del Noi crediamo (come si dirà nel primo concilio ecumenico di Costantinopoli del 381) – debbano accadere in base ai cambiamenti delle culture e delle concezioni antropologiche.

Non è un caso che la scelta del Nicea I – d’introdurre nella formula di fede un termine ontologico e antropologico (alla lettera: “il Figlio è dalla ousìa del Padre”) – non intendeva far altro che descrivere, in termini tecnici greci, le relazioni che, nella Trinità, si danno tra Padre e Figlio, nonché tra Figlio e Padre.

E tuttavia, la firma, pur sottoscritta pressoché unanimemente, di una medesima formula, non impedirà che lo stesso imperatore, ma anche tanti altri vescovi, compreso lo scrittore Eusebio, si sentiranno autorizzati a ri-significare in sensi simili, ma non identici, le conflittuali formulazioni nel corso di un secolo, il quarto dopo Cristo, che gli studiosi di patrologia e di teologia hanno denominato secolo della controversia ariana.

Insomma, si dà più di una reazione, non solo linguistica, ai diversi modi d’intendere le espressioni già consacrate nella “cosa del testo” della Bibbia giudaico-cristiana.

Alla sola Scriptura, come poi diranno i riformati in età moderna, si aggiungono, infatti, le tante crescite e concrezioni di un testo che avanza e cresce insieme coi suoi lettori, come figurativamente diranno i padri di Trento, i quali vorranno porre, nell’aula conciliare ecumenica moderna, insieme con il Libro della Bibbia, anche il Libro della Somma di teologia di Tommaso d’Aquino, quasi a voler ribadire che non ci si può/non ci si deve limitare alla cosa del testo, ma accoglierne le rielaborazioni e ri-significazioni della tradizione teologica.

E ciò tanto più se si ricorda che, nelle zone di lingua greca della Chiesa, si utilizzavano, nei secoli dal quarto in poi, termini ed espressioni che suonavano diversamente nel latino dei vescovi e dei fedeli del polmone occidentale dell’unica grande Chiesa: questa. nel concilio di Costantinopoli primo, parlando al plurale, aggiungerà esplicitamente come nuovo articolo del Simbolo di fede: «[Noi crediamo] in una sola cattolica, apostolica Chiesa».

Non è un caso che Marcello di Ancira, prendendo le distanze da un certo Asterio, di lì a poco rispetto ai pur roventi dibattiti niceni, giudicherà improprio affermare che il Logos sia stato generato prima di tutti i secoli, sollecitando, invece, a distinguere, sulla base del prologo giovanneo e sulle riletture filosofiche di tenore medio- e neo-platonico di esso, tra l’essere fondato prima della conta dei secoli e l’essere stato generato prima dei secoli.[10]

Del resto, basta un confronto sinottico tra la formula di fede del 325 (Simbolo niceno) e quella del 381 (Simbolo niceno-costantinopolitano), per constatare la consapevole scelta, da parte dei vescovi, di omettere alcune precedenti espressioni e d’introdurne di nuove, che, nel frattempo, erano evidentemente maturate nei padri e nelle Chiese a cui essi sovrintendevano. Non si tratta di uno sviluppo della dottrina; ma, più verosimilmente, di uno sviluppo nella comprensione delle verità dottrinali.

Non è richiesto, ieri come oggi, di cambiare la divina rivelazione secondo i cambiamenti culturali del tempo o secondo le nuove visioni antropologiche che quei cambiamenti stessi provocano o promuovono; bensì, siamo di fronte a un progresso nel nostro modo di comprendere quanto viene proposto dai concili ecumenici come vincolante per sempre: immutabile e, quindi, da non contraddire, ma pur sempre ammettendo un qualche progresso nella comprensione della dottrina. Il che non implica alcun mutamento della verità delle cose e delle parole, né modifiche alla rivelazione, ma evidenzia la maturazione, anche lessicale e dottrinale che tutta la Chiesa cattolica (articolata nelle Chiese particolari) condivide nel corso dei concili ecumenici e ripropone attraverso il servizio di unità del vescovo di Roma, che presiede nella carità a tutte le Chiese di occidente e di oriente, anzi alle Chiese di tutti i punti cardinali.

L’auspicio della data unica per la Pasqua

Poco dopo che Costantino si era affermato su Licinio quale unico signore dell’impero, ad Antiochia si era riunito, proprio nel corso del medesimo anno 325, un concilio locale di vescovi, allo scopo di consacrarvi vescovo Eustazio (325-326), ma anche di redigere una comune confessione di fede, che ponesse un argine contrario all’insegnamento del presbitero Ario di Alessandria (256/60-336).

Ario doveva ormai godere di un largo seguito e lo avrà anche dopo la sua morte, perfino fuori dai confini della città africana d’Egitto.[11]

La vicenda della controversia dottrinale ariana è sintomatica della passione che le Chiese antiche mostravano in cose riguardanti la fede, alla cui formulazione avevano concorso anche alcune forme di origenismo radicale, nonché l’esegesi letterale di Luciano di Antiochia, che aveva fatto prevalere l’affermazione dell’unico Dio rispetto ai tre in Dio (Padre-Figlio-Spirito). E ciò non senza la spinta propiziata da alcune teorie filosofiche di tipo medioplatonico che, proprio nella città alessandrina, avevano preso piede.

Ora, in quanto pontefice, Costantino si sentì chiamato in prima persona a svolgere un ruolo che desse una direzione unitaria ai numerosi pronunciamenti di vescovi, che non riuscivano a imprimere una linea vincente in questioni dottrinali molto complesse.

Come ricorda Eusebio di Cesarea, Costantino permette, a coloro che sono lontani, l’uso gratuito dei mezzi di trasporto imperiale, mentre fornisce ad altri un’ampia fornitura di cavalli per il trasporto a Nicea, in Bitinia (città chiamata anche “Vittoria”). Insomma, come coloritamente riferisce lo storico di corte Eusebio, una vasta ghirlanda di sacerdoti, composta da una varietà dei fiori più scelti, era presente a Nicea, disponibile, come già in passato, ad accogliere un modo nuovo per dire le cose della fede di sempre.

Come pontefice, Costantino era considerato anche un “novatore”, come lo definisce Ammiano Marcellino, avendo, per esempio, stravolto il Kalendarium in uso, con l’introduzione del Dies Solis, ossia della domenica cristiana non lavorativa (3 marzo 321).

Anche a motivo di ciò, non sarà stata secondaria, nell’aula conciliare nicena, la spinta pontificale imperiale nello stabilire una data comune per la Pasqua.

Si ricorderà che la data comune, oltre ad essere stata oggi esplicitamente ricordata, nel Giubileo del 2025, diviene anche il possibile risultato del primo Giubileo del terzo millennio: «Possa essere questo un appello per tutti i cristiani d’Oriente e d’Occidente a compiere un passo deciso verso l’unità intorno a una data comune per la Pasqua. Molti, è bene ricordarlo, non hanno più cognizione delle diatribe del passato e non comprendono come possano sussistere divisioni a tale proposito» (Bolla, n. 17).

Purtroppo, pur auspicando oggi, come nel 325, una data comune per la Pasqua, sono derubricate a diatribe del passato quelle che, dal punto di vista della ricostruzione storica, dovettero apparire, piuttosto, una calibrata soluzione unitaria, indotta dal presidente del concilio niceno, che peraltro segnò un’aspra punta di critica alla modalità ebraica di calcolare la data di Peisah, di cui parlavano esplicitamente i Sinottici nei racconti di passione del Signore.

Conformemente alla legge biblica, la festa della Pasqua ebraica è il «quattordicesimo giorno del primo mese» (cf. Lv 23,5; Nm 28,16; Gs 5,11), che porta il nome di “Nisan” e inizia con il novilunio primaverile.

Le Chiese cristiane, che seguivano questa tradizione, alla prima luna piena dopo l’equinozio di primavera, celebravano la Pasqua del Signore in una data che variava secondo il computo lunare dei pleniluni.

Mentre, poi, alcuni cristiani, soprattutto in Asia Minore, celebravano sempre la Pasqua in concomitanza con la Pasqua ebraica, ovvero il 14 del mese di Nisan, indipendentemente dal fatto che fosse una domenica, oppure no (erano perciò detti quartodecimani).

Altri cristiani, soprattutto in Siria e in Mesopotamia, celebravano la Pasqua la domenica successiva alla Pasqua ebraica (erano detti protopaschiti).

Della differenza tra racconto antico della storia ed esigenze critiche contemporanee, erano perfettamente consapevoli i vescovi del quarto secolo che, nel primo concilio ecumenico di Nicea, aderiscono all’idea di una data comune per la Pasqua.

Ai nostri occhi contemporanei, il racconto di quei fatti può risultare efficace o inefficace, avvincente o noioso, ma esso non dev’essere riletto – come ci aspetteremmo oggi – come “vero” o come “falso”.

Se, come si è detto, la narrazione dei fatti non era ancora una scienza, cioè la scienza storica, comprendiamo meglio anche il senso della Lettera dell’Imperatore Costantino a tutti coloro che non sono presenti al Concilio (quale si legge ancora in Eusebio di Cesarea, Vita Const., Lib. III, 18-20). Se ne ricava che, nell’aula conciliare, era emersa, tra l’altro, la questione relativa alla festa sacra della Pasqua.

Al dire del pontefice massimo, cioè dell’imperatore Costantino, l’orientamento generale fu quello che sarebbe stato conveniente, bello e desiderabile che tutti, in accordo tra loro e allo stesso modo, dovessero tenere la festa in un medesimo giorno, ovvero in giorno di domenica, cioè nel giorno in cui i credenti ricevono, nel Risorto, la speranza dell’immortalità.

La più santa di tutte le feste, inoltre, non avrebbe più dovuto seguire il calcolo degli ebrei, per cui l’Oriente avrebbe potuto celebrare finalmente la festa di Pasqua nello stesso tempo in cui la celebravano i Latini e tutti coloro che avevano osservato la celebrazione della Pasqua fin dall’inizio.

Se ogni domanda non fatta corrisponde a un libro non letto, la domanda, che ritorna nel Giubileo, circa il perché dell’auspicio di una data comune per la Pasqua, la Bolla d’indizione è il testo che offre le linee di una risposta: «Per avvicinarsi all’obiettivo di una data di Pasqua comune, sono già state proposte e discusse varie soluzioni. Quella più semplice sarebbe senza dubbio prendere come data della morte di Gesù il 7 aprile del 30, in modo da celebrare la Pasqua sempre la seconda domenica di aprile. Oltre a questa data specifica, esistono altri suggerimenti per giungere a un’intesa sulla data di Pasqua, con l’obiettivo di trovare una data fissa che non si basi sul ciclo variabile della luna, ma rimanga immutabile. In questa direzione, nel corso del XX secolo diversi responsabili delle comunità protestanti e anche del Consiglio Ecumenico delle Chiese hanno proposto una data fissa per la Pasqua».[12]

Conclusioni

Gelasio, Socrate e Teodoreto sono gli storici che riferiscono della Lettera dei padri conciliari alla chiesa di Alessandria (il cui vescovo Alessandro risultava presente in concilio ecumenico a Nicea). Diretta ai fedeli tutto l’Egitto, della Pentapolis, della Libia, e di ogni altra nazione sotto il cielo,[13] in essa si comunicava che, pressoché unanimemente (solo due vescovi non se la sentirono di firmare la formula), i santi risultati del concilio erano stati ottenuti grazie alla comune pace e armonia dei pastori nell’opera pastorale e dottrinale di sradicamento di ogni eresia.

In quella stessa Lettera viene altresì comunicato l’anatematismo contro la formulazione dottrinale di Ario e dei suoi seguaci: si tratta, nel caso della proposta di Ario, di una bestemmia contro il Figlio di Dio; dire che Figlio è da cose che non sono; oppure, affermare che, prima di essere generato, il Figlio non era e, quindi, ci sarebbe stato un tempo in cui egli non era, non è altro che una bestemmia. Era altresì blasfemo l’asserire che il Figlio di Dio è, per sua libera volontà, capace di vizio e virtù; come pure, il dichiarare che egli è una creatura.

I due vescovi che non sottoscrissero la formula di fede nicena, Theonas di Marmorica e Secondo di Tolemaide, furono anch’essi anatematizzati.

Ma la presa di posizione conciliare riguarda non soltanto la formulazione retta della dottrina (= fede creduta), ma anche la vita vissuta.

Difatti, la lettera parla anche di Melezio e dell’insolenza di lui, nonché di coloro che sono stati da lui ordinati: egli dovrà rimanere nella sua città, ma non avrà più, in nessun luogo, alcuna autorità per ordinare, o amministrare gli affari, o fare le nomine ecclesiastiche.

Esiste, a Nicea, oltre all’anatema dottrinale, la prassi disciplinare della sospensione o inibizione di alcune prerogative dei singoli vescovi, come Melezio, a cui viene inibito di fare qualunque cosa senza il consenso dei vescovi della Chiesa cattolica e apostolica.

Come riconosciuto da papa Francesco, già all’epoca di Nicea ci si mostra «un’opportunità importante per dare concretezza a questa forma sinodale, che la comunità cristiana avverte oggi come espressione sempre più necessaria per meglio corrispondere all’urgenza dell’evangelizzazione: tutti i battezzati, ognuno con il proprio carisma e ministero, corresponsabili affinché molteplici segni di speranza testimonino la presenza di Dio nel mondo».[14]


[1] Francesco Lucrezi, Scaffale-Nazismo e parossismo, “Pagine ebraiche-Moked. Il portale dell’ebraismo italiano”:

https://moked.it/ [27.3.2025].

[2] Eusebio, Vita Constantini, capitolo XLVIII.

[3] Socrate, Historia, 1, 9.

[4] G. Rinaldi, Roma e i cristiani. Materiali e metodi per una rilettura, Vivarium novum, Frascati-Napoli2023, p. 408.

[5] Ho potuto perciò parlare di cammino non soltanto giubilare, ma sinodale, nel mio recente volume, a cui rimanderei: V. Bertolone, Camminare sperando. Il Giubileo del 2025 nella luce di Nicea, edizione la Valle del Tempo, Napoli 2025.

[6] Cf. J. Doignon, Hilaire de Poitiers avant l’exil. Recherches sur la naissance, l’enseignement et l’épreuve d’une foi épiscopal en Gaule au milieu du IVme siècle, Etudes Augustiniennes, Paris 1971, p. 166.

[7] Un altro criterio desumibile da Gregorio ricorda che la Scrittura scriptura sui ipsius interpres (la Scrittura è interprete di sé stessa) è stato illustrato da un’immagine suggestiva di san Gregorio il Grande nelle sue omelie sul profeta Ezechiele. Il papa discepolo di san Benedetto scrive: «Non posso forse paragonare una parola delle Scritture sacre a una pietra focaia? Nella mano che la tiene, questa pietra è fredda; ma quando viene colpita, essa fa nascere le scintille; ed emette un fuoco che presto diventa una fiamma».

[8] XVI Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Seconda Sessione (2-27 ottobre 2024): Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione. Documento finale, 26 ottobre 2024, n. 22.

[9] Dopo i dubbi del 2016, espressi da quattro cardinali, si ebbero, nel 2023, cinque cardinali che avanzarono dei dubia circa precisi punti di dottrina cristiana. In data 10 luglio 2023, essi inviano a Francesco 5 dubia (che affrontano temi che vanno dall’antropologia al quarto sacramento, passando per la benedizione delle coppie omosessuali e l’ordinazione delle donne). Il papa risponde, ma i cinque cardinali ritengono che quanto scrive Francesco non faccia altro che confermare la loro posizione − decidendo, quindi, di riformulare i medesimi dubia avanzati in precedenza per correggere la presunta inappropriatezza del magistero del papa (22 luglio).

[10] Marcello di Ancira, Opere: Lettera a Giulio; Frammenti teologici; Sulla santa Chiesa, Introduzione, testo greco e note a cura di Samuel Fernandez; traduzione ed edizione in italiano a cura di Emanuela Prinzivalli, Città nuova, Roma 2022, p. 171: Frammento 36.

[11] Un territorio, questo, che dice molto, anche a noi contemporanei, circa l’apporto della cultura cristiana egizia-africana nella ri-formulazione della fede creduta.

[12] Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, Videoconferenza per l’Eparchia italo-albanese di Lungro (20 aprile 2023), n. 3: https://www.christianunity.va/content/unitacristiani/it/cardinal–koch/2023/conferences/Conferenza-pressola-Facolta-di-Teologia-dell-Universita-di-Trnava1.html [25,3.2025].

[13] Gelasius, Historia Concilii Nicæni, lib. II, cap. XXXIII; Socr., H. E., lib. I., cap. 6; Theodor., H. E., Lib. I., cap. 9).

[14] Francesco, Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, n. 17: Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2024.

Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento

Questo sito fa uso di cookies tecnici ed analitici, non di profilazione. Clicca per leggere l'informativa completa.

Questo sito utilizza esclusivamente cookie tecnici ed analitici con mascheratura dell'indirizzo IP del navigatore. L'utilizzo dei cookie è funzionale al fine di permettere i funzionamenti e fonire migliore esperienza di navigazione all'utente, garantendone la privacy. Non sono predisposti sul presente sito cookies di profilazione, nè di prima, né di terza parte. In ottemperanza del Regolamento Europeo 679/2016, altrimenti General Data Protection Regulation (GDPR), nonché delle disposizioni previste dal d. lgs. 196/2003 novellato dal d.lgs 101/2018, altrimenti "Codice privacy", con specifico riferimento all'articolo 122 del medesimo, citando poi il provvedimento dell'authority di garanzia, altrimenti autorità "Garante per la protezione dei dati personali", la quale con il pronunciamento "Linee guida cookie e altri strumenti di tracciamento del 10 giugno 2021 [9677876]" , specifica ulteriormente le modalità, i diritti degli interessati, i doveri dei titolari del trattamento e le best practice in materia, cliccando su "Accetto", in modo del tutto libero e consapevole, si perviene a conoscenza del fatto che su questo sito web è fatto utilizzo di cookie tecnici, strettamente necessari al funzionamento tecnico del sito, e di i cookie analytics, con mascharatura dell'indirizzo IP. Vedasi il succitato provvedimento al 7.2. I cookies hanno, come previsto per legge, una durata di permanenza sui dispositivi dei navigatori di 6 mesi, terminati i quali verrà reiterata segnalazione di utilizzo e richiesta di accettazione. Non sono previsti cookie wall, accettazioni con scrolling o altre modalità considerabili non corrette e non trasparenti.

Ho preso visione ed accetto