Per una teologia con-testuale, porosa, inquieta

di:
Last Hope

Last Hope is a photograph by Radin Badrnia

Al pensiero non appartiene solo il movimento delle idee ma anche il loro arresto.
Quando il pensiero si arresta di colpo in una costellazione carica di tensioni,
le impartisce un urto per cui esso si cristallizza in una monade.
Il materialista storico affronta un oggetto storico
unicamente e solo dove esso gli si presenta come monade.
In questa struttura egli riconosce il segno
di un arresto messianico dell’accadere
o, detto altrimenti, di una chance rivoluzionaria
nella lotta per il passato oppresso

[Tesi di filosofia della storia, Tesi XXVII
in W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, 81-82]

Iniziare con Walter Benjamin in riferimento ad un passato (sempre) da rileggere, perché nel presente c’è (sempre) il rischio dello stop che disattende la visione di una storia lineare, quella di progresso sotto il controllo (chiaro ed evidente) della classe di turno dominante, dice della pregnanza e della necessità di una teologia con-testuale, forse quella che (nei suoi tempi) Benjamin diceva essere piccola e brutta, e dunque insufficiente.

Una teologia con-testuale non si accontenta di una sterile rilettura del passato, di una giustapposizione nel presente, di una tradizione (t minuscola) considerata sovrana e immutabile, ma si apre al rischio della bi-direzionalità, non solo di infondere saggezza al proprio tempo, ma nell’ascoltarlo: nell’imparare dai fallimenti passati non ancora compresi, dalle sollecitazioni/contaminazioni sempre nuove del presente, per un futuro inquieto ma vero e relazionale, e dunque paradossalmente rassicurante perché imprevedibile e non programmabile a priori.

Su queste premesse vogliamo porre, all’attenzione del pubblico di SettimanaNews, la recentissima miscellanea Elogio della porosità. Per una teologia con-testuale, fatica teologica dedicata al prof. Giuseppe Lorizio da una nutrita schiera di studiosi composta da colleghi, amici, allievi in occasione dell’emeritato del teologo lateranense.

copertina

Il volume comprende scritti di tre generazioni di teologi: la generazione che immediatamente precede per età e servizio accademico quella del festeggiato, che comprende il prof. Eilert Herms, emerito di teologia sistematica presso la Facoltà teologica evangelica di Tubinga, che ha collaborato con Lorizio nell’area di ricerca a carattere ecumenico, i proff. Ignazio Sanna e Romano Penna, emeriti della Lateranense, il p. Vito Nardin dei rosminiani, il filosofo emerito dell’Università di Genova Luciano Malusa, Il filosofo dell’Università di Urbino Piergiorgio Grassi e l’amico e antico collega Nunzio Galantino, che ha redatto una ricca introduzione al pensiero e all’opera del dedicatario; la generazione di quasi coetanei quali Adriano Fabris (Università di Pisa), che partecipa con un serrato dialogo sul rapporto teologia/filosofia, gli evangelici Fulvio Ferrario e Lothar Vogel della Facoltà teologica valdese di Roma; quindi gli allievi tra i quali i dottorati della prima ora, oggi docenti in varie Facoltà teologiche italiane: i curatori Sergio Gaburro e Antonio Sabetta e Giuseppina De Simone e i giovani studiosi, anche loro guidati nel dottorato da Lorizio: Marco Staffolani, Giovanni Amendola, Rocco Salemme, Gabriel-Iulian Robu, Giammaria Canu, ai quali si aggiungono l’ortodosso Dimitrios Keramidas e il teologo della Gregoriana Francesco Cosentino.

In compagnia di Benjamin

Si tratta di una Festschrift non convenzionale, che non si prefigge soltanto l’omaggio ad un grande studioso, ma soprattutto intende continuare a riflettere sul passato, sull’oggi, e in misura sapienziale sul futuro, avendo consapevolezza che «l’istanza contestuale richiede da parte del teologo fondamentale l’attivazione dell’auditus temporis, ossia della capacità di leggere e interpretare il proprio tempo in modo da mostrare in relazione a esso la credibilità della rivelazione cristiana […] secondo un duplice atteggiamento fatto di distanza critico-profetica e vicinanza simpatetica» come precisa Galantino (Elogio della porosità, 15).

E Benjamin ci può accompagnare nell’analisi di questo corposo volume edito da Studium, attraverso alcune suggestioni che riprendo dalle paginette della sua «vicenda napoletana», raccontata in modo alquanto pittoresco e dettagliato (sotto un profilo letterario che cela l’attenzione al contesto religioso e a un preciso sfondo teologico), attraverso un dattiloscritto inviato all’amico Scholem nell’inverno del 1924, nell’edizione Napoli porosa a cura di Elenio Cicchini, per i tipi di Libreria Dante – Descartes.

Le biografie si intrecciano, e la storia (suppongo anche la teologia) di Lorizio deve molto a Napoli, soprattutto negli anni dell’insegnamento della Filosofia e della Metodologia teologica presso lo scolasticato gesuitico della sezione San Luigi. Chissà se il nostro teologo, di origini pugliesi, forse più abituato al «caloroso quanto caotico» dinamismo del Sud che non Benjamin, si sia trovato meno a disagio rispetto a quanto traspare dalle pagine dell’esperienza del filosofo berlinese. Di fronte alla Napoli del primo quarto di secolo del Novecento Benjamin rimane senza punti di riferimento rispetto alla sua provenienza (ma non teologia) teutonicamente ordinata e inquadrata:

[A Napoli] non è possibile orientarsi con i numeri civici. I punti di riferimento sono piuttosto costituiti da negozi, fontane e chiese. Ciò sempre ammesso che si riesca a individuarli! Infatti la tipica chiesa napoletana non svetta su una grande piazza, con transetto, abside e cupola ben visibili da lontano. Tende invece ad essere nascosta, incastonata in mezzo ad altri edifici, e pochissimi punti (e solo in determinate circostanze) consentono la vista delle cupole più alte. È in ogni caso impossibile isolare il corpo della chiesa dal corpo profano del palazzo cui è addossata [Napoli Porosa, 18].

Esiste dunque una zona, che è il confine, possibilmente tratteggiato, anzi sfumato, che appartiene a tutti e a nessuno allo stesso tempo. Con Gaburro occorre constatare che «da sempre i confini hanno segnato una demarcazione tra un territorio e un altro, tra il “mio” sapere e il “tuo”, tra ciò che è familiare e ciò che rappresenta un estraneo» e purtroppo spesso «per difendere i confini, anche teologici, per allargarli o restringerli, lungo la storia si sono fatte guerre, si sono sacrificate persone, si sono cercate alleanze ambigue» (Elogio della porosità, 169).

Nella Napoli di Benjamin, anch’essa tutt’altro che priva di difetti, i confini hanno però la capacità di diventare zona di transizione, tanto larga da costituire essa stessa un terzo spazio, tra casa e chiesa, tra umano e divino, tra ciò che è e ciò che ancora deve accadere, tra ciò che è work in progress e ciò che non cambia in eterno:

La porta [della chiesa] appena visibile, spesso nulla più che una tenda, rappresenta, per chi ne sia a conoscenza, il passaggio segreto e geloso. Basta un solo passo per trasportarlo dal guazzabuglio dei sudici cortili all’assordante solitudine di una navata alta e bianca, spazio pubblico amplificato, approdo barocco della sua esistenza privata. Questa, infatti non si dischiude tra le quattro mura domestiche, con moglie e bambini, ma nella devozione e nell’afflizione. [Napoli Porosa, 18-19]

La contestualità napoletana porta Benjamin alla riflessione filosofica, che noi mutuiamo anche per la nostra analisi teologica, sulla porosità:

Poiché nulla è concluso e fatto per sempre, in angoli come questi si riconosce a malapena fra quel che deve essere ancora costruito e quel che è già caduto in rovina. Porosità significa non solo, o non tanto, l’indolenza meridionale nell’operare, bensì piuttosto, e soprattutto, l’eterna passione per l’improvvisare. All’improvvisazione deve essere in ogni modo riservato lo spazio, deve essere sempre garantita l’occasione [Napoli Porosa, 19-20]

Esporsi «fino a perdersi» 

Nel trasmigrare dalla Facoltà napoletana alla cattedra di Teologia fondamentale nella Lateranense, Lorizio ha portato con sé lo spirito partenopeo, meridionale e diremmo mediterraneo. In esso vi è la necessità di una cristallizzazione che esprima la vitalità del proprio pensiero (e credo), ma anche contro ogni fissazione in strutture definitive, la porosità chiede di prendere seriamente in considerazione la temporalità e la contingenza, in quanto niente è costruito per sempre, e tutto ciò che inizia si sa già che troverà una sua fine, e nonostante tutto sia effimero, tutto contribuisce alla diffusione di cultura e allo sviluppo del Regno di Dio.

Una teologia che voglia definirsi una volta e per sempre, confondendosi e disperdendosi nelle categorie storiche e sociali, o volendo servire un potere umano piuttosto che quello celeste, è affetta dalla voglia di dividere piuttosto che di integrare. Certo, se mutuiamo il paragone del corpo architettonico ecclesiale praticamente «fuso» con l’edilizia urbana, e dunque di una teologia immanentista smarriremmo il proprium della Rivelazione.

Ma andando in profondità, come si comprende dalla narrativa di Benjamin, sul popolo napoletano (che non può fare a meno del suo contesto religioso, perché è un suo elemento definitorio), e come si è riflettuto in un recente convegno alla Pontificia Università Lateranense (cf. qui su SettimanaNews), deve essere proprio e della teologia e, in generale, dell’annuncio del vangelo, l’esigenza di esporsi «fino a perdersi» nel contesto e nel tempo che, tanto l’intellettuale e/o l’operaio evangelico, devono pensare e abitare, per portare frutto a tempo debito, avendo messo in conto l’impopolarità, il dissenso, fino all’oblio dalla pubblica memoria, ma anche l’intuizione e la provvidenza.

Questa passione «fino a perdersi» è ricordata da Giammaria Canu, nel suo intervento, «Pensare la fede, aggiornare il paradosso». Una teologia «porosa» riconosce che la realtà stessa è intessuta d’una stoffa intricata, alle volte «bucherellata», soggetta a molteplici interpretazioni, scivolosa e inafferrabile, anzi, chiaramente sottoposta alla contraddizione di trame e rotture di trame, per cui solo accettando il paradosso se ne può venire a capo, o meglio, si riesce ad attraversarla vedendo attraverso e oltre i buchi, magari servendosi delle irriducibili opposizioni polari guardiniane per cui se la vita «è una strutturale oscillazione ontologica […] l’opposizione polare diventa un metodo che impone il costante e pacifico ricominciare, un iniziare andando di inizi in inizi e verso inizi che non hanno mai fine», potremmo dire verso una “sintesi escatologica”» (Elogio della porosità, 169).

Il tempo e la festa

Altra suggestione su un tempo che, per chi ha coraggio, si configura perennemente come kairos, nonostante la difficoltà dell’identificazione in esso di ritmi stabili umani, (e, nonostante questo, l’affiorare e il perdurare di un ritmo divino), è la musica (e il divertimento incessante) della Napoli novecentesca:

Così tutto ciò che diverte è in movimento: musica giochi e gelati corrono per le strade. Questa musica è residuo dei giorni di festa passati e, insieme, preludio di quelli futuri, poiché il giorno di festa permea irrefrenabilmente ogni singolo giorno di lavoro. La legge che regola questa vita è, ancora una volta la porosità – legge ancora tutta da decifrare. Un granello di domenica si cela dietro ogni singolo giorno della settimana, e quanti giorni della settimana sono contenuti in questa domenica [Napoli porosa, 24]

Il tempo di Dio, il tempo della risurrezione, entra nel tempo dell’uomo. Altrimenti il tempo umano rimarrebbe semplicemente feriale, rimarrebbe frustrato nel suo anelito al di più, al movimento, contro ogni stasi e nullificazione portati dalla morte. Tale tempo umano è dunque strutturato, direzionato, diremmo con Rosenzweig orientato dalla Rivelazione.

Esso diventa il tempo in cui prendere coscienza di una creatio continua, che sempre rimane nelle mani di Dio provvidente ma anche, e forse di più, responsabilizzante nei confronti delle sue creature umane, tanto da nascondersi nelle trame della storia, tutto questo per produrre i proficui paradossi, tra limitato e infinito, tra peccato dell’uomo e grazia del Cielo.

Tale necessità dell’irruzione del tempo divino in quello storico umano, può avvenire anche a scapito della conoscenza della causalità trascendente. Usando una provocazione, che traggo dal contributo di Salemme che, nella miscellanea, esprime in maniera sintetica un passaggio della «teologia» di Benedetto Croce, tale azione/trasformazione divina si paventa anche nella situazione, in prima approssimazione considerabile come positiva, di un effetto reale, antropologico, senza che l’uomo debba conoscere necessariamente l’origine dell’effetto. Scrive Salemme:

se mi si chiedesse di riassumere in una formula complessiva l’assunto dell’intera opera di Croce, proporrei: «Vivere senza religione trascendente, ma immettendo il senso del divino nell’azione storica dell’uomo, così che ogni suo atto assuma un significato religioso e non ci sia una parte profana della sua vita distinta dalla parte religiosa» (Elogio della porosità, 337).

Il paradigma tecno-informatico

E, infine, nuovi contesti «esotici» sfidano la comprensione del tempo (e dello stesso uomo, che dal contesto sembra essere reinterpretato, se non ridefinito) attraverso il paventarsi di un paradigma omnicomprensivo tecno-informatico (per cui tanto l’uomo si robotizza con l’hardware meccatronico, quanto le IA si umanizzano con la poesia del nostro linguaggio verbale). Si tratta di un contesto/cambiamento di espansione/evoluzione personale/sociale, ma anche reale/virtuale, con ibridazioni e transizioni, tanto eterogeneo quanto forte da profetarsi enormemente maggiore dei precedenti (da società agricola a industriale, da industriale a primamente mediatica).

Tali ambiti possono (o meglio devono) essere interrogati dalla teologia, e da essa anche abitati e risignificati, per proteggere tanto l’uomo quanto il suo tempo terreno. Lorizio precisa:

Tutto questo incide sulla cultura e sul pensiero credente, per cui bisognerà interrogarsi non tanto sull’apprendimento delle macchine quanto sull’apprendimento dalle macchine. Esse […] “parlano di noi” e in un certo senso ci fanno da specchio e ci pongono di fronte ai nostri limiti mnemonici e razionali, ma anche alle nostre potenzialità di pensiero e di intelligenza. […] in questo senso le macchine educano, nel senso che tirano fuori ciò che siamo. […] L’unicità teologica, di Dio e della persona umana, ci farà positivamente ricordare che] la macchina è replicabile, perché si costruisce, la persona è unica perché si genera (Elogio della porosità, 299).

A seguire, Amendola propone una sorta di «possibilità del reset»: anche dopo aver sperimentato i limiti (psico-fisici) umani e quelli (fisico-tecnologici) delle IA, resta comunque all’uomo la scelta di tornare sui suoi passi, o ancor meglio, percorrere nuovi sentieri, sempre con l’opportunità di un tempo a spirale (per cui si può andare avanti pur essendo tornati indietro!): all’interno (o forse contro) distopici scenari possibili, in un’eventuale apocalisse dell’intelligenza artificiale

sembra emergere uno spazio insopprimibile di autentica libertà [umana] e, dunque, di possibilità di sfuggire alle logiche automatiche e meccaniche tipiche della struttura psico-somatica umana e agli ulteriori condizionamenti algocratici. Riteniamo inoltre che proprio la possibilità negativa di questo radicale stato di schiavitù, possa fungere da fattore di risveglio per un’umanità ancora più libera rispetto a quanto sperimentato finora. D’altronde, come intuito dal grande poeta tedesco Hölderlin nell’inno Patmos, «Wo aber Gefahr ist, wächst das Rettende auch» («Ma dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva»), ci sembra dunque sensato parlare del fenomeno dell’intelligenza artificiale in senso apocalittico/rivelativo, come uno straordinario segno dei tempi, che indica all’umano la direzione verso cui tendere in questa crisi (di crescenza) antropologica (Elogio della porosità, 324-325).

Pur avendo la scappatoia del reset, spero che sapremo ben indirizzare quanto il nuovo ci propone (e alle volte impone), pur in situazioni molto problematiche, non ben definibili, appunto ibride/transitorie.

Eccedenza della vita

Lo stesso Benjamin descrive l’esito della porosità napoletana come un’esplosione di vita, che pur nei suoi confini, o paradossalmente per i suoi particolari confini, dilatati e sbiaditi, permette di essere unica come città europea:

[A Napoli] diffusa, porosa, disseminata è la vita privata. […] L’esistenza, che per i nordeuropei è la più intima delle faccende, qui a Napoli diventa un fatto collettivo. […] La casa per i napoletani non è un asilo in cui si rifugiano gli uomini, ma un serbatoio da cui senza sosta si riversano all’esterno. La vita strabocca non solamente dalle porte né semplicemente staziona sulla soglia, dove la gente siede sbrigando le proprie faccende (hanno infatti la capacità di far diventare il loro corpo simile ad un tavolo). Ma anche le stesse attività domestiche escono fuori sul balcone e sporgono come piante da vaso. Dalle finestre dei piani più alti scendono, appesi a corde, panieri per la posta, la frutta e gli ortaggi [Napoli porosa, 36].

Molti altri spunti è possibile cogliere dal volume di teologia con-testuale, sia classici che «meno usuali», come alcune attualità che in questo finale abbiamo provato a saggiare. Lasciamo dunque al lettore continuare, non leggendo un commento all’opera, ma verificando con l’opera stessa se possa valere o meno l’elogio fatto alla porosità.

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