
Beatrice Iacopini, insegnate di religione e scrittrice, autrice del recente volume Etty Hillesum vivere e respirare con l’anima (cf. su SettimanaNews), interviene, a seguito di Marco Vannini (cf. su SettimanaNews), per precisare quanto si possa correttamente intendere per “post-teismo”.
La corrente teologica detta «post-teismo» o, come alcuni preferiscono, «trans-teismo», è fiorita essenzialmente in ambiente cattolico e in lingua spagnola. Da qualche anno, va sviluppandosi anche in Italia a opera di teologi come il gesuita Paolo Gamberini, Paolo Scquizzato, Paolo Zambaldi, della biblista Annamaria Corallo e altri.
Pur essendo un movimento composito, dalle sensibilità e posizioni molteplici, esso condivide alcune tesi essenziali, la prima delle quali si fonda sulla convinzione che l’immagine teistica di Dio, da una parte, non sia più credibile oggi e, dall’altra, sia dannosa per lo sviluppo di una spiritualità adulta.
La rappresentazione di Dio come Essere soprannaturale e onnipotente, che crea e governa il mondo con i suoi misteriosi disegni e con interventi miracolosi, appartiene, sostengono i «post-teisti», a un orizzonte culturale premoderno e prescientifico e, per questo, non è più credibile né creduta da grandi masse di persone: Unbelievable (Incredibile) è il titolo di un libro di successo del vescovo episcopaliano John Shelby Spong, a cui i «post-teisti» spesso si ispirano.
Il Dio del teismo
Il Dio del teismo è un Dio di cui si predicano una serie di qualità, sintetizzate nei dogmi, e a cui si attribuiscono rivelazioni e volontà di cui è depositaria l’istituzione ecclesiale: un Dio, insomma, oggetto di una serie di credenze da prendere per buone d’autorità, nonostante il recalcitrare dell’intelligenza.
Questo modo di concepire il divino ha finito per confondere la fede con l’adesione a credenze ovvero, in sostanza, con una forma di sottomissione della ragione, che oggi è percepita da molti come inaccettabile; oltretutto una concezione che rischia di nutrire una spiritualità della dipendenza, invece che favorirne una adulta e matura.
Non è un caso che, pur nella loro diversità, tutti i «post-teisti» condividano frequenti riferimenti alla cosiddetta «mistica», in particolare a Meister Eckhart, sempre citato: e si capisce il perché, posto che non c’è autore cristiano che più di lui abbia fornito gli strumenti per superare l’immagine teistica di Dio.
Il maestro renano, infatti, distingueva tra Deus, il Dio di cui si predicano attributi, concepito come personale, creatore e trascendente, e Divinitas, l’essenza divina stessa, che è al di là di ogni concetto e di ogni possibile rappresentazione – per questo detta anche «nulla» – che è impersonale, immanente e trascendente allo stesso tempo: il primo è, per così dire, il volto del divino come si mostra all’uomo religioso, ma a cui il cammino spirituale non si arresta, perché occorre andare oltre, per giungere, attraverso il totale distacco dall’io, al fondo dell’anima, laddove si sperimenta che «io» e «Dio» sono un tutt’uno. Si tratta appunto di quell’unitas spiritus che, a parere di Marco Vannini, scomparirebbe nel «post-teismo», in cui il polo divino sarebbe negato.
Dio e l’io: una cosa sola?
Eppure, è comune ai «post-teisti» la critica a un elemento che il teismo porta con sé, ovvero il dualismo, che vorrebbe l’uomo da una parte e Dio dall’altra, e così natura e soprannatura, e via dicendo; e, proprio nella mistica, essi rintracciano, all’unanimità, una chiave essenziale per superarlo, perché, a differenza della metafisica tradizionale, l’esperienza dello spirito vede che le contraddizioni si tengono, per cui, ad esempio, non è né un’assurdità né una bestemmia affermare che Dio e l’io sono una cosa sola.
Per questo, i già citati Gamberini e Scquizzato, ma anche José Arregi – il maggior «post-teista» di lingua spagnola – attingono anche alla filosofia indiana dell’advaita vedanta: si tratta di un pensiero che si dipana all’insegna della «non-dualità», che è un modo diverso, forse più consono a orecchie contemporanee, di dire l’unitas spiritus.
Afferma ad esempio Paolo Gamberini, nel suo Deus 2.0 (Gabrielli, 2022), dopo un excursus che passa per l’advaita vedanta, ma anche per Agostino, Eckhart, Caterina da Genova: «Colui che vede Dio non vede più sé stesso e Dio come aliud, ma sé in Dio… Tutto diventa teofania e incarnazione di Dio nel mondo… colui o colei attraverso cui Dio appare non può che essere puro nulla, vacuità pura, lasciar essere senza alcuna determinazione, perché solo così quell’altro che è Dio appare per quello che è [per costui o costei]: non aliud».
Nel panenteismo di Gamberini, da lui detto «monismo relativo», il dualismo Dio/uomo è superato, ma senza giungere ad alcuna negazione di Dio; anzi, chi deve annullarsi nel distacco da sé è il piccolo io dell’uomo – come insegnano i mistici – affinché traspaia Dio.
Paolo Scquizzato, da parte sua, sostenendo proprio con Vannini che il cristianesimo debba essere mistico per incontrare la propria profondità e non ridursi a superficiale credenza, scrive: «La fede [per il cristiano mistico] è esperienza dello Spirito nello spirito. Il credente afferma una verità… il mistico non conosce, esperisce l’unione e basta, fa solo l’esperienza dello Spirito» (Prefazione a Aa.Vv., Oltre Dio, Gabrielli, 2021).
José Arregi, infine, qualche anno fa intervenne a difendere sé stesso e gli altri autori di uno dei primi volumi «post-teisti» (in italiano Oltre Dio. In ascolto del Mistero senza nome, Gabrielli 2021) dall’accusa di ateismo che era stata mossa loro dal teologo José María Castillo. Sintetizzava così la loro posizione comune:
«Noi pensiamo che Dio, Mistero o Presenza o Realtà fontale, è oltre l’opposizione espressa dai termini “trascendente”/“immanente”, oltre, di conseguenza, il monismo panteista e il dualismo teista. Per esempio, “in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” che gli Atti degli Apostoli mettono in bocca a Paolo nell’Areopago di Atene (At 17,28) esprime trascendenza o immanenza? O quando san Giovanni della Croce afferma che “Dio è la sostanza dell’anima” vuol dire trascendenza o immanenza?».
Un tentativo di salvare Dio?
A-teismo sì, dunque, nel senso di non teismo (segnalo che ci sono anche gruppi di teologi, per esempio in Canada, che chiamano la loro ricerca non-theistic christianism), ma non certo ateismo tout court: anzi, se vogliamo, il «post-teismo» nasce proprio per salvare Dio dalla sua definitiva scomparsa dalla scena!
È un tentativo, ancora in nuce, di rileggere e ridire il nucleo essenziale del cristianesimo attraverso i nuovi paradigmi conoscitivi attuali, perché non scompaia del tutto e anzi risorga, forse in forma inedita ma conservando tutto il suo significato, e possa così continuare a ispirare, come ha fatto per due millenni, anche le donne e gli uomini del nostro tempo.
Anche sulla figura di Gesù, ci sono indubbiamente visioni diverse tra i «post-teisti», ma tutti sono comunque intenzionati a rimanere discepoli del vangelo: gli autori che ho preso in considerazione, a cui aggiungerei per esempio Annamaria Corallo, non negano affatto la sua divinità, ma certo rileggono il principio dell’incarnazione al di là del mito, per cui, a loro avviso, Cristo non è il Figlio del Dio teista che, ad un certo punto della storia, sarebbe disceso tra gli umani per salvarli col sacrificio della croce, bensì quella «pura trasparenza di Dio» che ogni essere umano è in potenza.
Gesù è considerato divino – e non affatto semplice profeta – nel senso però di esemplare e completa realizzazione di quell’unitas spiritus che non è un evento avvenuto in un solo punto nella storia, ma piuttosto una chiamata universale per ogni essere umano.
Mi sembra che le critiche di Vannini si fondino soprattutto su di una preoccupazione, quella relativa alla scomparsa della religione: a suo vedere, una teologia come quella «post-teista» condurrebbe alla fine della religione, indispensabile fondamento del senso etico.
Qui siamo di fronte a due letture diverse della realtà: la posizione di Vannini mi sembra simile a quella di molti nella Chiesa che, per salvare il salvabile, ritengono sia meglio, per esempio, non diffondere conoscenze bibliche o storiche, o non portare all’attenzione riflessioni, che potrebbero scandalizzare i fedeli. Ma le chiese, intanto, si svuotano e i presunti «semplici» da non scandalizzare ormai stanno scomparendo, e non certo per colpa dei pochi «post-teisti».
Una risposta al cristianesimo tradizionale
Soprattutto i giovani, quelli per esempio con cui ogni giorno ho a che fare in quanto insegnante di religione, sono sempre meno disposti ad avvicinarsi a una religione che, se potrebbe attirarli dal punto di vista dei valori e della condivisione comunitaria che promette, li allontana quando chiede loro di accettare un pacchetto di credenze per loro unbelievable.
Il «post-teismo» – come dicevo – nasce proprio in reazione all’estenuarsi del cristianesimo tradizionale, che in occidente va inesorabilmente perdendo terreno da decenni, e denuncia il ritardo delle Chiese nell’indagare i motivi profondi del fenomeno e nel prenderne atto seriamente.
D’altra parte, ciascuna e ciascuno delle teologhe e dei teologi «post-teisti» è impegnata/o a livello pastorale nella ricerca di nuove forme religiose, nella convinzione appunto che culto, comunità, preghiera, rapporto con il divino siano assolutamente essenziali per l’umanità: è chiaro che la preghiera è concepita soprattutto come silenzio attento e meditazione, piuttosto che come richiesta e dialogo; il culto vuol incentrarsi sulla lode al Mistero senza nome – non dimentichiamo che Dio è termine simbolico, non nome proprio come di fatto è divenuto – e sulla connessione con tutte le creature, eliminando ogni parola o simbolo che rimandi al Dio teista, quello che giudica e che interviene. Ciascuno di loro si sforza di promuovere, infine, forme di celebrazione, studio e preghiera individuali e comunitarie che utilizzino un linguaggio comprensibile, inclusivo, non dogmatico.
Indubbiamente, le comunità immaginate – alcune già in essere, seppure agli albori – dai «post-teisti» assomigliano poco alle parrocchie e più a centri di ricerca spirituale; sono assai meno identitarie delle Chiese tradizionali, in nome di una spiritualità non confessionale ma plurale, compatibile con diversi modi di dire Dio e di praticare la preghiera. Sono pensate per accogliere anche persone che, secondo la tradizionale divisione in credenti e non credenti, si troverebbero su fronti opposti: di fronte a un Dio/Divinitas, di cui niente si può sapere e dire, se non che è spirito e relazione, e che informa di sé ogni essere; e di fronte a un Gesù modello di realizzazione piena della scintilla divina che siamo. Così, sono molto più numerosi coloro che si sentono interpellati.
Un Dio così concepito demolisce, è vero, l’identità forte del credente e della comunità religiosa – origine, diciamoci la verità, anche di tanta violenza nella storia – ma anche quella del suo «nemico» ateo, favorendo l’incontro sulla soglia del mistero, laddove è possibile scoprirsi tutti, in certo modo, agnostici: la linea distintiva, a questo punto, non sarebbe più tracciata infatti dal credere/o non credere quella o quell’altra cosa, ma dalla decisione di dare spazio e affidarsi o meno a quel Mistero.
È davvero possibile immaginare comunità formate da «agnostici innamorati» (secondo la bella espressione di Santiago Villamayor, «post-teista» spagnolo), portatori di luce e araldi di speranza perché disposti a dar fiducia al Mistero come «bontà creatrice» e a confessare – nel senso pregnante del termine – che, «malgrado tutti i mali, tutto è o può essere buono, e che l’Essere è tenerezza e cura» (José Arregi)? Portatori di luce e araldi di speranza perché impegnati ad alimentare in sé il Bene, che costituisce la rete nella quale siamo tutti interconnessi e, con ciò, l’amore agapico verso ogni essere umano per quanto misero, emarginato, impoverito egli sia, quell’amore di cui Gesù il nazareno è stato a suo tempo maestro?
I «post-teisti» scommettono di sì, e sarebbe bello che questo fosse, in un futuro non lontano, uno dei cristianesimi possibili.






L’argomento è attualissimo e ben trattato, purtroppo sembra non compreso da buona parte del laicato cristiano, tanto che si rifugia ancora nelle prospettive superate del teismo. Bisogna comunque intendere bene la questione posta oggi: una cosa è la ricerca umana di Dio e altra la rivelazione che Dio fa di se stesso, venendo incontro alla domanda religiosa. Temo che l’abbandonare tout-court i dati rivelati, solo perché oggi l’umanità cerca altrove, sia rischioso e fuorviante per la prospettiva cristiana: l’evento Cristo resta centrale e determinante per la comprensione di tutto il resto. Certamente bisogna mettere continuamente e sempre nuovamente in relazione l’Evento con la contemporaneità.
Credo che stia qui la novità della proposta post-teista (ma non solo). La distinzione che Lei fa tra “la ricerca umana di Dio” e “la rivelazione che Dio fa di se stesso” è ERRONEA. Per due motivi: 1) Non si dà ricerca umana al di fuori della rivelazione di Dio. Noi cerchiamo Dio perché Dio continuamente ci cerca. Tale ricerca di Dio (gen. soggettivo) è “già” rivelazione di Dio. Dio rivela se stesso nell’umano cercare di Lui. 2) La distinzione può valere solo nel senso di distinzione tra momento “cognitivo” e “meta-cognitivo”. Il primo momento è a-tematico (cf. Rahner); il secondo è “tematico”, cioè compreso con categorie, riti, e simboli. La rivelazione di Dio (gen. soggettivo) non è una cosa e l’esperienza che ne facciamo un’altra. L’esperienza umana è per se stessa “RIVELATIVA” della Realtà. Ho l’impressione che la Sua risposta risente di una dicotomia dualizzante (grazia e natura, Dio e mondo, rivelazione di Dio e ricerca umana) che l’attuale dibattito su spiritualità e cristianesimo sta criticando. Cosa si intende con “tutto il resto” ? Non c’è l’evento di Cristo da una parte (che abbiamo compreso) e poi tutto il resto, con la contemporaneità dall’altra parte. Questa dicotomia dualizzante lede il principio della incarnazione. L’evento di Cristo è imbevuto di contemporaneità. Ciò che è corretto dire è che l’evento cristo è SIN-fonico, tiene insieme lontani e vicini, dentro e fuori, sopra e sotto. Credenti e non credenti. Non si tratta di “abbandonare” i dati rivelati, ma di sapere come leggerli, con quale criterio leggerli. Per un credente in Cristo – di questo ne sono convintissimo – non c’è un altrove mai estraneo dal cuore della fede. L’a-teo e il maledetto è – secondo il linguaggio paolino – Dio tout-court. Nihil alienum in Deo.
E delle proposizioni del Credo cosa ne facciamo?
Sono davvero molto grata a tutte e tutti coloro che hanno commentato il mio articolo, che aveva l’intento di precisare alcune linee del post/transteismo in relazione a quanto affermava Marco Vannini nell’intervista comparsa su queste pagine. La ricerca teologica così denominata è ancora molto giovane e non sono certo in grado di sapere dove porterà né se lascerà frutti duraturi. So che, per quanto mi riguarda, quel che mi ha avvicinato ad essa è il tentativo che vi ho scorto di prendere sul serio e incarnare nell’oggi la lettura mistica del cristianesimo, perché sono convinta che avesse ragione Raimon Panikkar quando affermava che il cristianesimo del XXI secolo avrebbe dovuto essere mistico, o sarebbe stato destinato a perire.
Padre Paolo Gamberini, poi, sta dimostrando – come anche nel suo lucido intervento qui – che il cosiddetto (le etichette poi lasciano il tempo che trovano) posteismo è “solo” un tentativo di rimettere al centro la sconvolgente, ma bellissima, logica del cristianesimo che, come appunto Gamberini nota, è fondamentalmente disattesa nella liturgia, nella predicazione, nella catechesi.
Sento poi un’urgenza, forse per il mestiere che faccio, che mi inquieta – e questa sensibilità la ritrovo nei cosiddetti posteisti: mi sgomenta profondamente la fuga in massa dei giovani e di tante persone che si fanno domande e cercano una vita spirituale autentica, dal cristianesimo, di cui sperimento invece la potenza spirituale. Come dicevo, non sono in grado di dire se la via posteista sia quella giusta (di certo non è l’unica), ma vi trovo un fermento in questo senso molto interessante.
Che io sappia è stato Rahner non Panikkar:
https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/il-mistico-un-camminatore-che-parla-la-lingua-degli-angeli
Panikkar ha sempre rivendicato questa espressione, sottolineando di averla pronunciata in un convegno a cui interveniva anche Rahner, che in seguito l’ha fatta sua. Tuttavia non credo sia determinante stabilire la primazia: è importante sapere che entrambi i filosofi erano di questo parere.
ringrazio Beatrice per il suo contributo e tutti coloro che hanno voluto interagire. C’è una novità nel post-teismo che è antica ma non ancora assimilata pienamente e adeguatamente dal dogma cattolico. Questa “novità” la indico con le parole di Massimo il Confessore (VII secolo): “Poiché il Logos di Dio (che è Dio) vuole sempre e in ogni cosa compiere il mistero della Sua incarnazione” (Ambigua 7.22). Prendere alla lettera quanto qui è detto, significa versare vino nuovo nel banchetto delle nostre liturgie e spiritualità. Divenire “ciascuno” (nostro battesimo) quel Cristo che Gesù è divenuto (risurrezione). Questa è la LOGICA del cristianesimo. Divinizzazione di tutta la realtà. Sì, niente di nuovo come Fabio Cittadini ha detto. Ma prova a dire nell’assemblea liturgica che anche tu, e tutto il creato con te, è “consustanziale al Padre” come Gesù. Ti accorgerai che quella “novità” è ancora troppo scandalosa. Mi limito qui. È inebriante quanto Beatrice scrive. Aiutiamoci a vicenda nel far emergere la bellezza del cristianesimo.
Ricordiamoci che il Vangelo è stato annunciato partendo dagli ultimi, poveri pescatori galileani. Io non ho capito granché di quello che è scritto in questo articolo, mentre invece trovo il Vangelo chiarissimo. Per favore, almeno a noi che siamo poco dotti lasciatecelo, il teismo!
Caro Fabio mi consenta di risponderle con il massimo rispetto. Non la conosco, ma lei non un incolto galileo di duemila anni fa. È un uomo di oggi che sa leggere e scrivere e usare internet. Anche io sono una donna di oggi, poco preparata per affrontare argomenti teologici e caratterialmente avvesa alle dispute teoriche. Come la capisco! Però pur nella mia limitata cultura non mi è proprio più possibile credere a un dio onnipotente lassù nei cieli. E volendo continuare a seguire Gesù, la sua proposta enunciata nelle beatitudini, ho trovato nel cammino tranteista una possibilità di fede che non debba chiudere in un cassetto la scienza che, poco e male, cmq conosco e riconosco come vera. Perdere un padre onnipotente è dura, per tutti, ma per una fede adulta, anche se ‘semplice’ come la mia, è stata una grazia.
Comunque non è che il misticismo sia più moderno. Facciamo che qua è presentato in modo piuttosto vago, quindi non richiede nessuna particolare spiegazione se non una generica “speranza”. Il misticismo vero brucia e rappresenta una strada tutt’altro che semplice.
Il vangelo ahimè non è sempre chiaro come sembra per il semplice fatto che spesso non conosciamo il contesto sociale in cui è stato scritto e ci sfuggono dettagli che a volte fanno la differenza.
Serve una buona cultura per capire il Vangelo. Un esempio? Nel Vangelo di Marco al capitolo 13 ritenuto difficile e complesso, lo stesso evangelista avverte il lettore – cioè l’incaricato di leggere e interpretare questo suo brano, questo suo documento – “che il lettore capisca bene” (v. 14).
Capiamo innanzi tutto che esisteva un lettore che interpretava i brani per tutti (quindi la lettura del Vangelo era guidata) e poi che per gli stessi evangelisti alcuni brani erano oggettivamente difficili già allora.
I problemi che vedo nel post-teismo sono due fondamentalmente.
In primo luogo ci leggo un certo razionalismo, una volontà di farsi guidare dalla ragione nel definire l’articolazione dei rapporti fra la divinità, il mondo e l’uomo mentre io seguo Panikkar che diceva che la ragione può avere una funzione regolativa, può avere potere di veto ma non può avere funzione costitutiva della conoscenza e tanto meno della fede.
Il secondo problema che mi pare di rilevare è quello che viene espresso nella quarta pagina dello scritto della Iacopini e cioè quello del superamento del cristianesimo identitario. Certamente si tratta per certi versi di un’operazione sacrosanta ma che non deve rischiare di cancellare l’identità delle varie vie religiose in nome di un approccio universalistico al divino.
Se è vero questo mio timore, il post-teismo rischierebbe di inquadrarsi perfettamente in una visione illuministica che tende a relativizzare le culture in nome di una unica via di verità universale fondata sulla ragione.
Certo immagino che gli apporti delle varie culture religiose vengano utilizzati e presi in considerazione nelle comunità posteistiche che si immaginano ma mi pare che si tenda a togliere loro valore di verità.
Sempre seguendo Panikkar, la chiave invece, a mio avviso, non sta nell’eliminazione del valore di verità delle culture e delle religioni ma nel dialogo fra le culture e le religioni le quali non portano in sé stesse ciascuna un pezzo della verità ma ciascuna la verità intera – perché il pluralismo non è relativismo – fatta salva la necessità di una continua purificazione delle religioni dall’interno, che però va operata non tanto sul piano teorico, dottrinale o morale quanto a partire dal piano esperienziale.
Dunque mi ritrovo nell’esigenza che muove i post-teisti ma non mi ritrovo pienamente nelle piste che seguono.
Ritengo che sia comunque importante il loro contributo a stimolare la ricerca di una trasformazione necessaria dell’esperienza religiosa: per quanto riguarda il cristianesimo, in particolare, Panikkar parlava della necessità di passare dalla cristianità e dal cristianesimo alla cristianía cioè alla centralità della dimensione mistica e nonviolenta senza che questo significhi una eliminazione delle dimensioni politica e dottrinale che sono state caratteristiche della cristianità e del cristianesimo.
In questa direzione vorrei lavorare insieme ai post-teisti.
Elena Bertoli
Premetto che chi scrive non ha competenze teologiche, ma se l’articolo è stato pubblicato qui, suppongo sia legittimo anche per i non addetti ai lavori commentare liberamente. Il mio punto di lettura è da un piccolo paese dell’Africa occidentale dove vivo. Per questo, l’impressione che mi danno questo e altri articoli pubblicati su questo tema è prima di tutto di forte provincialismo.
Il tramonto della pratica religiosa di massa, che è chiaramente all’origine di queste idee, è un fenomeno che accade in una piccola parte del mondo, anzi, che riguarda una componente in declino di una piccola parte del mondo. Mi domando se le persone che formulano queste riflessioni non solo abbiano vissuto realtà diverse da quelle del mondo economicamente sviluppato, ma anche semplicemente osservato i passeggeri della metropolitana di una grande città, che sono in grande maggioranza stranieri, tutti quanti – compresi gli italiani – immersi attraverso la loro appendice tecnologica in un mondo di credenze assai varie, più o meno forti, ma largamente “premoderne” o “prescientifiche”: le credenze di religioni meno preoccupate, le credenze di adoratori di feticci contemporanei a volte assai bizzarri, le credenze di ideologie politiche pericolose.
E’ anche intrigante osservare che oramai da molti anni il pensiero economico cerca di distaccarsi dai vecchi paradigmi del comportamento razionale dell’attore economico (senza che finora se ne siamo tratte le opportune conclusioni nella prassi di governo dell’economia, per ovvi motivi), che da parecchi anni ci sia chi cerca di porre dei distinguo tra scienza empirica e scenari sostenuti da modelli matematici ma essenzialmente speculativi, perché impossibili da sperimentare (mi pare che anche in uno degli articoli apparsi in queste settimane si parlasse di “multiversi”), e invece questi teologi sembrano rincorrere i fantasmi di un positivismo che è rimasto egemone solo nel senso comune di una parte della società “occidentale”. Dall’estremo dell’antimodernismo di Pio X alla sottomissione al senso comune laico dominante (sempre e solo nell’“occidente”): davvero strano e rivelatore.
Se i ragazzi italiani delle “classi di religione” considerano le credenze legate alla trascendenza come in-credibili, non è perché tutti loro oggi agiscano secondo una razionalità rispetto allo scopo, ma perché vivono in una società in cui la maggioranza, per la maggior parte del tempo, è isolata e protetta (e tutti sappiamo molto bene non-vedere e non-ricordare) dalla consuetudine con la morte, dalla penuria di cibo e mancanza di beni essenziali, dalla paura per la propria incolumità fisica, da lacci e tradizioni che vincolano gli individui a ruoli prestabiliti. Non sentono il bisogno di Dio. Ma idolatrano allegramente altri dei. Non vedo davvero come la risposta possa essere di rincorrerli con la prospettiva di una mistica post-teista per loro comunque indistinguibile dalla trascendenza in-credibile – tranne che per una piccola minoranza. Ma se il futuro della Chiesa è minoranza, e non ci vedo nulla di male in questo, preferisco affrontarlo con gli strumenti contenuti nel Vangelo per raggiungere gli ultimi e i piccoli (come mi suona superba la parola “semplici” usata nell’articolo!) con messaggi forti (e dualisti…), senza i quali non so veramente di quale fede si possa parlare.
Che tristezza……
Ben vengano, dentro e fuori la Chiesa cattolica, i tentativi di pensare Dio diversamente e ben vengano le occasioni per discuterne da punti di vista diversi, in modo argomentato, libero e reciprocamente rispettoso, nella speranza di non dover temere scomuniche o censure da parte di qualcuno. Personalmente, nelle diverse declinazioni del post-teismo trovo la “pars destruens” (che proviene, peraltro, dalla critica della religione degli ultimi secoli) più convincente della “pars construens” (che mi pare si possa avvicinare a una sorta di interpretazione cristiana del pan-en-teismo). Nei tentativi di pensare Dio diversamente, in questo cambiamento d’epoca, la teologia cattolica (nella quale sono stato formato) dovrebbe a mio avviso esplorare maggiormente le possibilità di un cristianesimo “non-teistico” (cui anche l’articolo accenna di passaggio) e radicalmente ecumenico, capace di confrontarsi in modo serio e coraggioso con i problemi odierni. Per fare questo, una delle piste che mi paiono più promettenti – in particolare in questo tempo di violenze genocide e di guerre volute da un capitalismo senza più scrupoli (perché senza più vincoli) – è quella di confrontarsi con il pensiero e la pratica di Aldo Capitini, profeta nonviolento di una religione aperta che lo condusse a opporsi al fascismo del suo tempo e alla Chiesa cattolica “preconciliare”, dopo che i vertici di questa, con il Concordato del 1929, avevano contribuito a legittimare il fascismo e di fatto le sue pratiche anti-cristiane (su Capitini si vedano in rete il sito della Fondazione a lui dedicata, su Radio Radicale la registrazione del Convegno del 2019, su YouTube le 5 conferenze del 2018-2019 alla Scuola Normale di Pisa). L’opera di Capitini, nella sua radicalità religiosa, etica e filosofica, è suscettibile a mio avviso di molteplici e feconde riletture da parte di una teologia cattolica “postconciliare” che, in modo attivamente nonviolento, voglia contribuire a orientare il nostro cammino – come singoli e come Chiesa – verso la speranza utopica di una realtà liberata dal male, dalla violenza e dalla morte.
Nel mio piccolo, avevo realizzato un video dal titolo “IL POST TEISMO SPIEGATO FACILE” e lo si può trovare questo indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=gB5QR3beB-o
Non ha nessuna pretesa rispetto allo splendido articolo qui pubblicato, ma se può essere utile…
don Stefano Buttinoni
Canale YouTube @DinDonCafe
“Uno dei cristianesimi possibili”.
Però almeno, ci sia coerenza. Non ci si appelli Cattolici! Se non si condivide, e non solo superficialmente, la dottrina cattolica, come ci si può definire cattolici? Si abbia coerenza, e si la Chiesa in cui, come sacerdoti (e.g.) Gamberini o come insegnanti (e.g. l’autrice) hanno chiari incarichi di responsabilità, e quindi di influenza sulle coscienze.
Non si è d’accordo con la dottrina cattolica? Bene, costruite pure un “cristianesimo possibile”, ma senza approfittare delle strutture della Chiesa Cattolica!
È pura incoerenza. Spiace dirlo, ma temo sia così.
Forse senza distinguere tra accordo e non accordo basterebbe separare quella che è la speculazione teologica pura da quello che è già sedimentato dal magistero. Esattamente come avviene in campo scientifico tra l’altro, dove si distingue tra fisica teorica e fisica già passata al vaglio della verifica sperimentale.
Purtroppo questa è una pagina per specialisti che discutono tra loro e non sembrano particolarmente interessati al lettore comune, non sempre in grado di seguire e di inquadrare tutti questi articoli nel loro contesto.
Sinceramente non credo che nemmeno nella discussione scientifica teologica, volendo mantenere incarichi nella Chiesa Cattolica, si possa arrivare a una tale negazione della Dottrina. Dovrebbe essere una questione di deontologia professionale: non sono d’accordo o non credo nella dottrina della Chiesa (non nei teologumeni, ma nelle fondamenta dogmatiche essenziali!), allora non sono nella Chiesa.
Ma forse questa è superata logica aristotelica, in cui se A è diverso da B non può B essere uguale ad A…
Più che altro mi sembra basata su una scelta puramente arbitraria di pezzi del cristianesimo. Non è nemmeno particolarmente nuova, tra mistica, religiosità apofatica, teologia della morte di Dio anni ’60. (anzi quella era ancora più radicale, perchè presupponeva il passaggio da una notte oscura della fede.)
Francamente queste diciture “teismo/post-teismo/trans-teismo”, da specializzato in teologia e da docente quale sono, mi mettono a disagio. Sono etichette dietro le quali si nasconde il tentativo di superare l’onto-teologia, cosa che hanno cercato di fare anche i grandi teologi del Novecento. Basti pensare, per citare qualcuno, a Balthasar (https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2019/07/a-30-anni-dalla-sua-morte-ritratto-di.html). Quindi di originale, anche se non sono un teologo accademico, ci trovo solo la dicitura, sui contenuti non mi sembra di trovare nulla di nuovo. I teologi citati sembrano peraltro misconoscere il lavoro di un Coda o di un Sequeri che sono tutto tranne che teisti. Mi sia consentito far presente che un mio lavoro di alcuni anni fa va nella direzione del cosiddetto post-teismo (cfr. https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2021/07/teologia-del-gioco.html).
E’ evidente che oggi un pensiero forte non ha futuro. Un Dio completamente definito è improponibile perchè troppe cose non tornano. Il male esistente, i bambini che soffrono, i campi di concentramento fanno domandare: Dio dove sei? Perché non fai nulla? Che Padre lascerebbe morire di fame i suoi figli? E’ evidente che se vogliamo salvare Dio, per dirla come Etty Illesum, dobbiamo pensare diversamente. Dio non è come lo vorremmo e Dio non è pensabile completamente. Non riusciamo nemmeno a mettere in pratica il Vangelo figuriamoci capire quello che non siamo in grado di contenere. Ma nonostante questo Dio non ci ha abbandonato all’ignoranza. Sì è fatto uomo per aprirci la strada. Una strada pratica di attenzione al fratello più che di studi filosofici sulla sua natura.
Giovanni nel suo Vangelo dice: Dio nessuno lo hai visto smentendo quindi che qualcuno prima lo avesse fatto (Mosè ad esempio) solo Gesù ce ne ha mostrato il volto. E’ quindi evidente che si può parlare di Dio solo partendo da Gesù. Non credo che Dio pretenda da noi che capiamo com’è. Credo che voglia semplicemente che proviamo ad essere suoi figli come Gesù ci ha insegnato.
A parte che su questo già ha detto tutto Hans Jonas, mi pare che sia il solito giochetto di volere un presunto pensiero debole, ma con soluzioni forti. (cioè perchè in un mondo metafisicamente debole dovremmo dare per certo che la risposta debba essere carità, fiducia, speranza come se queste non fossero già virtù teologali fortissime?)
Diventa fideismo puro e semplice.
Con la sua ampia cultura mi chiedo cosa perde tempo a discuterne con noi. Mi spiace annoiarla con cose dette da altri.
Quindi lei tra l’altro cosa proporrebbe?
Il ‘900 è stato un secolo teologico molto interessante, proprio perchè si è trovato in mezzo tra la modernità e l’orrore. Comunque la prima parte del suo discorso è la sintesi di un saggio molto famoso di Hans Jonas, da cui è partito proprio un filone teologico particolare, “come pensare Dio dopo Auswitz”. In sintesi: “Per Jonas, dunque, O Dio è onnipotente e assolutamente buono, ma allora non si comprende perché non abbia impedito l’Olocausto. Oppure “Dio è onnipotente e comprensibile, e allora Auschwitz è la confutazione della sua bontà”. Oppure Dio è buono e comprensibile ed allora l’Olocausto dimostra la sua mancanza di onnipotenza. In definitiva, secondo Jonas, Auschwitz avrebbe dimostrato che onnipotenza, bontà assoluta e comprensibilità non possono convivere insieme in Dio[4].”
https://www.pensierofilosofico.it/articolo/Hans-Jonas-e-lonnipotenza-di-Dio/136/
Lo riprende anche Ratzinger in uno dei suoi primi interventi da Papa emerito:
“Per l’uomo di oggi, rispetto al tempo di Lutero e alla prospettiva classica della fede cristiana, le cose si sono in un certo senso capovolte, ovvero non è più l’uomo che crede di aver bisogno della giustificazione al cospetto di Dio, bensì egli è del parere che sia Dio che debba giustificarsi a motivo di tutte le cose orrende presenti nel mondo e di fronte alla miseria dell’essere umano, tutte cose che in ultima analisi dipenderebbero da lui.”
https://www.avvenire.it/agora/pagine/facciamoci-plasmare-da-cristo-
Questo non per far sfoggio di cultura, ma solo per dire che è il motivo per cui a volte il cristianesimo (ma anche la filosofia in fondo non è da meno) può sembrare troppo serio, perchè prende radicalmente in considerazione la presenza del male nel mondo. Poi certo possiamo dire che non abbiamo altre certezze della speranza, ma la speranza è appunto una virtù teologale, stiamo vivendo un anno giubilare dedicato alla speranza..
Ma noi non dovremmo “pensare Dio” come egli si è rivelato? Non pare proprio che Gesù volesse degli “agnostici innamorati”! Certo, Dio resta incomprensibile Mistero, ma questo non significa che sia vana o contraddittoria la sua volontà di farsi conoscere a noi (come Essere uno e trino, eternamente Padre, Figlio, Spirito, creatore e giudice provvidente…)