
Sono latino-americano di adozione e con una biografia pastorale influenzata dalle teologie della liberazione, ed è certamente per questo che un amico italiano mi chiede una parola sulla Dilexit te, pensando che possa dire qualcosa di interessante su un documento che non solo continua la profezia di papa Francesco ma ne amplifica la portata, facendone il programma del pontificato di papa Leone e assolvendo definitivamente teologie e pastorali che ancora oggi sono oggetto di critiche e opposizioni da parte dei settori tradizionalisti della Chiesa.
L’egemonia del pensiero greco
Leggendo, però, provo le stesse sensazioni che, da tempo, sento davanti alla secolare abitudine di redigere documenti, esortazioni, discorsi, encicliche per descrivere ciò che è sicuro, incontestabilmente ortodosso. Il tutto soffocato da migliaia di parole che popolano e migrano in documenti ineccepibili, ma che si riducono a cimiteri poco frequentati, in cui anche la verità sembra un cadavere imbalsamato in illustri sepolcri.
Si tratta certamente della mia antica e quasi insuperabile difficoltà ad accettare l’egemonia del pensiero greco nella Chiesa, che cominciò a farsi sentire a partire dalla rivoluzione di Medellin che sottolineava l’autenticità della fede in Gesù a partire dall’ortoprassi, in alternativa al confinamento dell’identità cristiana nell’ambito dell’adesione all’ortodossia, alle definizioni concettuali della fede. Critica esistenziale e profetica dei popoli che soffrirono l’oppressione dell’etnocentrismo cattolico, ispiratore di tutte le violenze colonialiste perpetrate, in nome dell’universalità, a partire dal 1492.
Inoltre, deve avermi disturbato la coincidenza di due eventi incontestabilmente contraddittori: l’esortazione apostolica Dilexit te pubblicata il 4 ottobre e la messa tridentina celebrata nella basilica di San Pietro il 25 dello stesso mese dal card. Burke. La liturgia cattolica si regge sul principio che Prospero di Aquitania, discepolo di Agostino, coniò nel V secolo: “lex orandi lex credendi”, “come si celebra, così si crede”.
Se lo stile della preghiera della Chiesa rivela senza incertezze ciò in cui crediamo, la concomitanza dei due eventi mostra che siamo evidentemente alla presenza di un cortocircuito tra ortodossie antitetiche.
Così si rafforza in me la nostalgia – che non è emotiva ma teologica e pastorale – della folle e indisciplinata inquietudine di discepoli e discepole chiamati a fare la verità di Gesù. Quell’inquietudine indimenticabile di papa Francesco.
Ritrovare le radici ebraiche
È forse giunto il tempo in cui dovremmo relativizzare la guida del pensiero greco, da sempre egemonico nella Chiesa cattolica e ritrovare le radici ebraiche della nostra fede.
L’incontro con la filosofia greca è eredità che la traduzione dei LXX (dal III al I secolo) lascia alla Chiesa, fin dalla composizione dei vangeli, quando questi traducono emet con alétheia: verità.
Ricordiamo come, recentemente, Benedetto XVI ha definito la filosofia greca e la metafisica come essenziali e insostituibili per la comprensione di Dio e della realtà: senza la cifra dell’essere, non sarebbe possibile fare teologia; senza metafisica, perderemmo il linguaggio proprio per parlare di Dio e perderemmo la possibilità del dialogo tra fede e ragione.
I tentativi moderni di de-ellenizzare e indigenizzare il cristianesimo porterebbero alla frammentazione soggettivista della fede, alla frattura insanabile tra ragione e realtà e alla rinuncia di universalizzare la fede cristiana rendendola accessibile a ogni popolo e cultura.
Si rimane perplessi davanti alla lettura di Ratzinger, perché pare difendere l’idea che la razionalità sia monopolio della grecità, quando esistono altre forme di razionalità: l’ebraica, la cinese, l’islamica, razionalità africane e indigene ecc.
Pare, inoltre, non considerare, con la dovuta attenzione, la violenza colonialista che per secoli ha caratterizzato l’Occidente cristiano. Eurocentrismi che esportavano, senza soluzione di continuità, la guerra, la croce, l’impero e l’ideologia dominante. Un’Europa cristiana che conquista, massacra e schiavizza popoli e cancella culture.
La “verità” dei greci e la “verità” degli ebrei
È innegabile la duplice identità culturale del cristianesimo che, nato nel mondo semitico, nella cultura ebraica, si diffonde nel mondo mediterraneo, tessendo un connubio indissolubile con la filosofia greca. Due civilizzazioni, l’indoeuropea e la semita, così radicalmente diverse e alternative in teologia e antropologia, che invece riescono a convivere nella Chiesa cattolica.
Del resto, questo processo di ellenizzazione aveva coinvolto anche le comunità ebraiche e veniva a concretizzarsi nella traduzione dei LXX.
Nella storia dell’Europa e delle Chiese, è innegabile l’egemonia culturale greca, ma il prezzo pagato è consistito nella rimozione dell’eredità del pensiero semitico, rinnegandolo anche con la disumanità monoteista dell’antisemitismo, l’odio per i deicidi, la persecuzione, i pogrom, la shoah.
Due parole mi sembrano esemplari per descrivere la coesistenza e le tensioni delle due civilizzazioni mediterranee: אֶ מֶ ת (emet) e ἀλήθεια (alétheia), cioè la verità. Ma che cos’è la verità per i greci? E che cos’è la verità per i giudei?
Ovviamente due concetti diversi e possibilmente alternativi.
Per i greci la verità è sottoposta al processo del vedere, al cercare di capire, investigare e descrivere la realtà: è comprendere, conoscere, svelare, rivelare.
Per gli ebrei la verità si fa, perché l’essere umano fa la verità. La verità, anche per Gesù di Nazareth, è un fare, è ortoprassi che non è solamente alternativa all’ortodossia, ma contesta radicalmente il legalismo farisaico e l’establishment dogmatico del Tempio. Verità che, per l’ebreo, non è assolutamente una questione gnoseologica ma una questione etica e politica.
Nei Vangeli, nonostante il greco della koinè, alétheia conserva le sue caratteristiche semitiche, perché Gesù identifica sé stesso come «il cammino, la verità, la vita» (Gv 14,6).
La sua concreta corporeità, il suo Regno di fraternità e di giustizia sono il fare che non lascia spazio alcuno alle elucubrazioni metafisiche intorno a verità filosofiche o teologiche. Per questo, mi è sempre parsa inutile la riduzione aristotelico-scolastica della verità all’“adaequatio rei et intellectus”, “adeguamento dell’intelletto alla cosa”.
Cos’è la verità?
«Cos’è la verità?» (Gv 18,38) chiede a Gesù Pilato, figlio di una cultura che, fin dall’VIII secolo, si riconfigura a partire da una profonda influenza del pensiero greco.
Non capisce cosa intende dire Gesù, «inviato per essere testimone della verità», perché, da autentico romano, conosce l’esistenza di diverse filosofie che divergono sul senso della verità e, da funzionario dell’impero, accetta tranquillamente la coesistenza di molteplici verità pratiche e culturali, soprattutto se queste non minacciano la stabilità e la prosperità dell’Impero.
Gesù offre ai discepoli l’emet come il fare la verità insieme a lui, imitando il suo pensiero, la sua parola, il suo stile, nel cammino della rivelazione del Regno presente nella storia, in alleanza con i poveri e i piccoli, denuncia profetica dei nemici della vita, cammino della Croce e della Gloria.
È necessario accettare di vivere la tensione tra ellenismo e giudaismo, tra metafisica greca e Vangelo, che pare essere costitutiva della Chiesa, ponendo quotidianamente l’accento sulla prassi di Gesù di Nazareth, sulla presenza della sua persona, sul suo fare la verità: verità che ci fa liberi, anche nell’ambito religioso che è potenzialmente il più pericoloso in termini di alienazione e di perdita della libertà.
Emet, che non può assolutamente essere manipolata e ridotta a soggettivismi arbitrari e frammentari, perché chiara in questo fare la verità è l’egemonia della misericordia, del Regno e della sua Giustizia. Fare la verità, che necessariamente passa per la Croce, esito riservato ai profeti, agli amici dei poveri e ai difensori della vita, fedeltà messianica che, nella sconfitta, continua a scandalizzare i signori del mondo. La Croce, definitiva vittoria politica e cosmica di Gesù e dei poveri.






Purtroppo non si comprende che, come diceva papa Francesco, la realtà è superiore alle idee.
Con le idee esposte nell’articolo la Chiesa cattolica è diventata minoritaria in Brasile.
Altro che greci, ebrei e messe tridentine.
Se la pianta si riconosce dai frutti ….
È diventata minoritaria perché i pentecostali sono stati bravi a sfruttare le debolezze intrinseche della Chiesa Cattolica.
È diventata minoritaria perché i pentecostali vanno dicendo in giro, e forse non hanno torto, che i cattolici non sono più una religione ma sono diventati un partito politico.
I pentecostali sono ancora più con le mani in pasta dei cattolici nella faccende politiche.
Riescono a vincere perché sono l’opposto del cattolicesimo:
– mentre la CC è gerarchica e piramidale, loro insistono sull’autonomia della Chiesa locale e sono organizzati più come network;
– loro insistono sulla partecipazione di tutti i credenti alla vita della Chiesa e alla necessità di ‘rinascere nello Spirito’; noi no;
– molte di loro ordinano donne come pastori o comunque le donne hanno ruoli di qualche tipo o possono profetizzare;
– tendono a chiedere un alto livello di partecipazione.
Per molti volti sono la realizzazione concreta della Chiesa come la volevano molti progressisti…
Però sono più conservatori, almeno in economia (ma in generale in politica) dei cattolici. Un po’ come successo ai movimenti postconciliari rispetto ai più austeri gesuiti (o all’Azione Cattolica.)
Come il PD e i grillini, un partito organizzato non è necessariamente meno progressista di uno totalmente liquido.
Ogni religione ha le sue presunte “verità” a cui i rispettivi fedeli sono tenuti a credere senza discutere, senza nemmeno sognarsi di ragionare con la propria testa ed eventualmente rifiutare ciò che non ritengono giusto. E ovviamente molte di queste presunte “verità” sono in netto contrasto tra loro: per esempio i cristiani credono che il loro Gesù sia figlio del loro dio, per gli ebrei e i musulmani, invece, è solo un uomo (posizione certamente più ragionevole). Le rispettive religioni insegnano così e i fedeli si adeguano senza discutere. Sono “verità di fede”. Quindi qual è la verità? Chiederlo a un credente di qualsiasi religione non sembra, evidentemente, la soluzione giusta. La verità è, e deve essere, qualcosa di oggettivo e indiscutibile, storicamente e scientificamente dimostrata e dimostrabile. Senza basi storiche e scientifiche solide e certe per me non esiste verità. E le “verità” delle varie religioni, compresa l’esistenza dei loro personaggi, per me non sono altro che favole.
A leggere le ultime farneticazioni della chiesa come ” camminare insieme alle altre religioni verso la verità di Dio che oggi non conosce nessuno oppure bisogna raggiungere il convivere in pace tra gli uomini e bisogna arrivarci in qualsiasi modo alcuni tramite Dio che diventa un mezzo per questo scopo……e poi degradare la Madonna a semplice cooperatrice….e altro ancora……..E ci preoccupiamo dei tradizionalisti degli elleni dei semiti e altro ancora? Ci vuole del coraggio , lo stesso coraggio a nominare una teologia della liberazione che ha drogato la nostra chiesa. La massoneria non prevarrà mai.
Dai frutti riconoscerete l’albero. Verità alla maniera ebraica o greca? E’ giustissimo recuperare il fondamento ebraico del cristianesimo a livello storico e di interpretazione dei testi.
Non pensiamo però che ciò ci metta al riparo dalle derive ideologiche.
Lo Spirito Santo ci guida a vivere pienamente un messaggio che è nato radicato in un tempo ed in una cultura ma anche li trascende. Il pensiero dell’ebraismo ebraico contemporaneo è molto ebraico e affatto greco, molto coerente in se stesso, ma con accenti problematici per chi lo vede dall’esterno. Anche certi estremismi della politica israeliana contemporanea sono frutto di un pensiero molto ebraico “ortoprassi del fare ciò che è la tua l’incontestabile verità”, nella sua versione peggiore.
Ce n’è invece una buona e sana a cui bisogna ambire, l’ebraismo intelligente del buon ebreo. Il pensiero greco non è sinonimo di male, come quello ebraico non è sinonimo di purezza e di bene solo perchè biblico e “rivelato”. Bisogna recuperare la radice ebraica autentica per comprendere il significato storico. Il significato definitivo però può darsi solo attraverso una lettura anche spirituale e teologica, oltrechè storica. Anche i “semi del Verbo” sparsi in abbondanza nella saggezza filosofica greca possono essere un arricchimento.
Però l’ articolo non parla di “cosa è la verità secondo gli ebrei e cosa lo è per i greci”, dice semplicemente che il termine emet con il suo significato diverso e traslitterato in greco con aletheia ha il senso della verità che si compie, verità che è Cristo stesso. Il contesto è il vangelo non israele oggi o l’ occidente oggi, non sta dicendo , banalizzando, che ebreo è bello e invece greco è male. Mi pare di aver compreso che la volontà dell’ autore sia quello di riportare a una lettura contestuale del Vangelo in quello che era appunto il luogo e il periodo storico in cui era proclamato, tutto qua, cosa che per altro mi sembra già ampiamente auspicata nell’ esegesi biblica.
È un articolo sulla de-ellenizzazione, e infatti cita il discorso di Ratisbona.
Io non esagererei nei giudizi. Ho l’impressione che inizieremo a capire questo Papa al termine del giubileo. Dire che “Dilexi te” sia (cito) “un documento che non solo continua la profezia di papa Francesco ma ne amplifica la portata, facendone il programma del pontificato di papa Leone” mi sembra prematuro e per certi versi esagerato. Chi si ricorda il primo documento di Francesco? Tutti dicono: “Evangelii gaudium”. Errato! Il primo documento è stato “Lumen fidei” scritto da Papa Benedetto e pubblicata da Papa Francesco. Cosa ne è/è stato di quel primo atto magisteriale di Francesco? Ai posteri l’ardua sentenza! Ma cautela e moderazione nei giudizi. Anche perché mentre questo Papa (Leone) riceveva le équipes sinodali in San Pietro, con il benestare dello stesso Prevost, qualcuno (cardinal Burke) celebrava la Messa secondo il vetus ordo. Cautela nei giudizi e attendiamo di capire le prossime mosse!
Secondo me Lumen fidei era un documento quasi integralmente ratzingeriano mentre qua le aggiunte di Leone sono più corpose. Tutto l’excursus storico sulla povertà nella Chiesa, dai padri in poi è suo, se non altro perchè viene da un ordine (quello agostiniano) che ha segnato profondamente una stagione ecclesiale (quella medioevale sulle dispute della povertà.)
Caso mai è un po’ limitante parlare di povertà in termini di profezia Bergogliana, quando lo stesso Bergoglio ha assunto il nome di Francesco rifacendosi proprio alla stessa tradizione che lo ha preceduto. (Detto terra terra è venuto prima Francesco o Bergoglio?)
Speriamo che si torni alla vera dottrina…il tuo discorso mi fa sperare. Primo passo da fare mandare a casa un certo Fernandez
Il non riconoscere il lato ebreo che è molto concreto rispetto alla parte greca molto più teorica e raffinata ma allo stesso tempo meno vitale è dovuta a mio parere all’essenza di una diffusa competenza biblistica. Chi non sa come ragionava un ebreo antico non può capire davvero la Bibbia. Infatti i biglietti in gamba ricostruiscono l’ambito culturale in cui un certo episodio biblico si è svolto. Serve una maggior formazione biblica per tutti.
Immagino che al posto di “essenza” dovrebbe esserci “assenza” e al posto di “biglietti in gamba” dovrebbe esserci “biblisti in gamba”… 😉
Si… Non ci vedo più bene senza occhiali … Penso di scrivere una cosa e ne viene fuori un’altra.