
Il patriarca latino di Gerusalemme, Pizzaballa e Teofilo III, patriarca greco-ortodosso (foto Reuters)
Le notizie dal Medio Oriente si accavallano, drammatiche oggi e probabilmente presagiscono un futuro ancora più grave. I media israeliani riferiscono di discussioni al riguardo di annessioni di parti della Cisgiordania e di Gaza. Intanto l’occupazione di Gaza City lascia tutti con il fiato sospeso per ciò che potrà comportare: lì vivono un milione di persone, invitate a sfollare. Tutto questo rende difficile tentare di parlare di un futuro che è difficile immaginare e quindi ancor di più di cosa e come sarà il cristianesimo in quelle terre.
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Il cardinale Pizzaballa ha detto, parlando in collegamento con la comunità cattolica di Pavia, che Gesù ha dato uno stile, la prossimità, e i cristiani di Gaza lo seguono trovando un senso per la loro vita preparando i pacchi di aiuti per gli indigenti che assistono, che sono quasi tutti musulmani: «Per me e per la mia comunità è importante avere uno sguardo di fede su ciò che sta accadendo, non ci si può limitare alla cronaca di quello succede. La fine della guerra non sarà la fine del conflitto: noi dobbiamo fare tutto il possibile per tenere viva l’umanità». Questa è la vera chiave per capire la portata della decisione di restare a Gaza dopo l’ordine di evacuazione.
Se c’è una comunità cristiana di cui non si era mai parlato, anche per la esiguità della loro presenza, è quella di Gaza. Le parrocchie di Gaza, ortodossa e cattolica, come l’ospedale anglicano, non li conosceva quasi nessuno. Ora diventano un avamposto «culturale», per la linea scelta dai patriarchi Pizzaballa e Teofilo III. Se a facilitare questo mutamento «culturale» c’è il fatto che le Chiese nella loro quasi interezza sono palestinesi, è decisivo il discorso del patriarca Pizzaballa sullo «stile», sul tenere «viva l’umanità». Questo la rende una scelta di valenza religiosa e di valenza regionale.
Un passaggio della Dichiarazione congiunta con cui i patriarchi hanno annunciato che i cristiani non accettano l’ordine di evacuazione giunto in quella zona di Gaza colpisce:
«Sembra che l’annuncio del Governo israeliano secondo cui «si apriranno le porte dell’inferno» stia effettivamente assumendo contorni tragici. […] Come gli altri abitanti della città di Gaza, anche i rifugiati che vivono nella struttura dovranno decidere secondo coscienza cosa fare. Tra coloro che hanno cercato riparo all’interno delle mura dei complessi, molti sono indeboliti e malnutriti a causa delle difficoltà degli ultimi mesi. Lasciare Gaza City e cercare di fuggire verso Sud equivarrebbe a una condanna a morte. Per questo motivo, i sacerdoti e le suore hanno deciso di rimanere e continuare a prendersi cura di tutti coloro che si troveranno nei due complessi».
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Nel suo intervento a Pavia il patriarca ha aggiunto due considerazioni: a Gaza siamo nel terzo anno con tutte le scuole chiuse e poi che nella Striscia non si trovano antibiotici, neanche per gli ospedali e così qualcuno può morire di infezioni dopo operazioni riuscite.
Si parla dunque della popolazione civile, «degli abitanti» e di una condanna a morte per molti di questi indigenti assistiti, tutti o quasi tutti musulmani. Oggettivamente emerge un discorso cristiano e poi un discorso che va al di là della protezione dei cristiani; dopo averla rifiutata come sistema, è stata spesso invocata nei fatti. Questa protezione è un retaggio ottomano che se secoli fa poteva anche soddisfare certe esigenze, nel tempo dell’intolleranza, oggi è archeologia che anchilosa le società che la fanno propria. La protezione era un sistema per cui cristiani ed ebrei potevano seguire nei loro spazi, quartieri, luoghi di culto, le loro consuetudini di fede e le loro leggi civili, pagando una tassa al sultano. Ovviamente non avevano pari diritti e nessuno rimpiange quel sistema, ma la violenza ha fatto sentire sempre più spesso le gerarchie cristiani chiedere la protezione dei cristiani, che veniva ostentata da tanti regimi per ingraziarsi i governi occidentali e ottenere qualcosa in cambio, mentre i cristiani in loco ovviamente dovevano almeno tacere. Questo li rendeva quasi un corpo estraneo, a volte percepiti come complici di regimi impresentabili… L’oscura cloaca che ha sempre ristagnato intorno al terrorismo rende il discorso molto complesso.
Con il discorso di Gaza si pone il dramma umano, ci si assume la responsabilità di parlare di Gaza e di quel che vi accade e si archivia l’idea, giusta o sbagliata, dei cristiani corpi estranei alla società araba: è una goccia? Si può sperare che sia una goccia che può far emergere la cultura della «cittadinanza», della fratellanza? Le parole del comunicato presentano una visione. A me sembra un approccio conciliare, non più anticonciliare, come molto spesso è stato il linguaggio nel mondo arabo, profondamente segnato dall’idea della «sinfonia dei poteri». Qui non vedo alcuna «sinfonia» o avalli a chicchessia.
La piccola pattuglia cristiana di Gaza forse ci dice che non sono i numeri a dare rilevanza, ma la capacità di cui ha detto Pizzaballa rivolgendosi ai cattolici di Pavia. Il suo discorso dunque lo riferisco a tutta la regione. In Siria, in Egitto, in Libano, dopo eventi drammatici, assedi, carneficine, questo spirito di fratellanza non ha saputo emergere. Non serve fare esempi, ma comunque questo potrebbe essere un seme di una cultura basata sulla cittadinanza, non sul fanatismo, sull’odio, sul confessionalismo. Che da questo possa innescarsi un meccanismo nuovo grazie al piccolo passo di Gaza può apparire utopico; forse è così… E anche per questo mi sembra importante parlarne.
I guai sono mille e tutti diversi, ma in questa prospettiva l’ecumenismo dimostra la sostanza cristiana e l’irrilevanza del confessionalismo identitario: cosa avrebbe differenziato, se si fosse scelta una linea diversa, un cattolico e un ortodosso di Gaza? Guardando alla regione il bivio sembra tra Chiese etniche, chiuse, e Chiese missionarie, aperte, ospedali da campo.
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Il discorso messo così, può portarci al vicino Libano, dove potrebbe arrivare nei prossimi mesi Leone XIV, in occasione del suo primo viaggio internazionale. Difficile dire oggi se il viaggio potrà essere davvero calendarizzato per l’inizio di dicembre. Ma anche in quel contesto sempre a dir poco turbolento, dove il disarmo di Hezbollah appare una sfida ad altissimo rischio − nonostante tutto − per la tenuta del Paese, visto che non si è evitato neanche di evocare il rischio di una guerra civile se davvero come deciso si vorranno confiscare le armi del partito khomeinista, la presenza di Leone XIV potrebbe portare un analogo vento di sfida al futuro, per immaginarlo diverso. Se il disarmo di Hezbollah dovesse davvero riuscire e quindi il Paese tornare un po’ sovrano, il Libano per risorgere dalle sue ceneri, che oggi sono il suo disfacimento economico e sociale, avrà bisogno anche di molto altro, soprattutto di una visione che lo faccia tornare un Paese e non una sommatoria di cantoni confessionali.
Superare l’impianto confessionale, l’asfissia che esso ha creato riducendosi a una casta di grandi famiglie e signorotti che si sono impossessati delle comunità e dello Stato – al servizio o contro Hezbollah – potrebbe essere la grande carta caratterizzante un viaggio che diverrebbe epocale.
Il Libano, solo Paese arabo dove i cristiani sono decisivi per gli assetti attuali e futuri, per rinascere dal suo disfacimento deve trovare il modo di abbandonare il confessionalismo per una strada nuova. Il sistema bicamerale è il modello portata di mano, una rivoluzione da offrire a tutta la regione, insieme al decentramento amministrativo. Senza partiti interconfessionali il confessionalismo rimarrà insuperabile, un tumore che non può essere operato. E allora il bicameralismo a due sistemi elettorali sarebbe la novità portatrice di un modello capace di aprire le porte a un altro futuro. Una camera eletta con sistema confessionale per dare garanzie a tutte le comunità e ribadire l’attuale impianto multiconfessionale e un Senato eletto come si vota da noi, su base partitica, dando i diritti alle persone: oltre che già previsto dalla Costituzione ma mai attuato, sarebbe il modo migliore per fare una vera democrazia consensuale ma non paralizzante. (Per altro il Libano ha già conosciuto partiti interconfessionali, chiusi dall’inasprirsi della chiusura del sistema confessionale).
Le comunità così ritroverebbero un senso nella dinamica sociale e nazionale, come i partiti interconfessionali servirebbero a costruire finalmente i legami tra persone di diverse provenienze di fede. La democrazia che così si costruirebbe creerebbe una politica che non sradica dalle comunità nell’individualismo, ma neanche fa delle comunità dei mondi tribali, dove le grandi famiglie si spartiscono il potere e l’individuo viene schiacciato nei meccanismi della fedeltà clanica. Un modello da cui molto potrebbero trarre Siria e Iraq.
L’ipotesi è stata prospettata in questi giorni convulsi anche a livello governativo: se il Vaticano ponesse il suo peso per rafforzare questo spinta, anche nella desolazione di un presente inquietante, si potrebbe dire che il cristianesimo darebbe un contributo enorme a rinnovare l’unico Paese dove i cristiani hanno peso politico e sociale per farne un elemento di innovazione e rilancio, propulsore di un modello da offrire a tutta la regione.
I due esempi sono distanti, diversi, in entrambi i cristiani potrebbero essere forza di rigenerazione nella desolazione. La fratellanza e quindi la pari cittadinanza costituiscono la bussola per salvare il Levante.






Insomma, che non si sia parlato di queste comunità mi pare azzardato, già ai tempi di Benedetto XVI ci fu un sinodo delle Chiese Mediorientali, Avvenire ospitò tanti interventi di partecipanti del sinodo che si erano incontrati provenendo proprio da posti molto diversi (culturalmente e geograficamente tra loro). Prima dell’Isis e prima del conflitto attuale.
https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/apost_exhortations/documents/hf_ben-xvi_exh_20120914_ecclesia-in-medio-oriente.html
All’epoca non interessò molto, vuoi perchè Ratzinger era un papa poco mediatico, vuoi perchè l’opinione pubblica era orientata diversamente, anche l’omicidio di monsignor Padovese non aveva avuto particolare eco, se non nei gruppi ideologicamente più ostili all’Islam.