XXV Per annum: Un Dio che “scompiglia l’ordine”

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«Dare a ciascuno il suo», cioè quanto gli spetta, è un principio che risale all’antichità, fondamentale nel diritto romano, ma già noto a Platone e Aristotele. Riconosciamo in questo un’applicazione ovvia di una regola che governa quella “giustizia” che non si basa su preferenze o favoritismi, ma su una uguaglianza di base che deve esistere tra merito e ricompensa.

 Bene, questo principio, che sembra di elementare buon senso e che è difficile da negare, salta ancora una volta per aria nella parabola che sta al centro della liturgia odierna, quella cosiddetta degli operai mandati a lavorare nella vigna (Mt 20,1-16).

Sfogliando una vecchia agenda di cinquant’anni fa, ho trovato oggi per caso una frase che mi ero appuntata: «La vera fede sconvolge tutto» (Julien Green, L’autre, p. 338). Il fatto che a tutti gli operai, da quelli al lavoro fin dal mattino a quelli che hanno lavorato solo nell’ultima ora disponibile, venga dato lo stesso compenso, ha di che sconvolgere ogni nostro ragionamento basato sul buon senso e sulla “giustizia”.

Ma la parabola ci costringe a rivedere un po’ i nostri criteri di giudizio, a cominciare dal chiederci che cosa è in effetti il “dovuto per giustizia”. A cominciare dal fare i conti con quanto abbiamo ascoltato due domeniche fa: «Fratelli non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole» (Rm 13,1). Ma, come sempre, prima di arrivare lì, il percorso delle letture ci fa procedere a tappe.

I pensieri di Dio non sono i pensieri dell’uomo

La prima tappa comprende una dichiarazione che riassume un pensiero molto importante: Dio dice, per bocca del profeta Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, e le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Salutare messa in guardia contro possibili veloci identificazioni che, confondendo l’affermazione per cui «Dio ha fatto l’uomo a sua immagine», si arriva a pensare e a dire, forse inconsciamente, che «è l’uomo che ha fatto Dio a sua immagine»!

È ovvio che, se si vuole capire qualcosa di ciò che insegna Gesù (e non è certo la prima né l’unica volta), occorre semplicemente ribaltare il rapporto ingenuo stabilito da noi per accogliere quello che, se Dio è Dio, ci viene dalla sua parola trasmessa per mezzo del profeta (Is 55,6-9).

Per fare questo, giova sostare su altre due frasi che circondano l’affermazione incriminata. L’uomo di cui si parla è qualificato con il suo essere «empio e iniquo», e dunque strutturalmente molto lontano da Dio, che invece è detto «uno che ha misericordia, e che largamente perdona». Il contrasto è ovvio.

La seconda affermazione calca sul fatto che la distanza tra noi e Dio è immensa, tale quanto il cielo «sovrasta» la terra, così come i suoi pensieri “sovrastano” i nostri pensieri. Folle fare la guerra a Dio. La fede consiste nell’accogliere con umiltà la sua parola e nel disporci a seguirla. Per questo, il meglio è pregare e meditare il Salmo 144 che segue.

Paradossi

L’effetto di questa diversità, per non dire contrasto di visuale, si coglie subito nella seconda Lettura (Fil 1,20c-24.27a), che altro non è se non una serie di paradossi che raggiungono il vertice in quello più chiaro e deciso, là dove Paolo dice: «Per me il vivere è Cristo, e il morire un guadagno». Se è chiaro dire che per lui il vivere è Cristo («Non vivo più io, ma Cristo vive in me»: Gal 2,20), non è altrettanto agevole capire che la morte è un guadagno!

E però il paradosso è in sé logico, anche se questo mette Paolo davanti a un bivio difficile, nel quale tutti e due i corni del dilemma sono positivi, il che rende molto difficile, se non impossibile la scelta. Si tratta, in effetti, non di due situazioni opposte, ma di due “beni” davanti ai quali l’opzione non è per niente facile. L’apostolo infatti scrive: «Se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero cosa scegliere tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per vivere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo».

Il ragionamento di Paolo è degno di nota, perché risponde in pieno a quanto egli stesso ha affermato circa «ciò che è dovuto» ai fratelli: è il loro bene che deve essere prioritario nella scelta rispetto al suo bene personale. Questa è la “giustizia”, come la vedremo praticata dal padrone di casa della parabola che ora sarà esaminata.

La contestata “giustizia” del padrone

La storia degli operai chiamati a lavorare nella vigna in diverse ore del giorno e che ricevono alla fine lo stesso salario (Mt 20,1-16) ha una struttura narrativa molto semplice e precisa e, alla fine, non avrebbe bisogno di essere gran che commentata.

Vi appaiono due linee di lettura: la prima riguarda il comportamento, apparentemente “strano” del padrone di casa, la seconda la reazione degli stessi lavoratori.

La partenza è chiara: si tratta di un padrone che assume degli operai a giornata, pattuendo con loro un compenso di un denaro al giorno. Il lavoro deve essere stato molto e gravoso, se il padrone esce in diverse ora del giorno per reclutare altri lavoratori. Partendo dal fatto che la parabola è destinata a spiegare come è fatto il “regno di Dio” significato dalla “vigna”, e sul presupposto che la Chiesa è “sacramento”, cioè segno visibile di questo regno, non è difficile vedere nella chiamata a «lavorare» nella vigna l’immagine della vocazione cristiana di base che è l’impegno a costruire tale regno sulla terra. A dire che tale chiamata può avvenire in ogni momento, la storia segnala, dopo quella mattutina, altre uscite del padrone alla ricerca di operai, alle nove, a mezzogiorno e alle tre, e persino all’undecima ora, le cinque, proprio sul finire della giornata lavorativa.

L’ultimo gruppo diventa da ora il protagonista che metterà in luce un comportamento del padrone che suscita perplessità e proteste. Va notato che gli operai dell’undecima ora, in un primo tempo ritenuti «oziosi», in realtà giustificano il loro stare inerti dicendo: «Nessuno ci ha presi a giornata». Messa così, la cosa pare prevedere che in loro non c’è nessuna colpa. Ma estendendo il discorso a tante situazioni, viene da chiedersi se chi non lavora nella vigna è perché non ha ricevuto nessuna “chiamata”, o perché, distratto da altre faccende, non vi ha fatto caso, o anche perché ha deciso di ignorarla.

Il comportamento del padrone pare significare due cose: che si può essere chiamati in ogni momento e che nessuno deve restare “disoccupato”.

Passiamo al secondo momento: la ricompensa per il lavoro, dove abbiamo due sorprese: la prima è il fatto che tutti ricevono la stessa paga, la seconda è che, a pagare, si comincia dagli ultimi, non dai primi. Da questi viene una reazione prevedibile, con la quale è difficile per noi non essere d’accordo. Giustizia vorrebbe che chi ha lavorato di più, chi «ha sopportato il peso della giornata e il caldo», riceva una paga più sostanziosa. Non è così: il padrone ha evidentemente altri criteri, come spiega rivolgendosi a uno dei mormoratori chiamandolo per giunta amabilmente «Amico»!

La “giustizia” è salva, perché questa è la sua risposta: «Non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio?». Giustizia è fatta, dunque. L’accordo è stato rispettato, e se in più il padrone vuole essere generoso, niente da dire, perché i «beni» sono suoi.

Certo, pure il principio del dare a ciascuno il “dovuto” è salvo, perché il padrone ragiona non in base al lavoro materialmente compiuto, ma prendendo in considerazione il bisogno del lavoratore, uguale sia per chi ha lavorato tutto il giorno sia per chi, non per sua colpa, ha fatto solo il lavoro di un’ora: l’unico “denaro” dato come paga era infatti necessario per vivere un giorno.

E però la parabola aggiunge un’altra considerazione, che rimanda a uno stato d’animo ben noto: l’invidia!

Viene subito in mente la reazione stizzita del figlio maggiore nella parabola del padre misericordioso (Lc 15), che mal sopporta che il ritorno del fratello minore, il quale ha sperperato stoltamente in anticipo tutta la sua eredità venga trattato senza rimproveri, anzi con una grande festa.

In questo le due parabole si sovrappongono, e aiutano a leggere il rapporto che si era creato tra gli ebrei osservanti (i figli maggiori, gli operai della prima ora), e i cristiani che arrivavano dal paganesimo (i figli minori e gli operai dell’ultima ora). Fu un problema che creò non poche difficoltà all’interno della prima comunità cristiana, e tante altre ne creò nel seguito della storia.

Si sono fatte battute sulla “conversione” del buon ladrone, che ha compiuto l’ultimo “furto” della sua vita sulla croce, ottenendo con la sua fede nell’innocente ucciso accanto a lui e un’umile preghiera di entrare nel regno di Dio. E sia. Ma siamo ancora nell’ottica illustrata nella conclusione dell’omelia della settimana scorsa. Per il credente in un Dio che “eccede” in misericordia e generosità non ci deve essere posto per nessuna invidia, che sarebbe solo un segno di antipatica grettezza. Per chi vive la sua fede «respirando nel perdono di Dio» si può solo gioire, insieme agli angeli del cielo, per ogni peccatore che ritorna all’ovile (Lc 15,7.10).

Riprendo in proposito un altro invito simpatico e generoso di san Bernardo: «Il ricordo dei peccati, anche se buono, non è gioioso. Coloro invece che spesso si dedicano al ringraziamento considerano attentamente Dio e pensano solo a lui. Per questo motivo vi esorto, o amici, ad allontanare il piede, di tanto in tanto, dal ricordo fastidioso e ansioso dei vostri comportamenti e a percorrere le strade più pianeggianti della memoria dei benefici di Dio, affinché voi, che pensando a voi stessi vi turbate, possiate respirare nella considerazione di lui» (Sul Cantico XI,2).

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