XXXI Per annum: Zaccheo, il perduto ritrovato

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Il libro della Sapienza

Nel commento alla Prima lettura della XXIII Domenica per annum C, dedicato a Sap 9,13-18, abbiamo indicato alcune linee introduttive al libro della Sapienza. Composto in greco tra il 30 e il 14 a.C. probabilmente ad Alessandria d’Egitto, ad opera di un autore sconosciuto (pur essendo attribuita fittiziamente a Salomone), esso non è entrato nel canone ebraico ed è uno dei libri deuterocanonici del canone cattolico.

È l’opera di un autore saggio, istruito, inserito in un contesto urbano multiculturale. Egli vuole offrire ai giovani giudei fedeli alla tradizione degli strumenti cultural-religiosi-filosofici utili per il dialogo con i giudei filoellenisti, tentati di abbandonare le tradizioni patrie in quanto ben inseriti nell’amministrazione politica dell’Egitto.

L’autore vuole però dialogare anche con i non ebrei, specialmente con coloro che si sono formati alla scuola del platonismo e dello stoicismo.

Nel libro viene lodata la Sapienza nel suo rapporto con la giustizia, con la creazione e con la salvezza. L’atmosfera non fa trasparire la persecuzione, ma senza dubbio si stanno muovendo i primi passi di una cristi latente con l’istituzione pubblica.

A livello letterario, il libro della Sapienza può essere così strutturato nelle sue linee generali:

1,1–6,21 Esordio: sapienza e giustizia;

6,22–9,18 Elogio della sapienza;

10,1–19,22 Esemplificazione: Sapienza e storia (10,1–11,1 Inno alla sapienza; 11,2–19,12 Le sette antitesi, con due digressioni, la prima in 11,15–12,27 circa la filantropia di Dio e la seconda in 13,1–15,19 con la critica alle religioni pagane);

19,13-22 La nuova creazione.

Misericordia per tutti

A punizione degli irragionevoli egiziani oppressori di Israele, YHWH ha inviato animali irragionevoli, «affinché capissero che con le cose con cui uno pecca, con quelle viene punito» (Sap 11,16). YHWH però attuò la sua punizione in modo graduale, progressivo, in vista della conversione. Se avesse voluto, avrebbe potuto annientare in un momento gli egiziani malvagi. «Tu hai disposto ogni cosa con misura, calcolo e peso. Prevalere infatti con la forza ti è sempre possibile, e chi si opporrà alla potenza del tuo braccio?» (Sap 11,20d-21, trad. Vittoria D’Alario).

Quali sono, le ragioni della moderazione divina? L’autore vi riflette proprio nel brano letto nella liturgia odierna.

La prima chiave interpretativa dell’atteggiamento divino sta nella misericordia di Dio, che contempera in perfetto equilibrio la sua onnipotenza e l’esercizio moderato della stessa.

L’onnipotenza divina è assoluta: basta considerare il contrasto tra l’onnipotenza di Dio e la piccolezza e l’evanescenza del mondo intero. Nessuno può resistervi (cf. Gb 9,4-13 in modo polemico di accusa contro Dio). Anche altri testi avevano sottolineato, in positivo, l’uso del potere divino contro i nemici (cf. Is 40,23; la potenza del braccio in Es 15,16; Dt 26,8; Is 40,10). Dio ha potere sull’universo intero (cf. Sap 11,17). Di fronte a lui il mondo è un granello di polvere (solo qui l’immagine, oltre che in Is 40,15). Anche il paragone della “goccia d’acqua” ritorna in Is 40,15, anche se è un’espressione tipicamente greca (cf. Euripide, Andromaca 227).

Nei vv. 23-26 l’autore prosegue nella sua argomentazione: l’agire divino è ispirato non alla vendetta ma alla compassione non solo verso il popolo eletto, ma verso tutti gli uomini: eleeis de pantas (v. 23a).

Il fondamento della misericordia di Dio è proprio nella sua onnipotenza (cf. v.23a; cf. Prefazio della Preghiera eucaristica della Riconciliazione I: «Manifesti la tua onnipotenza soprattutto nella grazia del perdono»). Solo pochi altri testi dell’AT evidenziano il rapporto tra misericordia e onnipotenza: Nm 14,7-20; Sal 62,12-13; Sir 2,18; 18,1-14. L’autore del libro della Sapienza sottolinea con forza che YHWH si differenzia totalmente dalle divinità pagane, che nella letteratura greca sono spesso descritte in preda a sentimenti gretti, vendicativi, invidiosi.

Misericordia che fa “girare gli occhi”

Una seconda chiave interpretativa dell’agire divino è la sua tolleranza “positiva”.

Il Dio degli ebrei non è vendicativo, “gira gli occhi da un’altra parte/paroras” di fronte ai “peccati/hamartēmata” degli uomini (< paraoraō: “volgere lo sguardo di fianco, guardare lateralmente, e quindi “trascurare, disdegnare, non tenere conto, lasciar correre, permettere, tollerare”). Questo perché egli è grande di cuore, non ricerca puramente la soddisfazione dei propri diritti e la ricostituzione perfetta a livello giuridico di un rapporto corretto tra la giustizia divina e il comportamento errato degli uomini. Questi ultimi spesso lo infrangono perché falliscono il bersaglio della loro vita (così il verbo hamartanō nel suo significato etimologico).

Dio però non “gira gli occhi” per capricciosa volubilità emotiva che si muove sovrana e insindacabile nell’ampio spettro dei registri dell’affettività. Il suo atteggiamento di misericordiosa tolleranza non è dovuto al suo essere imbelle o capriccioso, ma a una longanimità compassionevole che ha di mira la “conversione/eis metanoian” degli uomini. Non vuota magnanimità sovrana, imperscrutabile e insindacabile, ma misericordia paziente che attende (e suscita) il cambiamento di mentalità degli uomini (cf. Is 30,18; 2Pt 3,9b: «Egli invece è magnanimo con voi (makrothymei eis hymas), poiché non vuole che alcuno si perda, ma tutti abbiano modo di pentirsi (eis metanoian chōrēsai)».

L’amore per tutti gli enti

La radice ultima (gar = “infatti”) dell’atteggiamento di misericordia e di tolleranza “attiva” in Dio risiede nella sua capacità (e scelta) di “amare/agapan” gli uomini. Egli gli ama in continuità, senza stancarsi e senza provare disgusto per loro.

«Nella grecità extra-biblica l’impiego del sostantivo [= agapē, NdR] è molto scarso, mentre il verbo agapaō ha il significato tenue di “stimare, avere affetto, prediligere”» ricorda R. Penna (Amore sconfinato. Il Nuovo Testamento sul suo sfondo greco ed ebraico, Ed. San Paolo, Cinisello B. [MI] 2019, 30). Il significato di amore sconfinato, disinteressato, oblativo emerge in tutta la sua forza con l’ambiente biblico dell’AT e specialmente del NT. È molto raro trovare infatti nei testi religiosi extrabiblici l’affermazione che Dio “ami” gli uomini.

L’autore del libro della Sapienza sfrutta il linguaggio filosofico metafisico proprio dell’ontologia greca per descrivere il rapporto tra Dio e gli esseri creati (“tutti gli enti”/ta onta panta), ma il pensiero è profondamente biblico. Il “disgusto/bdelyssēi”, infatti – il contrario dell’amore –, non è un atteggiamento proprio del Dio biblico. Egli non odia/non prova disgusto di alcuna cosa perché egli le ha create tutte, e le ha create perché le ama tutte, perché si prende cura anche delle bestie dall’aspetto mostruoso (cf. Gb 38,1–41,26).

Se, ragionando per assurdo, Dio avesse odiato/misōn qualcosa da lui creata, non l’avrebbe neppure creata. Infatti, come potrebbero le cose “sussistere/persistere/diemeinen” se non ci fosse stata in Dio una volontà precisa e decisa al riguardo (ēthelēsas)? Se anche, per un’eventualità totalmente assurda, ci fosse la possibilità di un’esistenza al di fuori della “volontà/chiamata” divina (klēthen < kaleō), questa non potrebbe “rimanere in vita /dietērethē”. Al di là del linguaggio filosofico impiegato, l’universo mentale in cui l’autore si muove è la visione biblica del cosmo (cf. Sal 2104,289; Gb 34,14-15).

Amante della vita

La riflessione-dialogo sulla pazienza misericordiosa di Dio riconosce – negativamente – che egli risparmia/pheidēi tutte le cose, perché – positivamente –, esse appartengono tutte a lui (cf. v. 23a). Tutte le realtà sono subordinate a Dio nell’amore.

Egli è “Signore amante della vita/despota philopsyche”. Dio ama la vita, non ha creato e non ama la morte, la punizione annichilatrice del peccatore, sopporta anche l’esistenza non del tutto positiva di qualche realtà. Lo spirito incorruttibile di Dio è in tutte le cose, uno spirito che può essere potenzialmente distruttivo (cf. 11,20), ma qui visto come la ragione ultima della sussistenza di tutte le realtà (cf. Gen 2,7, Sal 104,28-30). La vita delle cose e degli uomini dipende dalla presenza in essi del soffio vitale insufflato da Dio.

L’autore fa l’occhiolino alla dottrina stoica secondo la quale la realtà intera è permeata dallo spirito (pneuma) e per questo sussiste, ma la depura dal suo materialismo panteista e la impiega/piega alla sua dimostrazione di stampo biblico. «La sussistenza degli enti non dipende dalla partecipazione a una ragione immanente alla realtà, ma da una chiamata all’esistenza, che è espressione dell’amore di Dio verso tutte le creature» (V. D’Alario).

La moderazione (“poco a poco/kat’oligon”) dell’azione pedagogica di Dio si dimostra, in una sintesi finale (11,2–12,1), in un’azione veritativa (elencheis) che rimprovera, ammonisce coloro che hanno sbagliato (parapiptontas), che hanno peccato (hamartanousin), ricordando loro l’errore affinché, liberatisi (apallagentes) dalla loro cattiveria, giungano alla fede in Dio.

Il Dio dell’Antico Testamento, letteratura teologica giunta ormai alle soglie del Nuovo Testamento, viene mostrato in tutta la sua misericordia, tolleranza attiva, amore disinteressato e oblativo, in vista della correzione degli uomini dal loro male che li intossica, perché arrivino alla fede che li stringe a Dio, amante della vita.

Gesù prenderà in mano questi fili preziosi.

La sua persona e il suo insegnamento dimostreranno nei fatti la “verità” del volto di YHWH attestato nelle Scritture di Israele, rivelando nella sua carne la pienezza del suo amore agapico di redentore, espressione definitiva dell’amore infinito del Padre amante della vita.

Gesù, re contestato, esercita il giudizio

 

Secondo R. Meynet, la sequenza di Lc 18,31 – 19,46 titolata “Gesù, re contestato, esercita il giudizio”, può essere così strutturata: A. 18,31-34 Annuncio della passione e della risurrezione di Gesù; B. 18,35 – 19,10 A Gerico (18,35-43 La guarigione del cieco di Gerico; 19,1-10 La conversone di Zaccheo); C. La parabola centrale 19,11-28 (La parabola delle mine); D. 19,29-40 Al monte degli Ulivi. Intronizzazione e corteo regale (19,29-36 L’intronizzazione di Gesù; 19,37-40 L’acclamazione del re); E. 19,41-46 L’annuncio della caduta di Gerusalemme.

La composizione della sequenza è concentrica:

18,31-34 ANNUNCIO DEL DESTINO DI GESÙ;                                                                       saliamo a GERUSALEMME

18,35 43 IL CIECO GUARITO;                                                                                si avvicinava a GERICO

19,1-10    IL RICCO SCAGIONATO;                                                                     passava per GERICO

19,11-28 LA PARABOLA DEL RE;                                                               era vicino a GERUSALEMME

salendo a GERUSALEMME

19,29-36 L’INTRONIZZAZIONE DEL RE;                                        si avvicinava a… IL MONTE DEGLI ULIVI

19,37-40 L’ACCLAMAZIONE DEL RE;                                            si avvicinava a… IL MONTE DEGLI ULIVI

19,41-46 ANNUNCIO DEL DESTINO DI GERUSALEMME;                                                   si avvicinava… ALLA CITTÀ

entrando nel TEMPIO

Secondo Meynet il centro della sezione è costituito dalla parabola del re (19,11-28), al centro della quale si trova 19,22a: “Dalla tua stessa bocca ti giudico, servo malvagio!”.

Zaccheo, “Il puro”, piccolo impuro

Nel suo cammino verso Gerusalemme, che costituisce il filo conduttore del Vangelo di Luca (cf. la svolta decisiva in Lc 9,51), Gesù attraversa Gerico, la città delle palme, situata nel punto più basso della terra, a 400 m. circa sotto il livello del mare. Situazione simbolica di peccato, di necessità estrema di redenzione. Da lì, per andare a Gerusalemme, non si può che salire, essere redenti, arrivare alla salvezza.

Nella città abita Zaccheo, Il puro (gr. Zakchaios; ebr. Zakkai) che, ironia tragica della sorte, è totalmente impuro a livello rituale, inadatto cioè al culto. Egli è infatti un uomo ricco, diventato tale grazie al suo mestiere di capo dei esattori delle tasse della zona. Un lavoro svolto in subappalto per conto del responsabile generale di zona di questa attività che aveva vinto a sua volta l’appalto bandito dai romani, potere occupante della regione.

L’“esattore/telōnēs” stava al “tavolo/telōn” del suo lavoro e, oltre l’ammontare della tassa dovuta, richiedeva a ogni cittadino una quota eccedente, stabilita a sua insindacabile decisione, che rimaneva nella sua disponibilità. Era un soggetto odiato dalla popolazione, emarginato e scomunicato dalla comunità civile e religiosa in quanto collaborazionista degli occupanti romani.

Un ladro patentato, impuro ritualmente perché a continuo contatto con il denaro e con i pagani. Feccia odiosa e irrecuperabile.

Gioco di occhi

L’episodio che coinvolge Zaccheo segue immediatamente quello di Bartimeo, il cieco di Gerico. Egli aveva chiesto poco prima a Gesù di vedere di nuovo (18,41.42.43) e, guarito da Gesù, vedendo, aveva dato lode a Dio (Lc 19,18,35-43).

Zaccheo, piccolo di statura (quanto invece ricco di denari), cerca di vedere chi è Gesù, ma ne è impedito dalla folla. Sfidando lo scherno scontato da parte dei compaesani che lo odiavano cordialmente, precede di corsa il corteo di Gesù e sale (anebē) su un sicomoro per vederlo, dal momento che egli doveva attraversare la città.

Zaccheo non ha niente da perdere: la sua onorabilità era perduta già da molto tempo. Cerca tuttavia di vedere Gesù perché probabilmente al suo tavolo di lavoro, crocevia inevitabile di tutte le chiacchere della valle del Giordano, aveva sentito parlare bene di quel maestro buono, accogliente, esigente ma misericordioso.

Zaccheo è curioso fuori, forse inquieto dentro. Ostracizzato dalla sua gente, ma forse – dentro – profondamente insoddisfatto della sua vita e nauseato da un cammino senza prospettive positive. Solo relazioni umane imposte, verso dipendenti e cittadini vessati da Roma e dall’etnarca Erode Antipa. Relazioni fatte di timore misto a odio e a desiderio di vendetta.

Zaccheo precede di corsa Gesù per vederlo, ma è preceduto da lui nello sguardo. Gesù lo vede per primo, dal basso verso l’alto/anablepsas. Bartimeo voleva “vedere di nuovo /anablepsō” e fu esaudito (cf. Lc 18,41.42.43). Ora è Gesù che vede da sotto in su, che vuole ri-vedere la vita di Zaccheo, per guarirlo dalla sua impurità.

Il comando di Gesù è secco ma cordiale. Gesù chiama Zaccheo per nome, già conosciuto forse per fama, ma preconosciuto e prevenuto nel cuore dell’«amico dei pubblicano e dei peccatori» (cf. Lc 7,34). Era salito/anebē (< anabainō) sull’albero per una impossibile autoredenzione. Ora è invitato a scendere (katabas, < katabainō), a ritornare nella bassura di Gerico e nella plaga soffocante della sua impurità. Dovrà ricevere la redenzione da un altro, per grazia preveniente.

Devo rimanere da te, oggi, a casa tua

Lo scopo di Gesù è ben esposto: nel piano salvifico del Padre abbracciato da Gesù (dei), accade un oggi imperdibile di salvezza personale per Zaccheo (“oggi/sēmeron”, 19,5.10). L’angelo annuncia ai pastori una grande gioia per la nascita del Salvatore “oggi” (2,11); la Scrittura udita dai nazaretani nella sinagoga si è compiuta “oggi” (4,21); gli astanti glorificano /edoxazon Dio per aver visto “cose paradossali/oltre la gloria/paradoxa” “oggi”: la guarigione del paralitico (5,26; cf. 12,28); nell’“oggi” e per “tre giorni” della sua attività terrena Gesù scaccia demoni e compie guarigioni (13,32.33); in un “oggi” triste si consumerà il rinnegamento di Pietro (22,34.61).

Gesù si autoinvita nella casa di Zaccheo, spazio familiare di intimità, serenità, luogo di accoglienza reciproca delle fragilità, ambiente favorevole al dialogo e alla ricerca delle radici profonde dei propri atteggiamenti, desideri, fallimenti e riscatti. Luogo di relazione non imposte, ma proposte, accettate, serene, umanizzanti. Luogo di non giudizio, ma di dialogo che mette a nudo e custodisce con amore le ferite, favorendo la guarigione e il recupero della salute psico-fisica.

Gesù non vuole solo entrare nella vita intima di Zaccheo, ma vi vuole rimanere a lungo, tutto il tempo che serve alla guarigione, per sempre.

Zaccheo obbedisce immediatamente. Probabilmente si sente molto onorato della visita. “Con tutta fretta/speusas” (come si muovono i pastori per vedere il neonato Gesù, Lc 2,16), dopo esser salito autonomamente sull’albero (anebē, v. 4) ora “scende/katebē” velocemente per comando del maestro e “lo accoglie gioendo/hypedexato auton chairōn”, come fece Marta a suo tempo (Lc 10,38). Non è detto dove lo accolga. Non solo in casa sua, evidentemente, ma soprattutto nella sua vita disastrata, nel suo intimo, nei suoi desideri scombinati, nella sua disperazione intima rimossa e ammantata di ricchezza e di rispetto estorto col puro potere.

Al vedere la scena tutti si mettono a mormorare in continuità (egoggyzon), come gli israeliti nel deserto della liberazione, nella prova di una difficile vita di fede nella libertà, piuttosto che nella comodità ingannatrice di una vita di dorata schiavitù (cf. Es 14,11s; 16,8.9; Nm 11,1-30). Un Dio troppo “nuovo”, troppo “diverso” per essere accettato senza poterlo vedere e dominare come un vitello d’oro…

Tutti mormorano perché il maestro è entrato ad “alloggiare/katalysai” da un uomo peccatore, innominato. Era totalmente sconveniente mangiare del frutto del guadagno di una persona contaminata. Ma Gesù non vuole tanto alloggiare, ma rimanere. Gesù vuole rimanere con la persona in uno spazio familiare e confidenziale, non alloggiare in uno spazio per diventare complice del male, di un modo sbagliato di vivere. Gesù sceglie la persona e uno spazio dove possa “rilassarsi”, abbassare le difese, aprirsi al dialogo fiducioso e sereno.

La metà… quattro volte tanto!

Non si sa quanto tempo sia passato, quanto sia durato il “rimanere” di Gesù. Cibo, bevande e dialogo hanno allentato la tensione, accresciuta la conoscenza e l’accoglienza reciproca nel profondo. Gesù non accoglie “un uomo peccatore”, un “numero”, un appartenente della massa degli scomunicati. Accoglie la persona, «accoglie la vita» (card. Zuppi).

Zaccheo si alza ritto in piedi (statheis), con grande dignità e fermezza di decisione. Non vuol più piegare la schiena a realtà e persone per le quali ora prova vergogna e repulsione. Senza che gli sia stato chiesto alcunché espressamente da parte di Gesù, espone al “Signore” (Gesù risorto, per Luca) il suo programma di vita futuro.

Innanzitutto, la metà dei suoi beni, la maggior parte dei quali guadagnati illecitamente e in una situazione di oggettiva collaborazione col nemico occupante, andrà ai poveri. Elemosina che diventa giustizia. Zaccheo è sulla strada delle richieste fatte da Gesù al “capo/archōn” che chiedeva lumi su come poter ereditare la vita eterna. Alla richiesta di vendere tutto quello che aveva e di “distribuirlo in dono fra i poveri/diados ptōchois”, se ne andò via triste perché era molto ricco (Lc 18,18-23).

Con parole accorate l’angelo Raffele ricorda a Tobia e a Tobi che vogliono dargli la metà di tutti i beni riportati da Raguele in Ecbatana, quale compenso per il suo servizio di “accompagnamento” di Tobi e Sara e della guarigione donata a Tobia: «È meglio la preghiera con il digiuno e l’elemosina con la giustizia, che la ricchezza con l’ingiustizia. Meglio praticare l’elemosina che accumulare oro. L’elemosina salva (ruetai) dalla morte e purifica da ogni peccato (apokathariei [< apokatharizō] pasan hamartian). Coloro che fanno l’elemosina godranno lunga vita» (Tb 12,8-9). Il saggio ben Sira conferma: «L’acqua spegne il fuoco che divampa, l’elemosina espia i peccati (exilasetai [< exilaskomai] hamartias)» (Sir 3,30).

Se ho frodato in qualcosa qualcuno (!?) con l’estorsione o il ricatto (sykophanteō = fare con la mano il gesto del “fico” al fine di mettere in falsa luce/distorcere/travisare in un modo oltraggioso) gli rifonderò come indennizzo il quadruplo, continua Zaccheo.

La Legge afferma: «Quando un uomo ruba un bue o un montone e poi lo sgozza o lo vende, darà come indennizzo cinque capi di grosso bestiame per il bue e quattro capi di bestiame minuto per il montone» (Es 21,37). Il re Davide risponde irato al profeta Natan che gli aveva raccontata la parabola del ricco che aveva rubato l’unica pecora posseduta da un povero: «Pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto una tal cosa e non averla evitata» (2Sam 12,6).

Il libro del Levitico (5,20-26) prevedeva la seguente fattispecie giuridica nell’eventualità di cose rubate, trovate e non restituite, falsa testimonianza ecc.: restituzione per intero con l’aggiunta di un quarto del valore e un sacrificio di riparazione. Il reato commesso toccava anche la sfera divina, che andava risarcita con un sacrificio apposito.

Ecco il testo: «Il Signore parlò a Mosè dicendo: “Quando qualcuno peccherà e commetterà un’infedeltà verso il Signore, perché inganna il suo prossimo riguardo a depositi, a pegni o a oggetti rubati, oppure perché ricatta il suo prossimo, o perché, trovando una cosa smarrita, mente in proposito e giura il falso riguardo a una cosa in cui uno commette peccato, se avrà così peccato, si troverà in condizione di colpa. Dovrà restituire la cosa rubata o ottenuta con ricatto o il deposito che gli era stato affidato o l’oggetto smarrito che aveva trovato o qualunque cosa per cui abbia giurato il falso. Farà la restituzione per intero, aggiungendovi un quinto, e renderà ciò al proprietario nel giorno in cui farà la riparazione. Come riparazione al Signore, porterà al sacerdote un ariete senza difetto, preso dal gregge, corrispondente al valore stabilito, per il sacrificio di riparazione. Il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio davanti al Signore e gli sarà perdonato, qualunque sia la mancanza di cui si è reso colpevole”».

Se qualcuno veniva condannato per condotta impropria in materia di raccolta di tasse, poteva essere punito con una multa corrispondente da tre a dieci volte l’ammontare del danno compiuto. In una legge romana più tardiva era richiesta una pena corrispondente a quattro volte il danno commesso.

Fino a questo momento Gesù non ha rivolto a Zaccheo alcuna parola. Lo avrà rimproverato? Gli avrà ricordato accuratamente le norme della legge mosaica? Sarà stato duro? Sarà stato dolce?

Il vangelo ci riporta solo la decisione generosa di Zaccheo, che sembra andare oltre ogni richiesta di legge. Una decisione ferma e abbondante per quanto riguarda gli indennizzi e le persone interessate! Chissà quante! Come fare per convocarle tutte? Avrà tenuto Zaccheo un libro mastro delle sue operazioni?

Sta di fatto che Zaccheo mostra nella sua decisione il proprio pentimento, la conversione del cuore, l’essere ormai un uomo nuovo.

Molte le domande inevase. Avrà lasciato Zaccheo il suo lavoro? Lo avrà mantenuto ancora solo per il tempo necessario a reperire i fondi necessari per l’indennizzo alle persone offese, limitando al massimo l’importo della sua commissione oltre la quota delle tasse dovute? Sarà rimasto a casa sua o avrà seguito Gesù?

Cosa non irrilevante: avrà percepito il risvolto religioso della colpa commessa, che richiedeva sacrifici da offrire al tempio nel momento della sua purificazione? Nulla di ciò vien detto e nulla in più viene richiesto da Gesù al momento. La realtà evidenziata come decisiva è il risvolto antropologico, la ricostituzione di rapporti umani corretti. Un passo alla volta. Legge della gradualità.

Oggi la salvezza anche per questo figlio di Abramo!

Nel momento della manifestazione del contenuto della decisione presa da Zaccheo, Gesù sì rivolge a lui, ma rivolgendosi implicitamente a tutti i presenti. Nell’“oggi/sēmeron” decisivo, escatologico, insito nel piano salvifico del Padre (dei), manifestatosi nel concreto oggi cronologico imperdibile da parte di Zaccheo, è avvenuta “la salvezza/sōtēria” per la casa di Zaccheo, per lui e la sua famiglia, servi (probabili) compresi. Quando un padrone di casa si convertiva, tutta la famiglia lo seguiva. Così avviene anche per Zaccheo. La vita piena, umanizzante (“salvezza”) proveniente da Dio e accolta al momento della manifestazione concreta del suo pentimento fruttuoso si estende a tutti i suoi familiari. La grazia è contagiosa, avvolgente, imperscrutabile e insindacabile.

La “salvezza/sōtēria” è entrata nel tempo, “è avvenuta/egeneto” in quella casa perché in essa vi è rimasto Gesù, il Salvatore (sōtēr) che è Cristo Signore, come annunciato dagli angeli ai pastori (cf. Lc 2,11).

Il Salvatore incontra l’uomo peccatore, che ha una sua dignità indisponibile ad altri. L’accoglienza reciproca genera la conversione fruttuosa, una novità totale di vita, la salvezza.

Questo avviene – continua Gesù – anche per il fatto che “anche questi/quest’(uomo) è figlio di Abramo”, appartiene al popolo che ha nei patriarchi la propria radice, indistruttibile, che porta benedizione ai discendenti e a tutti i popoli della terra. Figlio di Abramo fortemente peccatore, ma non bandito ed escluso dalla famiglia.

La salvezza del Padre, del suo “oggi” salvifico, si attua attraverso Gesù che si presenta come Figlio dell’uomo inviato sulla terra non per giudicare ma per salvare gli uomini.

Come nel caso della pecorella, della moneta e del figlio prodigo (e anche del figlio maggiore…) protagonisti delle parabole del perduto-ritrovato di Lc 15, anche Zaccheo è una persona “perduta” irrimediabilmente al suo livello decisivo, escatologico (< apollymi): si trova connotata dalla qualità del “perduto” (il neutro to apolōlos del v. 10 esprime proprio la sua qualità, in questo caso negativa).

Gesù è venuto a cercare e a salvare ciò che è (pensato) perduto irrimediabilmente secondo i canoni della Legge, pur buona e data da Dio, come era interpretata dai suoi custodi zelanti, autori di una sterminata serie di leggi e di tradizioni (“umane”) attualizzanti la stessa che però, per onorare Dio sempre e in ogni luogo, finivano spesso per dimenticare l’uomo o per appiattirlo sulla situazione di peccaminosità/impurità.

Oltre l’ultima fermata

L’apostolo Giacomo conclude la sua lettera con queste parole: «… chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore lo salverà (sōsei) dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati (kalypsei plethos hamartiōn)» (Gc 5,20, che cita non ad litteram Tb 12,9).

Gesù salva Zaccheo, “ciò che è perduto irrimediabilmente” a livello di vita divina, definitiva, escatologica.

Zaccheo mostra esternamente, alla “casa dove rimane Gesù” – cioè il popolo messianico che egli sta creando progressivamente – la sua decisione di cambiamento di vita, di conversione.

Ma è la grazia “dolce e mite”, accogliente, di Gesù quella che lo ha prevenuto nel “vederlo dal basso verso l’alto”, nel “vederlo di nuovo”/anablepō.

La grazia mite e preveniente di Gesù lo ha fatto sentire accolto come persona dotata di nome, seppur non approvato nel suo male oggettivo.

Gli ha dato tempo. È rimasta con lui. Nella sua casa.

Il cardinale di Bologna Matteo Zuppi ha detto un giorno: «Andrò oltre l’ultima fermata dell’ultimo tram della sera».

L’evangelizzazione è cosa del cuore.

Gesù ha portato a Zaccheo il vangelo, la buona notizia.

Oltre l’ultima fermata dell’ultimo tram della sera.

Una fermata considerata insuperabile perché disdicevole e scandalosa, costosa e “sporca”.

La grazia punta l’uomo.

Con amore.

Il resto tocca a lui.

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