V Per annum: Una giornata di Gesù, medico e maestro

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Che il male, in tutte le sue forme, sia un problema è un’evidenza tale che non ha bisogno di nessuna spiegazione. È una domanda che resta sospesa nel vuoto e, soprattutto quando ci si trova immersi, le parole che tentiamo di trovare per darvi una risposta ci si spengono sulle labbra. Diventano futili, quando non addirittura irritanti, e il silenzio finisce per apparire un atteggiamento almeno più rispettoso.

Il grande poeta inglese del ’600, John Milton, scrisse il suo immenso poema che intitolò Paradiso Perduto con l’ambizione di «giustificare il comportamento di Dio» di fronte al male, e finì, forse inconsciamente, col fare di Satana il vero “eroe”, dipinto con i toni del reale protagonista.

Ma basterebbe la Bibbia per ricordarci che quanto in essa si racconta è, non a caso, una “storia della salvezza”, dato che il meraviglioso progetto di Dio si guasta quasi subito, e si sa quanto furono – e sono – tortuose e faticose le strade intraprese per porre riparo alla rovina “originale”, chiamata così perché avvenne fin dagli inizi, ed è rimasta iscritta nella natura umana come elemento radicale.

Marco nel suo vangelo ci illustra proprio il problema del male e come Gesù prende posizione nei suoi confronti. Se domenica scorsa abbiamo assistito allo “scontro” che oppone “lo spirito impuro” a Gesù non appena egli appare nella sinagoga, oggi il brano evangelico ci presenta per così dire una giornata di Gesù, il suo modo di occupare il tempo insieme ai suoi discepoli, diventando anche in questo una “scuola” per noi.

Come amava ripetere Isacco della Stella, un grande cistercense del sec. XII, Gesù è sempre per noi “medico e maestro”, guarisce e insegna, il binomio essendo la quintessenza della sua azione, con i due elementi così intrecciati che non importa quale sia nel tempo quello che precede; ciò che conta è capire che non c’è mai l’uno senza l’altro. Gesù porta la cosa nel suo stesso nome: è il “salvatore”.

A scuola da Giobbe

Quando si affronta l’argomento del male è inevitabile cominciare da Giobbe, la cui figura ne fa l’incarnazione stessa della sofferenza, portata nella sua carne a livelli di delirio. Le sue parole (Gb 7,1-4.6-7), che ascoltiamo oggi, non sono un elegante trattatello che spiega cosa sia il male e come se ne venga fuori, anzi!

A tutti gli “amici” che vengono a cercare di confortarlo con eleganti discorsi, dice chiaro e tondo cosa pensa. A uno: «Ne ho udite già molte di cose simili! Siete tutti consolatori molesti» (Gb 16,2). A un altro: «Quando porrai fine alle tue chiacchiere? Rifletti bene e poi parleremo» (Gb 18,2). A tutto il gruppo: «Fino a quando mi tormenterete e mi opprimerete con le vostre parole? Sono dieci volte che mi insultate e mi maltrattate in modo sfacciato» (Gb 19,2).

Il brano di oggi piuttosto fa parlare Giobbe per metafore su cui conviene un po’ indugiare, perché sono di un’efficacia straordinaria. Sono tre, in cui la vita è descritta come «lavoro di uno schiavo», come «notte», e i giorni sono paragonati al «filo» che, come il soffio, scorre veloce su una spola sfuggendo al controllo.

La prima mi fa pensare a ciò che proviamo quando il lavoro che svolgiamo, qualunque esso sia, appare uno sforzo futile ed effimero, che non serve a niente e a nessuno, e al posto della sospirata “ombra” (si pensi al contadino o al muratore) e del “salario” (si pensi alle masse di poveri e di immigrati costretti a lavori faticosi con paghe, se ci sono, da fame), si ricevono pesci in faccia.

La seconda lavora sull’immagine della “notte”, una metafora che raccoglie tutto quanto ci crea ostacolo a livello fisico e mentale, quella vissuta nell’inquietudine rigirandosi nel letto, che ha il suo lato peggiore – come ricorda Giobbe – nel suo essere “lunga”, e ciò che la rende interminabile è proprio il non vedere niente e nessuno, e la solitudine profonda dalla quale sembra che non ci sia via di uscita.

La terza metafora, al contrario, mostra un ritmo velocissimo, ma è quello della spola che rende i giorni materia fluida, inconsistente e ingovernabile, come se davvero la vita ci scappasse dalle mani. È un’esperienza diventata diffusa nel tempo che stiamo vivendo. La conclusione è amara: «Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene».

Esercitare la gratuità

La seconda lettura (1Cor 9,16-19.22-23) ci presenta l’esempio di Paolo, che descrive il suo vissuto in ben altri termini, costruendo per così dire un “contraltare” da accostare a ciò che ci è stato presentato in Giobbe. Nelle sue mani la vita diventa un’esperienza ricca di frutti.

Tutto cambia nella sua prospettiva, che non è quella di Giobbe, perché egli ragiona a partire da un altro presupposto: quello per cui la vita gli è stata data da Dio, così come la sua missione, e dunque non attende altra ricompensa che non sia fare ciò che gli è stato chiesto. È l’apoteosi della “gratuità”.

Paolo si sente in primo luogo sostanzialmente un “annunciatore del vangelo”, che non vuol dire “fare la predica”, che poi non sarebbe un gran problema, ma testimoniare con la parola e con la vita che l’essenza della buona notizia è “dare senza chiedere salari di sorta”. Mai parola più bella di questa fu detta da lui: «Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo»!

Non è un principio antisindacale: i diritti di chi lavora sono sacrosanti, e vanno promossi e difesi. Ma quanto dice l’apostolo è che, soddisfatte le necessità primarie, esiste per tutti uno spazio dove esercitare la “gratuità”, perché proprio ciò impedisce di mettere “tutto” il mondo sotto la regola dell’ingordigia, che è la radice di tutti i mali (cf. 1Tm 6,10).

Alla fine, la migliore risposta al problema del male non è scrivere un bel libro o fare tavole rotonde con filosofi e teologi per discutere il problema, ma «farsi tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno».

In azione contro il male

Il brano di vangelo (Mc 1,29-39) completa quello letto domenica scorsa, nel quale Gesù era apparso come “maestro”, mentre questo descrive l’attività pomeridiana, dove egli appare come “medico”. Interessante che, con il “subito” – avverbio prediletto di Marco – non c’è interruzione né distinzione alcuna tra i due aspetti del ministero di Gesù.

I discepoli lo accompagnano, lo ascoltano, lo osservano, e si mettono così alla sua scuola. Sono loro a segnalare la malattia della suocera di Simone-Pietro, ed egli la guarisce, «prendendola per mano». Non c’è neanche il tempo di festeggiare la guarigione: «ella si mise a servirli»!

Non credo sia difficile cogliere il significato parabolico della cosa: è l’atteggiamento di servizio la vera guarigione, che fa passare la persona da uno stato di paralisi a una disponibilità sollecita e pronta. «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» dirà Gesù (Mt 10,8), e questa è sempre la prima e più rilevante vittoria sul male che affligge il mondo.

La gente l’ha capito, e «dopo il tramonto gli portarono tutti i malati e gli indemoniati». Come è innamorato del “subito”, Marco ama altrettanto il “tutti”, per indicare la velocità e l’ampiezza del ministero di Gesù. Sono due degli aspetti, tra i tanti, che fanno dire ai suoi uditori, come ai suoi lettori: «Chi è costui?», interrogativo che potrebbe essere il vero marchio che caratterizza il secondo vangelo.

Ma non è finita. «Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava». Ricordo, quando mi trovavo nella route estiva con gli scout, la bellezza e l’incanto di pregare le Lodi nella calma dell’alba, osservando il miracolo del lento crescere e dilatarsi della luce con una profonda sensazione di pace che ti entrava nella pelle, quando pareva che il male non esistesse più.

Ma, come l’episodio della Trasfigurazione insegnerà, questi momenti sono “soste”, provvidenziali e necessarie, ma passeggere. Marco mette in scena i discepoli, che ricordano al Maestro: «Tutti ti cercano!». E Gesù non si sottrae alla richiesta ma, mostrando che lui non è nato per fermarsi ma per camminare, risponde: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là: per questo infatti sono venuto!».

Non per niente i discepoli saranno chiamati da Luca «i seguaci della Via» (At 9,2), e non della “dottrina”, come era scritto prima nella Bibbia, forse nel tentativo di rendere comprensibile l’immagine, di fatto però imbalsamandola e distruggendola.

E il senso di questa giornata-tipo trascorsa a Cafarnao, viene riassunto nella conclusione: «E andò per “tutta” la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni», che tra l’altro collega questa giornata di Gesù con la missione consegnata ai discepoli nel finale del vangelo: Mc 16,16-17.

La lezione della liturgia odierna è molto chiara. Non si risolve il problema del male con sillogismi ben costruiti, né con discorsi elaborati secondo una retorica elegante, che può risultare alla fine solo fastidiosa e irritante. La risposta più concreta è “operare” per eliminare il male per quanto sta in noi, e nell’offrire affettuosa prossimità a chi se ne trova immerso e fatica a sostenerlo.

E, contro gli effetti deprimenti indotti da quelle forme di male che sono la cattiveria e la stupidità, di cui – come ha osservato Bonhoeffer – la seconda è peggiore della prima, non resta che mantenere la memoria nel grembo caldo della misericordia di Dio, «grazie alla quale non siamo annientati, perché essa ci viene incontro, ci segue, ci circonda, ci perdona, ci incorona» (Lancelot Andrewes, Una guida per la preghiera, Qiqajon 2015, p. 201).

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