II Natale: Nel quieto silenzio

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Temo che nell’attuale cultura del fracasso, di suoni, di parole e di immagini che ci avvolgono con un ritmo torrenziale, un invito al silenzio suoni come una stranezza, per non dire una civetteria destinata ad alcune anime elette che non sanno stare al passo dei tempi. Per fortuna il linguaggio della liturgia, e prima ancora della Bibbia, ci soccorre e diventa una vera e propria àncora di salvezza. Perché il silenzio non è necessariamente esperienza del nulla e del vuoto, ma soprattutto la condizione per poter “ascoltare” il più grande dono che ci viene fatto dal cielo, perché «mentre la notte giungeva a metà del suo corso, il tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo, dal tuo trono regale» (Sap 18,14-15).

Questa affermazione, non so ancora il perché, mi si è fissata nella mente quando era ancora adolescente, quando la liturgia era ancora in latino. Forse era una mia reazione ai botti di Capodanno, che non ho mai amato, forse il bisogno di calma tranquilla dopo l’agitazione di troppe feste. Non lo so. Ma ricordo che ho provato la stessa sensazione di “respiro” quando ho trovato nel Mercoledì delle Ceneri di T.S. Eliot una splendida parafrasi della stessa affermazione che apre la liturgia odierna: «E la luce splendette nelle tenebre e / Contro la Parola l’inquieto mondo quieto ruotava / Attorno al centro della Parola silente. […] Dove troveremo la parola? Dove potrà la parola / Risuonare? Non qui, non c’è abbastanza silenzio / Non sul mare o sulle isole, / Non sulla terraferma, nel deserto o nella terra della pioggia, / Per quelli che camminano nelle tenebre / Sia durante il giorno che durante la notte / Il tempo giusto e il luogo giusto non sono qui / Non c’è luogo di grazia per quelli che evitano il volto / Non c’è tempo di gioia per quelli che camminano nel chiasso e negano la voce».

Eliot non è un poeta facile, e va letto con estrema attenzione. Ma è evidente che il contrasto tra luce e tenebre, che ha fatto il centro della riflessione sul Natale, si riflette in quello tra Parola e parole, dove l’alternanza tra maiuscola e minuscola serve al poeta per farci attenti alla distanza che c’è tra le parole della rivelazione che sono sempre inadeguate (e tanto più lo sono le nostre che le ripetono e le spiegano), e la realtà sempre e solo parzialmente raggiungibile del Cristo, il Verbo, la Parola.

Ma il punto è sapere e credere che questa Parola è “nel mondo”, con le due reazioni contrastanti perché il mondo “inquieto” ruota quietamente sia “contro” sia “attorno al centro della Parola silente”.

Non è difficile vedere concretizzato in questo ossimoro la traduzione del Verbum in-fans, letteralmente “la parola che non parla”, una delle tante metafore esplorate nella letteratura patristica e monastica che servono a illustrare come, nel Figlio, Dio si è “ridotto” fino all’estremo per condividere in tutto la condizione umana.

C’è un’ultima osservazione da fare: per percepire la parola con l’ascolto attento, e soprattutto per “capirla”, nel senso di “prenderla dentro di noi”, non basta il silenzio, ma bisogna già camminare nella luce, perché, come dice bene il poeta: «Non c’è abbastanza silenzio per quelli che camminano nelle tenebre» e ancora «Non c’è tempo di gioia per quelli che camminano nel chiasso e negano la voce». Chiasso e tenebre fanno tutt’uno. E, quello che è più grave, chi perde la Parola perde anche, e soprattutto, il “volto”! Continua così la riflessione iniziata con la “benedizione” del Capodanno.

La Sapienza e il Verbo

La prima lettura (Sir 24,1-14.12-16) è l’elogio che fa di sé la Sapienza. Nel vangelo troveremo la presentazione del Verbo. Non fu difficile vedere nella personificazione della Sapienza l’anticipazione della figura del Verbo. La caratteristica principale che lega Sapienza e Verbo è che il processo di avvicinamento di Dio alla sua creazione fa in queste due figure passi da gigante, a partire dal fatto che, come la Sapienza riceve l’ordine di «piantare la sua tenda in Giacobbe», così il Verbo «si fece carne e piantò la sua tenda tra noi», rimanendo per sempre (vedi sopra Eliot) con gli uomini.

San Bernardo si è realmente inebriato di questa formula, che ricorre più volte nei suoi sermoni per il ciclo natalizio, di cui la seguente è la più concisa: «venne tra gli uomini, venne per gli uomini, venne come uomo» (Sermone III,1 per l’Avvento,). Si noti la splendida gradazione affidata a tre preposizioni. O, per citare un altro passo: «Sono confitto, dice, nel fango profondo (cf. Sal 68,3), non sono passato oltre, non mi sono tirato indietro; sono con voi sino alla fine dei secoli» (Sermone IV,7 per la Vigilia).

La stabilità di questa Sapienza-Verbo tra noi è ancora maggiormente enfatizzata dalla conclusione del brano: «Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore è la mia eredità, nell’assemblea dei santi ho presto dimora». Dio non solo si avvicina alla storia, ma vi entra.

La “teologia simbolica”

Con la seconda lettura (Ef 1,3-6.15-18) viene ripreso il tema della “benedizione”, la nostra, con la quale rispondiamo ai benefici che ci ha regalato quella di Dio. Che dire? Il brano è un capolavoro di quella che è chiamata “teologia dossologica”, che si trova spesso nei Padri orientali, ma non solo, una teologia che, più che argomentare, proclama, loda, inneggia, canta.

Più che commentare, rischiando di rovinare la bellezza del testo, mi preme annotare il valore e il pregio di quella che è anche chiamata “teologia simbolica”, che Isacco della Stella (XII secolo) considera superiore alla “teologia razionale”, tipica della Scolastica, da lui definita «povera e angusta». Egli considera superiore la “teologia simbolica”, la quale, più che con la ragione, lavora con i sensi e si esprime per metafore (Serm. 22,9).

Otto secoli dopo uno dei grandi teologi del ’900 scrive: «Che la rivelazione sia stata fatta così abbondantemente in immagini e racconti ha un suo significato. Essa non mira a renderci sapienti su ciò che Dio è, come possiamo essere sapienti sulla composizione chimica dei corpi, bensì a indicarci il nostro vero rapporto religioso con Dio. […] Il simbolo è il luogo e il mezzo di espressione di realtà che il concetto, per poterle precisare, fa a pezzi. Esso si presta anche a sottolineare la trascendenza delle realtà spirituali rivelate» (Y. Congar, La parola e il soffio, pp. 14-15). Tra l’altro, quando si dice che Maria «custodiva queste cose, meditandole nel suo cuore», faceva esattamente questa operazione, perché il verbo tradotto con “meditava” è il greco symbállein, da cui l’italiano simbolo, che significa “accostare, mettere insieme, confrontare”, esattamente l’operazione così ben illustrata da Congar.

Ecco perché il testo di Efesini ci offre abbondante materia per “contemplare” e avere così «uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza del Dio di Gesù Cristo» così che con gli occhi del cuore comprendiamo la grande speranza a cui siamo stati chiamati.

Il Verbo, “la luce degli uomini”

Il brano evangelico (Gv 1,1-18) fa il pendant con la lettera agli Efesini. Proprio questa sua peculiarità, e nel timore che le parole scivolassero sulla testa degli uditori presenti alla messa delle 11.30, dopo aver spiegato brevemente il problema, chiesi all’assemblea di ripetere dopo di me ogni versetto, facendone così una lettura corale. Ci fu sorpresa, ma penso che sia stata una buona idea. La pagina era già stata proclamata a Natale nella messa del giorno, quasi un segno della pienezza di luce raggiunta nell’incarnazione, in relazione con “la pienezza del tempo”.

Da che parte cominciare? Visto che la dimensione dossologica della preghiera è già stata esercitata, si potrebbe partire da una prospettiva più decisamente morale, dove per un’omelia già fatta che ci coinvolge immediatamente, potremmo trarre spunto da una frase sola, in cui si trova una sintesi perfetta dell’incarnazione e del suo aspetto drammatico: «In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini, la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta». Anche questa parola ci riconduce alla notte di Natale, e ci ricorda come dobbiamo camminare nei giorni che ci saranno concessi nell’anno appena iniziato.

Parlando di “luce” e di “vita”, mi vengono alla mente le due situazioni che spengono in noi la luce e la vita e ci conducono a sbagliare. L’errore arriva dal confondere un bene fasullo con quello vero e, quand’anche fossimo arrivati a comprenderlo, dal non avere forza sufficiente per realizzarlo. Sono le immagini collegate con il termine ebraico che indica il peccato: la freccia scoccata dalla nostra volontà fallisce o perché sbaglia bersaglio o perché non ha la forza di raggiungerlo.

La luce di cui abbiamo bisogno, dunque, è il discernimento che ci aiuta a distinguere il bene vero da quello fasullo, e la vita è la capacità di fare il bene vero che abbiamo intravisto. Come chiede una delle splendide collette dei secoli d’oro della creazione liturgica, prevista per la prima domenica del tempo ordinario, che di fatto scompare perché inghiottita dalla festa del Battesimo di Gesù. Ma per chi usa la Liturgia delle Ore, la si ritrova nei giorni della settimana, e mi pare utile riportarla qui: «Accompagna, ti preghiamo, o Signore, con la tua pietà celeste, i desideri del tuo popolo che ti supplica, perché veda ciò che deve essere fatto, e sia in grado di realizzare ciò che ha visto».

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