XIX Per annum: Da un figlio di falegname il pane del cielo?

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Per 54 volte, nel Corano, ebrei e cristiani sono chiamati Genti del libro e 230 volte vi ricorre la parola libro, nel senso di testo contenente la rivelazione di Allah. Tuttavia, è un termine ambiguo perché a volte indica il libro di Mosè, altre volte i libri in cui si parla di Abramo e della sua discendenza, di Giovanni figlio di Zaccaria, di Gesù e di sua madre Maria; altre volte per libro si intende semplicemente il Corano, come si può rilevare fin dalla presentazione: “Ecco il libro! Il libro guida sicura – non c’è dubbio al riguardo – per coloro che temono il Dio”.

Secondo un’interpretazione diffusa fra i musulmani, Dio ha fatto discendere sulla terra, sotto forma di dettatura ai suoi profeti, diversi libri contenenti la sua parola: la Toràh, il Vangelo, i Salmi e il Corano. Non deve quindi destare meraviglia se si sente un musulmano ripetere: “Anch’io credo nella Bibbia”.

Al di là delle molteplici convergenze fra musulmani e cristiani, non va trascurata una differenza sostanziale. Per i musulmani la rivelazione di Dio si è incarnata nel Corano; la parola di Allah è divenuta libro alla Mecca. Per i cristiani la parola di Dio non si è fatta libro, ma carne, a Nazaret.

Un giorno il Signore ordinò a Ezechiele: “Figlio dell’uomo, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele” (Ez 3,1). Era l’invito ad assimilare il messaggio contenuto in un libro. La stessa immagine fu impiegata da Geremia “Quando le tue parole mi vennero incontro – confessa il profeta – le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore” (Ger 15,16).

Come i profeti, come i musulmani, anche il cristiano ha fame della sapienza di Dio. La trova in un libro, sì, ma non è un libro, è una persona, è Gesù di Nazaret, il pane della vita.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Beati coloro che hanno fame e sete della Parola del Signore fattasi carne”.

Prima Lettura (1 Re 19,4-8)

In quel tempo Elia 4 si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”. 5 Si coricò e si addormentò sotto il ginepro.
Allora, ecco un angelo lo toccò e gli disse: “Alzati e mangia!”. 6 Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi.
7 Venne di nuovo l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: “Su mangia, perché è troppo lungo per te il cammino”. 8 Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.

L’archeologia conferma che il regno Acab (874-853 a.C.) fu uno dei più prosperi di Israele. Acab fu un sovrano abile e accorto, fortificò le città di Meghiddo e di Hazor dotandole di porte monumentali, mura poderose, ampi magazzini e impressionanti sistemi per l’approvvigionamento d’acqua che rimangono ancora oggi. Favorì il commercio, stipulò alleanze con i popoli vicini, costruì palazzi lussuosi, decorati con avori scolpiti secondo lo stile artistico egiziano. Eppure, su di lui la Bibbia pronuncia un giudizio severo: “Nessuno si è mai venduto a fare il male agli occhi del Signore come Acab, istigato dalla propria moglie Gezabele. Commise molti abomini, seguendo gli idoli” (1 Re 22,25-26).

Gezabele era la giovane, tanto affasciante quanto perfida, figlia del re di Tiro. Era giunta in Samaria accompagnata da uno stuolo di profeti di Baal e Astarte e, con lusinghe e malie, aveva indotto il marito ad erigere un tempio a queste divinità, adorate in Fenicia e ritenute dispensatrici di fecondità nei campi e negli animali. Fu l’inizio, in Israele, della corruzione religiosa, della dissolutezza morale, delle ingiustizie sociali che culminarono in crimini come l’uccisione di Nabot (1 Re 21) e in pratiche orrende come i sacrifici umani (1 Re 16,34).

Inaspettatamente, ecco apparire sulla scena un uomo coraggioso e risoluto che osa sfidare Gezabele, la regina che è all’apice del potere e può disporre a piacimento del sigillo del re. È Elia, il profeta venuto da Tisbe, una città situata a oriente del Giordano. Le sue parole sono sferzanti, le sue denunce bruciano come fuoco (Sir 48,1); minaccia, invoca castighi del cielo, compie prodigi e, per tre anni, ordina alla pioggia di non irrorare la terra; sfida i profeti di Baal sul monte Carmelo e li vince (1 Re 18), ma, alla fine, deve arrendersi; Gezabele è troppo forte e lo cerca ovunque per toglierlo di mezzo. Si sente solo, abbandonato da tutti, è convinto che tutto il popolo abbia tradito il Signore e abbia seguito Baal e Astarte.

Non ha scelte, si deve rassegnare alla sconfitta. Prima si nasconde, poi fugge verso sud; vuole raggiungere il monte di Dio, l’Oreb, dove Mosè, quattrocento anni prima, ha incontrato il Signore. Per non cedere alle lusinghe di Acab e alle minacce di Gezabele, ha bisogno di una fede solida e, per irrobustirla, decide di ripercorrere il cammino di Mosè.

Parte, ma la traversata del deserto è impegnativa e le difficoltà quasi insormontabili, resiste fin che può, ma poi, sfiduciato, si deve arrendere. È a questo punto che inizia la nostra lettura.

Elia si siede sotto un albero e invoca la morte. Signore – implora – adesso basta! Per me è meglio morire, io non sono migliore dei miei padri; se essi hanno fallito, non posso illudermi di riuscire io a spuntarla, le mie parole non avranno mai un impatto significativo sulla realtà sociale e politica e sulle scelte religiose del mio popolo (v. 4).

Ha bisogno di forza Elia e il vigore lo dà il cibo, il pane, e il Signore glielo fa trovare. Si noti bene: Dio non sottrae alla prova il suo profeta, non lo solleva dalla fatica, non lo dispensa dal duro viaggio, facendolo trasportare, miracolosamente, da un angelo. Il deserto deve essere attraversato e le difficoltà affrontate. Gli offre l’alimento necessario e questo basta.

Il brano conclude: “Con la forza datagli da quel cibo, Elia camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb” (v. 8).

In questo contesto il numero quaranta richiama i quarant’anni trascorsi da Israele nel deserto ed è il simbolo dell’intera vita.

La vicenda di Elia è la nostra. Ci sono momenti in cui ci sentiamo, come il profeta, intimamente delusi e non troviamo conforto neppure in Dio, nella fede, nei fratelli della comunità. Conflitti, incoerenze, pettegolezzi, invidie, meschinità sono motivi di abbattimento, inquietudine e, a volte, persino di disperazione.

Dio non si dimentica di noi, è sempre al nostro fianco, ci accompagna come ha fatto con Elia. Non ci esenta dal lavoro, non si sostituisce a noi; quando siamo stanchi non ci carica sulle spalle, ma ci indica il cammino da percorrere e non ci lascia mancare il pane che ridona vigore.

Non pensiamo subito al pane eucaristico del quale parleremo la prossima domenica. L’alimento che, in ogni circostanza della vita, dona forza e infonde coraggio è la parola di Dio. Quando ci si trova in difficoltà, quando si è demoralizzati e avviliti per ciò che accade nel mondo e nella chiesa, forse ci sfoghiamo con qualche amico, andiamo a piangere sulle spalle di qualcuno, convinti di trovare aiuto e conforto. Dimentichiamo che è il pane della Parola che dona luce, consolazione e speranza.

Seconda Lettura (Ef 4,30-5,2)

30 E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione.
31 Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. 32 Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.
5,1 Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, 2 e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore.

Per evitare che potessero fuggire, sulla pelle degli schiavi era impresso un marchio a fuoco, indelebile, segno della loro definitiva appartenenza a un padrone.

Paolo ricorre a questa immagine per definire la condizione del cristiano. Nel battesimo il discepolo ha ricevuto, dal fuoco dello Spirito santo, un sigillo che dimostra la sua appartenenza a Dio (v. 30).

Da questa sua nuova realtà derivano conseguenze morali, formulate dall’autore della Lettera agli efesini prima in forma negativa, poi in forma positiva: ci sono vizi che devono essere evitati (v. 31) e virtù che vanno praticate (v. 32).

I vizi elencati sono sei e, questo va tenuto presente, riguardano tutti il mancato controllo della lingua. Nel versetto che precede la nostra lettura, è stato raccomandato: “Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca, ma solo parole buone” (v. 29).

Vale la pena di passare brevemente in rassegna questi vizi perché, spesso, nelle comunità cristiane, si creano tensioni e si registrano scandali perché non ci si rende nemmeno conto della gravità di questi peccati.

L’asprezza si riferisce alle parole offensive di chi si ritiene superiore agli altri e sfoga sui più deboli che gli stanno accanto il proprio nervosismo, le proprie delusioni e insoddisfazioni. È un vizio che si manifesta frequentemente nei rapporti fra familiari.

Lo sdegno è la reazione aggressiva di chi si sente offeso o privato di qualcosa che gli spetta. Se vede lesi i propri diritti, non solo non misura più le parole, ma passa anche a vie di fatto.

L’ira si manifesta nelle espressioni offensive di chi coltiva nel proprio cuore rancori e desideri di vendetta ed è incapace di dominare i propri impulsi primitivi e violenti.

Per clamore si intendono le urla delle risse, delle liti, delle furiose discussioni.

La maldicenza indica il pettegolezzo, il piacere morboso di divulgare il male, gli errori, le debolezze degli altri.

Nel termine malignità sono compresi tutti gli altri vizi che sarebbe lungo elencare.

La parte positiva chiarisce quale deve essere il comportamento del cristiano: benevolo, mite e, soprattutto, ispirato a sentimenti di misericordia, che è la prima delle caratteristiche di Dio (Es 34,6).

L’autore conclude le sue raccomandazioni invitando il cristiano a imitare Dio, suo padre, e a praticare l’amore vicendevole, sull’esempio di Cristo che ha dato se stesso per noi (5,1-2). In Gesù l’amore del Padre si è reso visibile e costituisce, per ogni figlio, un invito a seguirne le orme.

Vangelo (Gv 6,41-51)

41 I giudei mormoravano di Gesù perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. 42 E dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?”.
43 Gesù rispose: “Non mormorate tra di voi. 44 Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 45 Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. 46 Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. 47 In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna.
48 Io sono il pane della vita. 49 I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; 50 questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.
51 Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.

Nell’ultima parte del brano della scorsa domenica, abbiamo udito Gesù dichiarare: “Io sono il pane della vita”. Egli è “pane” in quanto sapienza di Dio. Chi assimila la sua proposta sazierà la fame e la sete di felicità e di amore (Gv 6,35).

Di fronte a questa pretesa inaudita, i giudei reagiscono nel modo più risoluto. Sono convinti di essere già in possesso del “pane” che sazia: la Toràh, la parola del Signore contenuta nelle sacre Scritture. Il Siracide ha chiaramente indicato il cibo e la bevanda offerti da Dio al giusto: “Lo nutrirà con il pane dell’intelligenza, lo disseterà con l’acqua della saggezza” (Sir 15,3). Israele non ha bisogno di altro pane e non può ammettere che un uomo proponga se stesso quale “pane della vita”.

Sconcertati, i giudei non si rivolgono direttamente a Gesù, ma mormorano tra di loro: “Costui non è forse il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: sono disceso dal cielo?” (vv. 41-42).

Mormorare non significa sollevare qualche riserva, ma contestare, rifiutare l’affermazione provocatoria e scandalosa che hanno udito. È inaccettabile che Gesù pretenda di incarnare la sapienza di Dio, di riprodurre nella propria persona il Signore tre volte santo.

Chiariremo l’identità di questi interlocutori, designati da Giovanni come giudei, ma prima dobbiamo capire bene il significato della loro obiezione. Come può Gesù essere il pane della sapienza di Dio discesa dal cielo?

 “Dio non l’ha mai visto nessuno” (Gv 1,18) e non può nemmeno essere visto, riferiscono molti testi della Bibbia (Es 33,20; 1 Tm 6,16). Eppure, lungo i secoli, gli uomini hanno sempre provato un ardente desiderio di incontrarlo, di conoscere la sua volontà e i suoi progetti sul mondo (Es 33,18).

Hanno cominciato a scorgere qualche tratto del suo volto quando, alzando gli occhi, hanno contemplato “il fuoco, il vento, l’aria sottile, la volta stellata, l’acqua impetuosa e i luminari del cielo” (Sap 13,2), sono rimasti stupiti dalla loro bellezza e sono giunti a scoprirne l’autore. “Ciò che di Dio si può conoscere, Dio stesso lo ha manifestato. Infatti, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate, con l’intelletto, nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità” (Rm 1,19-20).

Ma Dio non si è limitato a rivelare se stesso attraverso il creato. Nella pienezza dei tempi, si è presentato nel mondo. Ora è possibile vederlo, toccarlo, ascoltarlo in un uomo, Gesù di Nazaret, che è il volto umano di Dio; chi vede lui “vede il Padre” (Gv 14,9-11).

I giudei mormorano, cioè, si rifiutano di seguire questo cammino che porta a Dio. Ritengono inconcepibile che un uomo possa avanzare la pretesa di rendere presente il Signore, sono spaventati dall’idea di un Dio che si fa uomo, convinti che l’Onnipotente abbia il suo trono nei cieli, viva lontano dal mondo e manifesti la sua maestà e la sua forza attraverso interventi prodigiosi e voci arcane. Non concepiscono che si riveli in un uomo debole e fragile, in un figlio di falegname.

Gesù riconosce che nessuno ha visto il Padre (v. 46), ma indica il modo per poterlo contemplare; assicura che si può vedere Dio attraverso di lui, osservando ciò che egli fa, chi frequenta, chi rimprovera, chi difende, a chi si avvicina, chi accarezza, da chi si lascia toccare, da chi si lascia baciare… perché i suoi i gesti, le sue scelte, le sue preferenze sono quelle del Signore.

Per qualcuno l’umanità di Cristo è l’intermediario che conduce a Dio, per altri è un impedimento. Oggi, come in passato, le prese di posizioni di fronte a lui si diversificano: si va dall’accoglienza entusiasta, all’indifferenza, al rifiuto, all’opposizione astiosa.

Per cogliere il messaggio del brano, è importante identificare gli interlocutori di Gesù. L’evangelista li chiama giudei.

Siamo in Galilea e risulta davvero strano che Giovanni chiami giudei gli abitanti di Cafarnao, che sono galilei, gente che conosce bene l’origine e la famiglia di Gesù.

Nel vangelo di Giovanni, il termine giudei non ha una connotazione etnico‑geografica, ma teologica. Indica chiunque assuma un atteggiamento ostile a Gesù e si rifiuti di credere che egli è la rivelazione piena e definitiva di Dio

Non è la reazione del popolo giudaico di duemila anni fa che interessa all’evangelista; ciò che gli preme è far capire ai suoi lettori che oggi essi sono posti di fronte a un’alternativa e devono scegliere fra la sapienza del vangelo, che è pane di vita, e l’astuzia del mondo, che è veleno di morte. Oggi essi sono invitati a credere che in Cristo è presente tutta la sapienza di Dio.

Purtroppo, oggi, come allora, molti si limitano a riconoscere in Gesù l’uomo saggio che ha indicato vie di giustizia e di pace, uno dei tanti profeti, forse anche il maggiore dei profeti, ma, pur stimandolo, lo ritengono un semplice uomo, “il figlio di Giuseppe” e non si rendono conto, o si rifiutano di accettare, che egli è l’Unigenito del Padre (Gv 1,14); non credono che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).

Perché questo accade, qual è la radice dell’incredulità?

A questo enigma si risponde nella seconda parte del brano di oggi (vv. 43-47).

Qualcuno si ciba della parola di Cristo, pane di vita, qualche altro esita o è incapace di comprenderla. La ragione – spiega Gesù – è che nessuno può andare a lui, se non lo attira il Padre che lo ha mandato (v. 44). La scoperta del “pane del cielo” non è una conquista dell’uomo, ma un dono gratuito del Padre.

Come mai questo dono non è offerto a tutti? Dio favorisce forse alcuni e ostacola altri? A qualcuno fa incontrare il “pane del cielo”, ad altri lo rifiuta?

Dio dà a tutti la possibilità di conoscerlo: “Tutti saranno ammaestrati da Dio” – risponde Gesù (v. 45).

Il riferimento è all’oracolo del profeta Geremia che ha annunciato: “Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande” (Ger 31,34).

L’istruzione che il Signore dà a tutti è il suo Spirito, l’impulso divino che agisce nell’intimo di ogni uomo e lo sospinge sulle vie della vita. Purtroppo non sempre e non tutti lo assecondano, non tutti apprendono i suoi ammaestramenti, sono docili ai suoi impulsi; “solo chi impara da lui” accoglie Gesù (v. 45).

La domanda da porsi quindi è una sola: mi lascio istruire dallo Spirito di Cristo oppure, come i giudei del tempo di Gesù, rifiuto il “pane del cielo” e preferisco cibi di morte?

Fino a questo punto del suo discorso Gesù non ha ancora invitato i suoi ascoltatori a “mangiare” il pane disceso dal cielo. Si è limitato a identificare se stesso con questo pane. Nell’ultima parte (vv. 48-51) del brano egli, per la prima volta, dichiara che, per avere la vita, è necessario mangiare il pane che è la sua carne.

La manna che gli israeliti gustarono nel deserto non comunicò la vita piena, infatti, morirono tutti. Solo chi mangia il pane venuto dal cielo vivrà in eterno.

Per non equivocare sul senso dell’invito di Gesù a mangiare “la sua carne” bisogna tenere presente cosa significa, nel vangelo di Giovanni, questo termine. Nella concezione semitica la carne non si identifica con i muscoli, indica la parte debole, fragile, precaria della persona, si riferisce a tutto l’uomo in quanto destinato alla morte. Dio sente compassione degli uomini – dice il salmista – perché “ricorda che essi sono carne, un soffio che va e non ritorna” (Sl 78,39). Quando, nel prologo del suo vangelo, Giovanni afferma: “Il verbo si fece carne” (Gv 1,14), non si riferisce al fatto che il Figlio di Dio ha assunto le sembianze esteriori di un uomo, ma che si è fatto in tutto simile a noi, accogliendo anche gli aspetti più precari della nostra condizione.

Mangiare questo Dio fattosi carne significa riconoscere che attraverso “il figlio del falegname” passa la rivelazione piena di Dio, significa accogliere la sapienza venuta dal cielo anche se la si vede rivestita di carne, cioè di tutti gli aspetti caduchi che caratterizzano la nostra debolezza umana.

Ribadiamo: non si parla ancora dell’eucaristia. Gesù si riferisce sempre al suo messaggio, al suo vangelo che gli uomini sono invitati ad assimilare, come pane, fino a costituire la loro stessa vita. Dell’intimo rapporto fra questa accoglienza della Parola ed il segno del pane eucaristico, si tratterà la prossima domenica.

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