XXI Per annum: Scegli!

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Le promesse di YHWH

Dopo l’insediamento di Giosuè (Gs 1,1-18) e i racconti della conquista (2,1–12,24), prima dei territori del sud e poi di quelli del nord, l’autore del libro riporta la divisione del paese (13,1–21,45: tribù a est del Giordano, Giuda, Giuseppe, altre sette parti fatte a Silo, le città rifugio e quelle levitiche) e poi la trattazione riguardante le tribù al di là del Giordano, con il ricordo dell’altare della testimonianza (22,1-34). Gs 23,1–24,33 narra, infine, dei discorsi d’addio e della morte di Giosuè. Sono le ultime disposizioni di Giosuè: il compito prosegue (23,1-16); solenne impegno delle tribù a Sichem (24,1-28); tre sepolture e conclusione del libro (24,29-33.

La chiave di volta teologica del libro è bene espressa in Gs 21,43-45: «Il Signore assegnò dunque a Israele tutta la terra che aveva giurato ai padri di dar loro, e gli israeliti ne presero possesso e vi si stabilirono. Il Signore diede loro tranquillità all’intorno, come aveva giurato ai loro padri; nessuno tra tutti i loro nemici poté resistere loro: il Signore consegnò nelle loro mani tutti quei nemici. Non una parola cadde di tutte le promesse che il Signore aveva fatto alla casa d’Israele: tutto si è compiuto».

Secondo il libro di Giosuè, il popolo di Israle è «un tutto compatto, sotto un’unica guida, fedele agli ordini impartiti da Dio… : YHWH realizza le sue promesse, donando una terra, che tuttavia si può perdere, se non si rimane a lui fedeli (cf. specialmente cc. 23–24)» (F. Dalla Vecchia, che seguiremo in questo commento).

La Legge ricevuta al Sinai rimane il punto di riferimento fondamentale. Israele dimostra la sua fedeltà al patto con YHWH, ma il libro si chiude con la previsione dell’infedeltà del popolo al Dio geloso. Come ha realizzato le benedizioni, egli può adempiere anche le sue maledizioni comprese nelle clausole del patto. Occorre che Israele sia riconoscente verso il Dio che lo ha salvato dalla schiavitù d’Egitto e gli ha donato il paese promesso.

Pentateuco ed Esateuco

Se il c. 23 sembra quasi una conclusione rissuntiva del libro di Giosuè, Gs 24 sembra essere stato pensato come una conclusione dell’Esateuco, i primi sei libri della Bibbia. Gs 24 ha una visione più ampia del libro del Deuteronomio, e prevede nel paese la presenza di dèi stranieri (vv. 14.23).

Giosuè promulga nei vv. 25-26 una legge supplementare, non prevista dal ruolo a lui assegnato nel c. 1. «Ciò ha indotto a ritenere che il c. 24 abbia avuto origine in un’epoca persiana da una cerchia deuteronomistica-sacerdotale che intendeva in tal modo promuovere la pubblicazione di un Esateuco: lo scopo di Gs 24 sarebbe stato di separare il libro da quelli successivi per collegarlo invece strettanmente ai precedenti.

A conferma di ciò depone anche il fatto che, alla fine del capitolo, Giosuè è presentato come un secondo Mosè: anche lui conclude un patto, emana leggi e decreti (24,25) e ha a che fare con un libro (24,26) denominato “libro della Legge di Dio” (titolo che ricorre altrove solo in Ne 8,18), che potrebbe essere un’espressione per designare l’Esateuco, in opposizione alla “Legge di Mosè”, titolo dato al Pentateuco» (F. Dalla Vecchia).

Per l’Esateuco il tema centrale è la terra, un tema caldo e pericoloso durante l’occupazione persiana. Il Pentateuco, invece, incentra la sua teologia sulla Torah di Mosè, conclusa fuori del paese. La “Legge di Mosè” è data per vivere nella terra, ma anche al di fuori di essa.

Sichem

Terminata la conquista bellica del paese, presentata dal libro come un’avanzata inarrestabile e trionfale, Giosuè raduna il popolo a Sichem e pronuncia i discorsi di addio conclusivi della sua traiettoria di guida di Israele. Si tratta di decidersi solo per YHWH.

Sichem aveva già visto dimostrazioni di lealtà verso YHWH (cf. Gen 35,1-4: il seppellimento degli idoli; Gs 8,30-35: l’altare). Sichem ha un ruolo decisivo nella tradizione delle tribù del nord (cf. 1Re 12,1), parallelo a quello di Hebron per quelle del sud (cf. 2Sam 5,1-3). La città è associata anche alla nozione di patto/berît: cf. Gdc 8,33; 9,4.46 (Ba‘al/E-Berit). Infine, se la composizione è di epoca persiana, la localizzazione a Sichem potrebbe essere dovuta al tentativo di facilitare l’accoglienza della Torah da parte dei samaritani.

Scegliere YHWH

Gs 24 si apre con una rassegna storica pronunciata da Giosuè a nome di YHWH, quale suo profeta. Con una prosa elevata Giosuè ricorda tutto ciò che YHWH ha fatto per Israele, ponendosi al centro di questa storia fin dall’inizio, fin dalla scelta di Abramo.

Dopo aver ricordato gli antenati (vv. 2-4), si rammenta l’esodo (vv. 5-7, le vittorie prima del passaggio del Giordano (vv. 8-10) e le conquiste nella terra promessa (vv. 11-13). YHWH è il protagonista delle vicende, mentre Israele deve riconoscere quanto YHWH ha fatto, per valutare adeguatamente il patto e quanto esso offre al popolo.

Il patto concluso al Sinai e il dono della Legge tramite Mosè non sono ricordati. Al Sinai ci fu reciprocità, qui il patto è frutto di una scelta. E questo è quel che preme a Giosuè.

Alla rassegna storica (Gs 24,1-13) segue, quindi, la ferma esortazione a scegliere YHWH (vv. 14-15) e un dialogo serrato fra Giosuè e il popolo (vv. 16-24). Questo si conclude (vv. 25-28) con il resoconto delle azioni compiute dal popolo a suggello dell’impegno assunto da Giosuè.

In Gs 24,14 egli invita con forza in prima persona il popolo a “temere/rispettare/yārē’” YHWH e a “servirlo/‘ābad” con “sincerità/integrità/tāmîm” e “fedeltà/’ĕmet” (i verbi sono al tempo imperativo), abbandonando gli idoli come aveva fatto Abramo e seguendo l’unico Dio (cf. Dt 6,10-15), senza cadere nuovamente nell’indifferenziato, perdendo la propria specificità.

I padri servirono gli idoli; Israele serva YHWH! Il verbo – ‘ābad – è lo stesso, è il Padrone che cambia… Il popolo deve “allontanare/eliminare” gli idoli serviti nel paese idolatrico d’origine e nella terra della schiavitù egiziana. Tempi di oscurità e di ignoranza, tempi di sottomissione forzata e di indottrinamento servile.

Israele è unico solo se aderisce all’Unico. L’identità di Israele è paradossale: essa dipende dalla fedeltà a un Dio che può anche sterminarlo. Per questo motivo la scelta deve essere fatta da ogni generazione (v. 15: “oggi”). Da questa decisione dipende la preservazione della propria identità.

L’alternativa è secca, senza un tertium a cui ricorrere. Se non si sceglierà YHWH, si dovrà scegliere fra gli dèi della Mesopotamia o tra quelli degli amorriti presenti nel paese. Si ripiomberà nella situazione precedente.

Non abbandoneremo YHWH!

“Non sia mai/ḥālîlāh lānû”! La risposta del popolo è secca e tagliente, entusiasta: non succeda mai che noi “abbandoniamo/mē‘ăzōb” YHWH per servire altri dèi.

Israele riconosce le grandi “opere/segni/’ōtôt” prodigiose compiute da YHWH: egli ha fatto “salire/‘ālāh” (nella coniugazione fattitiva hiphil) dalla prigione/casa di schiavitù dell’Egitto la generazione presente e i loro padri.

YHWH “ha preservato/custodito/šāmar” il suo popolo lungo tutto il cammino fatto e in mezzo a tutti i popoli fra i quali era passato.

YHWH ha fatto salire, ha custodito, ha scacciato/gārēš, nella coniugazione intensiva piel) gli ostacoli che si contrapponevano, esemplificati nel popolo amorreo. Il popolo non può che essere testimone delle opere di YHWH. Le ha viste, e per questo la scelta non può che essere una sola, molto facile: «Anche noi serviremo YHWH, perché è il nostro Dio» (v. 18c).

Quella del popolo è una vera e propria professione di fede.

Scegliere dovrebbe essere facile quando si riconoscono i segni della liberazione e della custodia.

La scelta non può essere che a favore del Dio della vita, della libertà, della dignità.

Sclerotico

I versetti conclusivi del discorso/dialogo sul pane della vita letti nella liturgia (Gv 6,60-69) riportano gli effetti che esso provoca negli ascoltatori. Molti discepoli lo giudicano inaccettabile perché essa è una “parola dura/sklēros ho logos houtos”.

Gesù conosce le loro mormorazioni, uguali a quelle dei “giudei” a lui ostili (cf. v. 41). Intuisce il loro inciampare/rimanere scandalizzati. Essi sono incapaci di aderire, di credere alle sue parole sul pane dal cielo – cioè alla sua origine divina – perché legati alla conoscenza del suo ambiente umano di provenienza. È lo scandalo della catabasi, dell’incarnazione.

Gesù non addolcisce il discorso, ma li pone di fronte a un “inciampo” ancora maggiore, quando vedranno il suo innalzamento (anabainonta) sulla croce. «Come potanno allora ammettere che la sua morte ignominiosa è espressione dell’anabasi del Figlio dell’uomo, vale a dire del suo ritorno al Padre?» (J. Zumstein). Il discepolo deve credere al dispiegamento completo della rivelazione compiuta da Gesù.

Carne e Spirito

Come si può comprendere il destino di Gesù senza soccombere all’inciampo/scandalo? È una questione cruciale di comprensione/ermeneutica per l’uomo, che contrappone “Spirito e carne/pneuma-sarx”.

Solo lo Spirito, cioè l’azione stessa di Dio, può far sì che nell’uomo si realizzi una comprensione corretta della traiettoria completa compiuta dal Figlio, il Rivelatore. È un’azione di Dio decisiva per l’uomo, perché essa “fa vivere/to zōiopoioun. Chi restringe il proprio campo mentale a ciò che può vedere e verificare empiricamente, attenendosi al registro puramente immanentistico quale unico criterio di comprensione della realtà, si chiude alla manifestazione di Dio. Solo chi si apre all’azione dello Spirito può discernere nella persona di Gesù come viene delineata dall’evangelista Giovanni la presenza di Dio, del Padre.

Lo Spirito è condizione essenziale per credere – che per Giovanni combacia con la possibilità di avere la vita – ed egli/esso si può trovare e fare proprio nelle parole trasmesse da Gesù (cf. v. 63). «Chi accoglie le parole di Gesù riceve lo Spirito e di conseguenza (kai consecutivo) la vita in pienezza» (J. Zumstein).

Via da dietro a lui

Alla fede si contrappone l’incredulità, che è pure dei discepoli e non solo degli “avversari”. Gesù li ha scelti e istruiti, ma sarà uno di loro a “consegnarlo/tradirlo/paradidōmi” alla morte (cf. 6,71; 12,4; 13,11).

Gesù conosceva fin dall’inizio della sua attività la possibilità dell’incredulità. Ma la sua onniscienza non pregiudica il libero corso del cammino di fede (o di incredulità) dei suoi discepoli. Se l’incredulità è una scelta dell’uomo, la fede, al contrario, rimane un puro dono di Dio, una possibilità apertagli da Dio. Il dono di Dio è proprio la discesa e l’innalzamento di Gesù, il Figlio rivelatore del Padre.

Molti discepoli, dopo aver mormorato (v. 61), “se ne andarono via da dietro a lui/apēlthon eis ta opisō”, si allontanarono dalla sequela di Gesù e, cioè, non camminavano più con lui. È l’“apo-stasia”. Forse coloro che interrompono il cammino sono giudeo-cristiani scandalizzati dalla cristologia “alta” proposta dal Gesù di Giovanni, oppure dei doceti che vivevano al tempo dell’ultima stesura del vangelo giovanneo. Ogni epoca mette tuttavia il discepolo di Gesù di fronte a una scelta precisa.

Siamo di fronte alla cosiddetta forte crisi galilaica, che segnerà una svolta decisiva nel ministero di Gesù. Da allora in poi egli si concentrerà sempre più nella formazione dei Dodici, mentre sale a Gerusalemme per la sua terza Pasqua.

Volete andarvene?

Nella crisi Gesù non si scoraggia, né si deprime. Sale un ulteriore gradino della sua vita e pone serenamente ai Dodici la domanda decisiva sulla loro sequela. Egli ha fiducia in una risposta positiva. La particella interrogativa che apre la domanda di Gesù attende infatti necessariamente, a livello grammaticale, una risposta negativa.

Pietro, il portavoce dei Dodici, constata l’impossibilità di trovare un’alternativa sensata alla loro ricerca di vita che prescinda dalla sequela di Gesù. «Tu solo hai parole di vita eterna», afferma Pietro, riprendendo l’espressione del v. 63b e indicando la rivelazione come è stata presentata nel dialogo sul pane di vita (cf. v. 35).

Pietro e gli altri Dieci/Undici cercano la pienezza della vita, la “vita eterna”. E percepiscono di poterla trovare solo là dove si comunica tramite parole intelligibili. E queste parole decisive sono collegate strettamente a Gesù, l’Inviato e il Rivelatore del Padre.

Tu solo, il Santo di Dio!

Pietro compie una professione di fede simile a quella registrata nei vangeli sinottici (cf. Mc 8,29; Mt 16,15-16; Lc 9,20). Nel v. 69, infatti, trae le conseguenze di quanto ha detto nel v. 68. La sua professione è introdotta da due verbi che rivelano il carattere duraturo del loro impegno (i verbi sono flessi nel tempo greco del perfetto). Essi hanno vissuto un “credere” che si è esplicitato in un “conoscere”. «Il credere si concretizza in un sapere che impegna l’esistenza di colui che pronuncia una simile confessione di fede» (J. Zumstein).

La professione di fede di Pietro riconosce che Gesù, in quanto “il Santo di Dio”, appartiene al mondo di Dio. La “santità” del Gesù delineato da Giovanni corrisponde al “sigillo divino” che indica l’elezione unica del Figlio da parte del Padre (cf. v. 69 in rapporto al v. 27). In Gv 10,36 si dirà che la santificazione del Figlio ad opera del Padre esprime la stessa eminente dignità, collegando strettamente la santificazione del Figlio e il suo invio nel mondo.

Gesù risponde a Pietro ricordando l’elezione dei Dodici che egli ha compiuto all’inizio della sua attività.

La professione di fede appena pronunciata è quindi frutto non dell’autonoma capacità dei Dodici/Undici, ma un dono ricevuto. Questo non significa garanzia assoluta. Uno dei Dodici è un “diavolo/diabolos”, cioè uno che agisce fuori e contro il progetto di Dio, “dividendo” i discepoli dal compimento della volontà del Padre.

Come era stato detto di Pietro a Cesarea di Filippo dopo la sua confessione esatta ma da lui mal compresa (cf. Mc 8,33), ora il pesantissimo epiteto viene riferito a Giuda, che consegnerà/tradirà Gesù nella sua passione, pur essendo paradossalmente e scandalosamente “uno dei Dodici”.

Giuda non si dimostra un vero discepolo di Gesù, mentre Pietro, con la sua confessione di fede quale portavoce dei Dodici, rappresenta la fede corretta su cui deve radicarsi il cristianesimo dell’ambiente giovanneo e quello di tutti i tempi.

“Signore, dove andremo?”.
È sempre tempo di scelta.
Scegli la vita, non la morte.
Scegli la libertà e la dignità.
Scegli l’Unico, per essere unico. Vuoi essere l’uomo senza qualità?
Io e la mia casa scegliamo il Dio unico della vita e Colui che ha rivelato il suo splendido volto d’amore.

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