Paolo: interprete interpretato

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Yann Redalié, docente emerito di Nuovo Testamento (1946-) presso la Facoltà valdese di Teologia di Roma, raccoglie in questa pubblicazione sedici contributi apparsi in testi accademici ma anche in riviste di carattere divulgativo. Egli divide la materia in quattro parti: Paolo interprete, Paolo recepito, Paolo riletto, Paolo riscoperto.

Paolo interprete

Nella prima parte, l’autore sottolinea l’attualità del pensare dell’apostolo Paolo (una dizione cara a Giuseppe Barbaglio, a cui il volume è dedicato). Paolo è un pensatore occasionale, ma coerente. La sua argomentazione è ricca, anche se segnata dalla parzialità delle situazioni alle quali intende rispondere. Varie volte da provocato diventa provocatore. Le sue lettere propugnano una nuova identità e una socialità rinnovata: l’accoglienza nelle differenze, in una società connotata dalla fede in Cristo come quella di Abramo nel Dio che risuscita i morti e crea le cose che non sono.

I tre progetti di viaggio sono connotati dalla coscienza della vocazione. I viaggi sono «il solco del vangelo segnato sul terreno della geografia» (p. 21; cf. Rm 15,19-33 per i progetti futuri dopo un bilancio sull’azione missionaria compiuta e ritenuta conclusa in Oriente).

I viaggi sono costitutivi della sua vocazione, in quanto la salvezza ha bisogno di piedi per essere comunicata da messaggeri che vanno “dappertutto”. Accompagnato da collaboratori, Paolo fonda delle comunità cittadine che poi lascia a uno sviluppo evangelico in proprio. La sua azione fu aiutata dal mondo globalizzato quanto alla lingua, alla rete stradale, alla pax romana.

Gli Atti degli Apostoli sono una narrazione ordinata di come Paolo si trovi “a casa” (letteralmente!) nelle città. La casa adempie una funzione essenziale nei viaggi missionari, quali luoghi di raduno della comunità presso i credenti più facoltosi. Nella IClem Paolo e i suoi viaggi sono definiti come esempio grandissimo di tenacia.

I collaboratori di Paolo

Fra i numerosi collaboratori di Paolo – una cinquantina –, Timoteo è quello più caro a Paolo e il meglio conosciuto e citato nelle lettere paoline. Negli Atti è descritto come ebreo, fatto circoncidere anche se credente in Cristo. È inviato in missione a rappresentare Paolo (a Tessalonica, a Corinto e a Filippi) ed è co-autore di sei lettere paoline. Secondo Eb 13,23 avrebbe avuto ancora un periodo di missione dopo la stesura della Lettera ai Romani. Vanno aggiunte le notizie contenute nelle Lettere Pastorali.

Secondo Redalié, Tito è presentato invece più come missionario autonomo (come vari altri), mentre Timoteo, Barnaba e Silvano appaiono sempre a disposizione di Paolo. Inviato in tre città importanti, Tito interpreta il pensare di Paolo, ed è il solo che abbia lo stesso spirito/animo suo (cf. Fil 2,20). Destinatari delle Lettere Pastorali, Timoteo e Tito incarnano la figura del ministro secondo l’apostolo, rendono presente nel tempo Paolo mediante la storia di una trasmissione fedele e di ministri formati secondo il suo insegnamento.

Fil 4,10-20 – una ricevuta di ritorno in cui Paolo ringrazia i filippesi per l’aiuto ricevuto –, diventa un’occasione per fare teologia. I doni rappresentano il segno dell’amicizia ma soprattutto la partecipazione comune al vangelo. Destinatario ultimo del dono è Dio e i beneficiari finali sono i filippesi stessi. Il testo di Paolo testimonia la sua capacità di autosufficienza, ma esprime la gioia delle dimensioni dell’amicizia, della libertà, della storia condivisa, in relazione all’abbondanza di Dio che permette di condividere il suo vangelo.

Un capitolo è dedicato all’analisi di 1Cor 13, incentrato sull’agape, definita «via esagerata» da Redalié. Il capitolo è una digressione centrale all’interno della discussione sui carismi, ed è in parte anche un enigma. Le tre strofe sottolineano l’assoluta necessità dell’agape/carità, la sua intrinseca bellezza e dignità, la sua intramontabile durevolezza. L’Io si scopre di non essere niente senza l’amore. L’elogio dell’agape è un invito a coloro che cercano esperienze straordinarie ad accedere «a una totale de-possessione di sé per essere presi dalla grande pazienza divina che è l’agapè. Una nuova libertà oltre sé stesso. L’agapè non è una virtù, non è una perfezione morale, non è un valore che si definisce in sé, è movimento di vita. L’agapè cambia tutto, in quanto è l’enigma che dice Dio» (p. 55).

Fede e giustificazione di Abramo

L’ultimo capitolo della prima parte è dedicato all’analisi di Rm 4,3ss che cita e interpreta Gen 15,6: «Abramo credette a Dio e ciò gli fu messo in conto come giustizia». Il contesto e lo scopo di Rm 4 è quello di dimostrare, a livello biblico, l’affermazione di Rm 3,21-22a sulla giustificazione per fede in Cristo, indipendentemente dalle opere.

Abramo fu giustificato per la sua fede di abbandono filiale a Dio, prima ancora della promessa legata alla circoncisione e al legamento di Isacco (fede operosa secondo i giudei). In cinque sequenze Paolo ricorda in Rm 4 che Abramo fu giustificato indipendentemente dalle opere (cf. vv. 2-8), quando era ancora incirconciso (cf. vv. 9-12), prima della legge, mentre era empio. Dio accredita lo statuto di giusto non sulla base del merito.

L’eredità di Abramo si ottiene secondo la giustizia mediante la fede (cf. vv. 13-17a). La legge non ha cambiato il contenuto della promessa. La fede non è però solo una relazione fra Dio e un individuo, ma anche la storia di popoli, dall’inizio. Abramo è padre, il prototipo, inizio di una storia che “sbocca” su tutti fino a “noi” oggi.

Il “contenuto” della fede è una fiducia essenziale nella promessa. I vv. 17-22 sono una parafrasi estesa di Gen 15,6. Abramo ha fiducia nel Dio che dà la vita ai morti e chiama all’esistenza ciò che non esiste. Ciò che qualifica la fede come speranza è «sperando contro speranza», è cioè nell’ordine della perseveranza. «Il binomio promessa-fede con la giustificazione come risultato, non disgiunto da eredità-discendenza, dà unità al brano 13-22, e permette di evitarne una falsa lettura all’insegna dell’esemplarità morale di Abramo credente» (cit. di G. Barbaglio a p. 69).

I vv. 23-25 ricordano che ogni credente è erede della giustificazione di Abramo. «Il movimento è doppio: da un lato, la storia di Abramo che crede nel Dio che fa rivivere i morti trova la sua attualità di giustificazione per fede a partire dalla fede in Gesù, risuscitato; dall’altro, viene affermato che il Dio della risurrezione dei morti guidava il destino del patriarca. La croce viene inserita nella storia millenaria della promessa» (p. 70).

Paolo recepito

I tre studi della seconda parte si aprono con un capitolo dedicato all’immagine di Paolo negli Atti degli Apostoli.

Per Redalié questo costituisce un dibattito classico. Per alcuni, l’immagine di Paolo è intesa come un correttivo, prodotto da un’apologetica interna alla Chiesa. Per altri, la sua immagine viene considerata nella sua funzione apologetica per sottolineare il carattere non sovversivo del cristianesimo. Le critiche mosse a questa interpretazione sono quelle della mancanza dell’esito positivo del processo a Paolo e dal destinatario interno, e non esterno, del libro: esso è rivolto ai credenti per fornire le nuove basi per la loro fede.

Un terzo gruppo di interpreti si concentra sul ruolo “storico” di Paolo come testimone ultimo e determinante degli inizi della Chiesa. Egli è il tredicesimo apostolo. Citando Roloff, Redalié afferma che Paolo in Atti svolge una funzione ecclesiologica. Luca intende aiutare la sua Chiesa etnicocristiana a capire la propria collocazione nella storia della salvezza e a trovare la sua identità.

Per lo studioso, l’immagine di Paolo ha una funzione “identitaria”, atta cioè a contribuire all’elaborazione di un’identità per i destinatari dell’opera di Luca.

L’identità è collegata all’idea di permanenza, ma è anche delimitazione che assicura un’esistenza allo stato distinto e separato, ne descrive l’unità, dà una coesione totalizzante indispensabile al potere di distinzione.

L’identità è, infine, uno dei rapporti possibili tra due elementi, tra i quali si stabilisce la somiglianza totale che regna tra loro e che dunque possono essere riconosciuti identici. I tre elementi vanno insieme: costanza, unità, riconoscimento dell’essere identici.

Il libro degli Atti si dipana fra storia e apologia (cf. le comparizione di fronte alle autorità politiche e religiose). L’apologia rappresentata fornisce ai lettori cristiani degli argomenti per elaborare la loro apologia, un’identità collocabile in un mondo più vasto.

Ripensare l’identità era necessario, perché il movimento “cristiano” non era più legato a un’appartenenza etnica. Con gli autori “barbari”, Luca condivide la rivendicazione di rispettabilità fondata sull’antichità del gruppo, l’espressione della coscienza di essere in un mondo più largo attraverso l’ellenizzazione delle forme e l’uso della storiografia ellenistica.

Oltre a Marco, Luca usa questo modello di storia generale e concepisce “i cristiani” come un gruppo socio-storico, che emerge quale legittimo erede dal giudaismo.

L’immagine di Paolo che emerge sottolinea le relazioni del movimento cristiano con la propria storia (continuità con gli apostoli), con Israele (continuità nella discontinuità) e in rapporto a Roma (distinzione-esigenza di essere riconosciuti).

Paolo personalizza l’istituzione e, al termine degli Atti, il movimento “cristiano” viene identificato come setta paragonabile ad altri movimenti interni al giudaismo; la sua diffusione è data per completata e Paolo ne è il suo rappresentante esclusivo. «In un certo senso c’è qualcosa come una personalizzazione dell’istituzione in Paolo, ormai riconosciuta nella sua esistenza distinta e autonoma» (p. 85).

Per Redalié, Luca-Atti non è la storia di un’istituzione. Se questo può valere forse per la prima parte di Atti, nella seconda metà si accentua la distinzione: la triangolarizzazione processuale emerge come fattore di distinzione: accusatore giudeo, accusato Paolo, giudice o autorità romane. Si mettono a fuoco delle relazioni nella distinzione dei ruoli rispettivi, con una progressiva uscita.

Il programma di At 1,8 non è solo geografico ma anche politico. L’universalità del vangelo si concretizza anche nella dimensione pubblica e politica della testimonianza. Il tribunale romano è il luogo di questo allargamento e Paolo è l’interlocutore e il protagonista di questo confronto. Per Redalié, Luca-Atti produce e crea una nuova istituzione.

In Atti viene eliminata la distinzione fra osservatore esterno e il credente. L’autore riporta tradizioni sicure ma si identifica anche nel “noi” del gruppo testimone dei “compimenti” oggetto del racconto. Nella rappresentazione dello sviluppo del movimento cristiano «la figura di Paolo simboleggia la nuova istituzione, la impersona diventando figura identitaria capace di integrare le sue diverse appartenenze e contraddizioni e di reggere quale interlocutore dinanzi ad autorità sempre più altolocate» (p. 89).

Nell’ultima parte di Atti, quella delle comparizioni processuali, emerge l’accusa fatta a Paolo di voler cambiare. Lo storico si interessa agli usi e ai costumi, presenta un rapporto ambivalente di Paolo rispetto alla legge, in una dialettica continuità/discontinuità (Vangelo-Atti).

In At 16,11-40 (prigionia a Filippi) si narrano quattro tentativi di far uscire gli apostoli dal carcere, notando come lo Spirito guidi la sua Chiesa attraverso la forza dirompente che fa saltare la prigione. Questa forza dirompente viene per così dire convertita, attraverso le “false uscite” e i ritardi, per inserirsi nelle pieghe dello spazio organizzato della città romana.

La libertà della testimonianza deve essere poi rafforzata da un riconoscimento formale e pubblico, e non solo da una tolleranza concessa di nascosto. «Così, tra le case rinnovate dall’annuncio della salvezza e la rete delle città dell’impero, la libertà dello Spirito annunciato da Paolo traccia il cammino nel reale ambiguo della storia e costituisce il suo apostolo e le sue comunità come interlocutori che non si può più non riconoscere» (p. 95).

Lavorare per non essere di peso

Nel capitolo ottavo Redalié analizza il detto paolino «Lavorare per non essere di peso a nessuno», domandandosi se Paolo sia un modello per diverse stagioni.

In 1Cor 9,13-18 viene descritto il legittimo diritto dell’apostolo a essere mantenuto dalla comunità, diritto rivendicato con forza da Paolo ma di cui egli non si avvale per non creare impedimento all’annuncio del Vangelo.

In At 20,33-35 – il testamento pastorale di Paolo lasciato agli anziani di Efeso radunati a Mileto – l’apostolo è proposto invece come modello di solidarietà. L’automantenimento ha un derivato nella solidarietà verso i più bisognosi, avvalorato da una parola del Signore Gesù (non presente nei vangeli): «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere».

In 1Tm 5,17ss – una delle Lettere Pastorali tritopaoline, che per Redalié si aggiungono alle deuteropaoline 2Ts-Col-Ef – si prescrive che agli anziani (di Efeso?), che si affaticano bene nella presidenza e soprattutto nella predicazione e nell’insegnamento, sia dovuto un doppio onore, forse una remunerazione maggiore, visti i versetti biblici ed evangelici portati a giustificazione: «Non mettere la museruola al bue che trebbia» e «L’operaio è degno del suo salario». Paolo regola il fenomeno, affermando un diritto per gli Anziani meritevoli di avere un compenso materiale, se non proprio uno stipendio regolare.

In 2Ts 3,7-10 – lettera deuteropaolina per Redalié – si ricorda l’esempio di lavoro autonomo di Paolo per non essere di peso alla comunità. Paolo aveva diritto a essere mantenuto, ma egli vi ha rinunciato e motiva questo non con testi scritturistici, ma presentando la sua persona come motivo esemplare da imitare. Ricorda, infine, il comando dato – non una raccomandazione –, che “se qualcuno non vuol lavorare, neppure mangi”.

In rapporto al sostentamento dell’apostolo, Paolo viene quindi presentato come un modello con diverse modalità d’uso. La fedeltà all’apostolo Paolo non è pura imitazione, ma esercizio di discernimento che mette in moto sia la valutazione di ogni situazione, sia l’interpretazione delle parole delle Scritture, del Signore e dell’apostolo. L’interpretazione guida il comportamento, il che non esime dalla responsabilità e dal rischio di esercitare la libertà di valutazione e di decisione.

Lettera agli Efesini “oggi”

L’ultimo capitolo della seconda parte è dedicato alla lettera agli Efesini oggi. Riporta la conferenza pubblica tenuta nel 2004 a conclusione del Colloquium Paulinum.

Per la maggioranza degli studiosi, Efesini è una lettera non autoriale, aperta in quanto destinata a varie Chiese, con forti legami con la Lettera ai Colossesi. La pseudonimia intende esprimere la fedeltà a Paolo e aggiornare il suo pensiero a una situazione nuova.

Per l’autore, è vitale che Paolo sia recepito sia come figura storica di apostolo che evangelizza i pagani, sia nel suo pensiero teologico ancora valido per la nuova generazione di cristiani.

Divisa in due parti – teologica ed esortativa – di Efesini finora si è sottolineata la prima, che parla della Chiesa corpo di Cristo che ne è la testa, corpo articolato e in crescita verso Cristo, costituita da ebrei e pagani uniti in Cristo per dare vita all’“uomo nuovo” che nasce da un atto del Signore. L’identità della Chiesa è ricevuta come un atto di grazia, frutto del disegno salvifico di Dio per il mondo (cf. Ef 1,9-10).

Redalié ricorda come nel Colloquium Paulinum si sia posto l’accento sulla parte esortativa, in quanto l’esortazione, l’etica, il comportamento coerente sono intimamente legati alla teologia e alla rappresentazione della Chiesa.

Si è pensata la relazione fra le due parti della lettera a partire dalla questione dell’identità sociale. La formazione dell’identità sociale, nella relazione tra l’individuo e il gruppo di appartenenza, mette in moto degli elementi di conoscenza di come il gruppo si è formato, degli elementi comuni, delle emozioni provate, della valutazione del rapporto con altri gruppi.

I cc. 1-3 dipingono, con un discorso descrittivo, l’identità del gruppo nella sua novità, mentre i cc. 4-6 esprimono, con un discorso prescrittivo, le modalità con cui rendere effettiva questa identità nella realtà quotidiana, nel vissuto di ciascun membro del gruppo.

Redalié ricorda il tema dell’“uomo nuovo”. L’identità nuova della comunità e di ogni suo membro appare come una questione centrale della lettera (cf. 2,14-15). Il motivo dell’“uomo nuovo” è ereditato dalla tradizione paolina (cf. Col 3,9s; cf. la nuova creazione, la novità di vita legata al battesimo e l’eliminazione dell’uomo vecchio nelle lettere protopaoline).

Ef 4,1-16 intende rafforzare la visione di un nuovo popolo di Dio in termini positivi, mentre 4,17-24 l’identità è espressa principalmente in termini negativi, in contrapposizione con il comportamento dei pagani. Si parla di ciò che i cristiani non sono e non devono essere. Occorre distinguersi, separarsi.

Il legame tra l’esortazione e l’ecclesiologia si ritrova anche nella parte riguardante il matrimonio, la relazione tra marito e moglie (cf. 5,22s). Il matrimonio cristiano ricorda ai lettori la relazione tra Vangelo e vita cristiana, tra il piano di Dio che unisce tutto sotto Cristo e il rispetto reciproco da dimostrare fra tutti i membri del corpo.

La relazione tra esortazione ed ecclesiologia è presente anche nei “codici domestici” (cf. 5,21–6,9; cf. Col 3,18–4,1 e 1Pt 2,13–3,7). L’aggiustamento delle relazioni tra tre coppie di partner va inserito nell’insieme della parenesi che si sforza di rispondere nel comportamento alla chiamata di Ef 4,1.

I cristiani sono, in conclusione, delle persone ordinarie che credono di essere straordinarie. Il mistero di Cristo è un serbatoio di novità che fornisce la forza per vivere in modo nuovo le relazioni ordinarie della vita sociale, anche nella disuguaglianza delle relazioni, che non vengono messe in discussione.

Paolo riletto

La Seconda Lettera ai Tessalonicesi è considerata deuteropaolina da Redalié, che vi intravede numerosi punti di contatto e di rilettura con la Prima.

Il primo capitolo della terza parte del volume dello studioso è dedicato a 2Ts 1,3-12, il rendimento di grazie.

Redalié ricorda come Marguerat riassume in tre assiomi la rilettura: a) la rilettura non abroga il valore del testo riletto; al contrario, lo presuppone; b) la motivazione alla base della rilettura è da ricercare nell’evoluzione interna della tradizione e nei cambiamenti delle situazioni storiche; c) il testo che rilegge si distingue dal testo riletto grazie a un gioco dialettico di amplificazioni esplicitanti e di slittamenti d’accento.

2Ts precisa e corregge alcune interpretazioni dell’insegnamento escatologico fornito in 1Ts, anche di fronte a un deterioramento della situazione della comunità dovuta alla radicalizzazione dei comportamenti disordinati in ambito lavorativo (cf. 2Ts 3,6-15) e per la confusione provocata da un insegnamento estremo a proposito dell’attualità del Giorno del Signore (cf. 2Ts 2,1-2).

Persecuzioni, comportamenti disordinati ed escatologia sono tre temi specifici di 2Ts già presenti in 1Ts. Per vedere la dipendenza letteraria, occorre tener presente l’insieme delle relazioni fra le due lettere.

Il senso della rilettura attuata nel rendimento di grazie di 2Ts 1 va intravisto sulla base di tre tipi di relazione: l’imitazione del quadro formale, l’eliminazione degli elementi di anamnesi personale e l’aggiunta di materiale apocalittico.

La speranza è sostituita dalla perseveranza. 2Ts 1,5-10, più che aggiungere elementi apocalittici, espande un motivo già presente in 1Ts. La mancata ripresa del motivo della risurrezione di Gesù è significativa di uno slittamento di accenti in riferimento ai tempi.

Si affronta il rapporto tra il presente e il futuro e quindi si riprende e si sviluppa il motivo dell’attesa, esplicitandone le condizioni in un’accoppiata di fede e perseveranza di fronte all’afflizione e alle persecuzioni. La durata dell’attesa del Figlio che viene dai cieli diventa un’occasione di crescita e di compimento.

Centrale nel rendimento di grazie di 2Ts è l’annuncio del Signore che viene come giudice escatologico, vendicatore dei nemici della comunità. Questo appare come una caratteristica del messaggio deuteropaolino. Il brano va però interpretato nel contesto più ampio delle relazioni fra 1Ts e 2Ts.

2Ts 1,5-10 esprime la motivazione escatologica dell’attesa fedele, su cui poi insiste 2Ts 1,3-4.11-12. Va notato, comunque, che l’orientamento in 2Ts non è solo verso il futuro: l’attesa vive ugualmente nel presente. Si sottolinea sia il presente che il futuro. La glorificazione del Signore accadrà quando egli verrà, ma anche «in voi», in questo tempo dell’attesa, oggetto dell’intercessione (v. 12).

Ciò che è nuovo in 2Ts è il riequilibrio in cui si recupera anche la sorte finale degli ingiusti, mentre 1Ts non parlava che dei credenti. Il rapporto tra presente e futuro è un «già» di attesa fiduciosa, che si oppone al «già» che nega l’attesa e getta nella confusione annunciando che il giorno del Signore è già arrivato (2Ts 2,2).

Per Redalié, per un approccio in termini di rilettura, la questione dell’autore del testo è secondaria. Va valorizzato l’insieme delle relazioni di continuità e discontinuità fra 1 e 2Ts, «in modo da rendere ragione di tutto il testo, anche dei brani che, per quanto non sembrino dire nulla di nuovo, fanno parte integrante del messaggio» (p. 150).

L’Empio e chi trattiene

Il c. 11 analizza 2Ts 2,1-12: “A che cosa serve un AntiCristo? II Tess. 2,1-12: La rivelazione dell’empio, una questione di calendario?”.

Dopo aver riassunto lo scenario escatologico presente nel brano, Redalié afferma che l’Empio, un AntiCristo, serve a correggere un calendario escatologico giudicato erroneo, perché non si è ancora giunti al momento del gran finale, e il brano ha la preoccupazione pratica di riportare la calma e la fiducia, ristabilendo l’unità e l’identità di una comunità scossa.

Questo richiamo al calendario escatologico «rimane incomparabile nel corpus paolino, anche se sembra che le figure escatologiche della scena di II Tessalonicesi si suppongano conosciute e riconosciute dai destinatari della lettera» (p. 154).

Lo studioso analizza gli eventi penultimi (vv. 3b-4): l’apostasia, l’uomo di Anomia (l’Empio) descritto nella sua identità e in azione, un AntiDio e quindi, di fatto, un AntiCristo, anche se il termine non compare in 2Ts.

Questa anticristologia mette in rilievo la cristologia del Signore Gesù Cristo, beneficiario degli attributi teofanici ed escatologici di Dio (1,5-10). La cristologia si sviluppa in contrapposizione con l’avversario. In 2Ts 2,5 si afferma che l’insegnamento già fornito in precedenza ai tessalonicesi è di origine garantita, mentre va corretto un errore la cui provenienza non è chiara (cf. 2,2). Si rimanda una comunità confusa alla tradizione apostolica, accreditando la rilettura proposta in 1Ts come la sola valida.

In 2Ts 2,6-7 si presenta il tempo che resta e il katechon, presentato una volta al neutro e una al maschile. Un agente trattiene lo scatenarsi del male fino a quando giunga il tempo fissato, secondo il calendario divino. È Dio a comandare la storia. Se l’avversario è Satana e l’Uomo dell’Empietà un suo agente, «Chi/ciò che trattiene» è stato interpretato come l’Impero romano, l’imperatore, il piano di Dio e Dio stesso, un arcangelo, la conclusione della missione universale, una forza ostile alleata all’Empio che cerca di avere il controllo della comunità.

Per lo studioso, «l’identificazione tradizionale del katechon con l’Impero e con l’imperatore rimane un’ipotesi convincente per la comprensione di II Tessalonicesi» (p. 163).

La prospettiva apocalittica è ancora una volta a servizio della preoccupazione pastorale. L’avversario escatologico è già all’opera, ma lo scenario apocalittico indica che vi è un limite al suo agire attuale e che è già decisa la vittoria che metterà fine alle sofferenze dei destinatari. È il piano di Dio a fissare le scadenze.

Il Giorno del Signore non è ancora giunto e le ultime sofferenze dei credenti non sono ancora iniziate. Il presente mantiene la sua consistenza. Colui che trattiene, il katechon «in un certo senso rappresenta il timer posto sull’asse del Male» (p. 165).

In 2Ts 2,8-12 si descrive come l’Empio viene rivelato per essere distrutto e accada la fine delle illusioni. La Parusia sarà una manifestazione spettacolare, visibile a tutti. Dunque, se fosse già avvenuta, lo si saprebbe… L’apparizione improvvisa e clamorosa del Giorno del Signore farà vedere come questi è capace di annientare l’avversario senza alcuno sforzo.

Nel v. 9 si ritorna all’azione dell’Empio che seduce e illude. L’Empio dei vv. 9-10 è il seduttore, strumento di Satana, i cui segni e miracoli appartengono alla serie dei falsi profeti e contribuiscono alla sua legittimazione satanica. L’inganno escatologico è già presente e va rigettato, perché il giudizio avverrà anche sull’illusione e sugli inganni assecondati.

«La rilettura sorge dalla battaglia confessante contro la falsa dottrina. Gli elementi in contrasto del dualismo apocalittico non mettono in opposizione solo i persecutori della comunità con i credenti (IITess. 1), ma (IITess. 2) drammatizzano pure il conflitto interpretativo interno alla tradizione paolina. Il tempo utile per scegliere tra la verità e la menzogna non è solo il tempo finale ma è anche, e già, l’insieme dell’esistenza (cf. 1,8.9)» (pp. 166-167).

I disordinati di Tessalonica

Il c. 12 del volume è dedicato a 2Ts 3,6-12, brano in cui i disordinati di Tessalonica sono riletti e corretti. Si rilegge e si corregge 1Ts1,6s; 2,1-12 e 4,1s.10s. Il tono non è esortativo ma imperativo: bisogna ritirarsi da fratelli come quelli.

La loro identificazione (pigri, disordinati, ribelli ecc.) è legata all’interpretazione di tutto il brano, se non dell’intera lettera, per coloro che mettono il disordine incriminato in relazione con l’agitazione escatologica denunciata in 2,2 (cf. p. 171). In questo testo si passa dall’esortazione all’ordine dato; dal soggiorno dell’apostolo ricordato si passa all’esempio normativo.

«I vv. 6.11.12, che affrontano la situazione presente, rileggono l’esortazione di 1Ts 4,1s.10s e 5,14; mentre i vv. 7-10, introdotti dal riferimento all’“insegnamento che avete ricevuto da noi” (v. 6d) configurano l’esempio degli apostoli a partire da una rilettura della visita di fondazione, seguendo in modo selettivo i ricordi di 1Ts 1,6–3,4. È la rilettura combinata di questi due insiemi a costituire il nostro testo» (p. 174).

L’identificazione dei comportamenti incriminati e la necessaria correzione sono precisati per contrasto, mentre l’esempio normativo prescrive una disciplina su ordine, un modello da imitare, che comprende anche una tradizione ricevuta «da noi», un insegnamento da seguire.

Il soggiorno apostolico viene riletto e, come in 1Ts 2,3-7, Paolo illustra per contrasto il suo ministero a Tessalonica; allo stesso modo ora, ricorrendo a delle antitesi, viene descritto il comportamento degli apostoli in 2Ts 3,7b-9. Il lavorare per non essere a carico degli altri (cf. 2Ts 3,8b) è legato al dono di sé (cf. v. 9). Ciò deve costituire un modello da seguire. 2Ts 3,10 riprende 1Ts 3,4. L’informazione sugli indisciplinati è tratta da una fonte affidabile.

Per Malherbe, 2Ts è autoriale e in essa si passa dall’implicito all’esplicito. L’imitazione non è più un’esortazione ma diventa la base per una disciplina ecclesiastica.

Coloro che sostengono la pseudoepigrafia di 2Ts sottolineano invece l’insistenza del testo sull’autorità della tradizione paolina, fondata sull’esempio stesso degli apostoli. L’istituzione di un modello apostolico, che «occorre saper imitare», motiva i loro comportamenti e non più l’intimo legame tra la predicazione e il dono di sé: la condotta apostolica diventa tradizione per le generazioni future. Il modello diventa vincolante, l’imitazione un dovere.

Rispetto a 1Ts – ad avviso di Redalié – 2Ts denota un certo «inasprimento dei toni, una essenzializzazione delle motivazioni, una stretta intorno al modello apostolico che indica il comportamento da assumere, un porre al centro l’autorità: nel passaggio da una lettera all’altra le trasformazioni appaiono chiare, che si consideri II Tessalonicesi scritta da Paolo o come lettera deuteropaolina» (p. 182).

2Ts 3,6-12 non è un collage di citazioni isolate di 1Ts, quanto una lettura combinata di due insiemi di 1Ts: quello esortativo di 1Ts 4,1s.10s e quello che ricorda la relazione con i suoi destinatari, il racconto della sua permanenza a Tessalonica (1Ts 1,6s; 2,1-13; 3,4).

La combinazione di questi testi costruisce l’esempio apostolico proposto all’imitazione. 1Ts non viene citata o evocata in quanto tale. È mimetizzata nella rilettura proposta. Dall’esortazione si passa al comando e alla disciplina ecclesiastica; si amplifica e si esplicita tramite contrasto la figura dei disordinati.

In 2Ts 3,6-10 il ricordo di Paolo di 1Ts 1–3 subisce una modellizzazione. La ripresa esplicita di 1Ts 2,9 in 2Ts 3,8 segnala che «si tratta di una rilettura, di una ricomprensione del senso di quel soggiorno, già noto, di Paolo a Tessalonica. Una tradizione ricevuta, certo, ma che deve poter di nuovo plasmare uno stile di vita nel presente» (p. 184).

Paolo riscoperto

La quarta parte del volume comprende due capitoli.

Il primo è dedicato alla “Riscoperta di Paolo nella tradizione delle Chiese riformate”. Adottando uno sguardo retrospettivo, si può notare come la Riforma sia nata da una riscoperta fatta da Lutero della giustificazione per fede dell’uomo empio trovata nella Lettera ai Romani. C’è una unilateralità e una concentrazione della riscoperta di Paolo. La giustificazione per fede diventa una proclamazione liberatrice percepita e recepita in una situazione di crisi. La si riscopre come liberazione dalla paura e dall’angoscia, insieme alla scoperta del sacerdozio universale e al riconoscimento dell’autorità della Scrittura.

La concentrazione sul pensiero paolino ha permesso di arrivare alla Dichiarazione congiunta sulla giustificazione tra luterani e cattolici. La tradizione seguente svilupperà i temi della sola fide, sola Scriptura, sola gratia.

Una parte della ricerca recente ha contestato la centralità della giustificazione per fede in Paolo, denunciando una raffigurazione errata della soteriologia giudaica dei suoi tempi come incentrata sulle opere e una certa “luteranizzazione” dell’apostolo. Si rivede l’idea del giudaismo considerato come una religione legalista. La critica alla legge non appare fondamentale e prioritaria in Paolo.

La nuova prospettiva su Paolo invita a uscire dagli schemi ricevuti per pensare la teologia di Paolo. Redalié sottolinea come alcuni studiosi rileggono criticamente la New Perspective on Paul e ne recepiscono in gran parte i risultati senza rinnegare la prospettiva messa in luce da Lutero. Tra gli altri, vanno in questa direzione Gerd Theissen e Daniel Marguerat.

L’ultimo capitolo è dedicato al passaggio dalle metafore sportive di Paolo allo sport moderno, analizzando il ruolo del corpo e della prassi sportiva nella tradizione protestante. Da pura metafora, l’attività motoria diventa vero e proprio sport, trovando nelle scuole dirette dai protestanti (YMCA ecc.) la culla per la nascita degli sport moderni del football, della pallacanestro e della palla a volo.

La tradizione protestante ha incoraggiato la pratica sportiva ben regolata e attuata come parte integrante del modello educativo di un credente che sia anche un uomo ben formato, equilibrato, onesto e ben inserito con qualità solidali all’interno della più vasta società.

Gli studi di Yann Redalié, accademici o divulgativi che siano, sono sempre ben informati, equilibrati, frutto di una lunga frequentazione amorosa di Paolo e della sua rilettura attuata nella tradizione paolina.

  • YANN REDALIÉ, Paolo interprete interpretato (Piccola biblioteca teologica 146), Claudiana, Torino 2022, pp. 224, €19,00, ISBN 9788868983208.
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