Chiesa cilena: e adesso?

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Nel corso degli anni ’60 e ’70, Paolo VI aveva nominato in Cile una generazione di vescovi eccezionali. Giovanni Paolo II, a partire dagli anni ’80, in Cile e nel resto dell’America Latina nominò vescovi con poca libertà di interpretare la dottrina della Chiesa, dottrina che, in casi come la Veritatis splendor, significò un regresso; sono stati uomini senza i lumi della generazione precedente, timorosi, strettamente fedeli al governo del papa.

Ci sono vescovi e vescovi

I vescovi cileni di Paolo VI fecero fronte alla dittatura di Pinochet. Il card. Raúl Silva Henríquez creò il Vicariato della solidarietà che accolse e difese le vittime delle violazioni dei diritti umani. Ispirandosi alla Conferenza episcopale di Medellín (1968) e poi a quella di Puebla (1979) e alla teologia della liberazione, la Chiesa cilena molestata e perseguitata, specialmente nelle comunità ecclesiali di base, conobbe un fervore evangelico e profetico straordinario.

In quegli stessi anni, tuttavia, cominciò a rafforzarsi il cattolicesimo conservatore, in discordia con le voci ufficiali. Aveva a suo favore Pinochet e il card. Sodano, il nunzio. Aveva anche il vento favorevole del cardinal Ratzinger – intervistato da Messori nel Rapporto sulla fede –, principale interprete del Concilio negli ultimi cinquant’anni e strenuo censore dei teologi della liberazione.

Ciò che spiega in larga misura la vastità del problema dell’attuale Chiesa cilena è che questo rafforzamento del cattolicesimo conservatore si concentrò nel circolo sacerdotale molto potente creato da un parroco, il sacerdote Fernando Karadima, un uomo intellettualmente limitato, ma seduttore delle élites. Egli creò attorno a sé una vera setta di giovani psicologicamente fragili di cui abusò sessualmente e spiritualmente. Non senza il presunto consenso di Sodano, che aveva un ufficio privato nella parrocchia di Karadima; di questo gruppo furono nominati vescovi Juan Barros, che finì col diventare il “pomo della discordia”, Andrés Arteaga, Tomislav Koljatic e Horacio Valenzuela.

Il caso Karadima

Il caso scoppiò nel 2010. Il nuovo arcivescovo di Santiago, il card. Francisco Javier Errázuriz, rimosse il parroco dalle sue funzioni. Ma lo fece dopo che le vittime di Karadima, James Hamilton, Juan Carlos Cruz e Andrés Murillo, fin dal 2003 gli avevano chiesto giustizia.

Nel 2011, il nuovo arcivescovo, Ricardo Ezzati, dopo aver indagato sulla situazione, sanzionò il parroco, proibendogli di esercitare pubblicamente il sacerdozio e la direzione spirituale. Nello stesso tempo, il caso fu presentato ai tribunali di giustizia, i quali, dopo aver giudicato colpevole Karadima, lo assolsero per prescrizione dei reati.

Negli anni successivi furono scoperti numerosi casi di abusi sessuali da parte del clero, abusi di pederastia e di pedofilia. Alcuni sono terminati con condanne civili (ci sono dei preti incarcerati), altri con sentenze canoniche (limitazioni nella funzioni sacerdotali) e, infine, alcuni sono ancora oggetto di indagine. Il panorama è desolante. Il clero e quasi tutte le associazioni religiose maschili, hanno avuto casi di abusi e relative accuse (compresi i gesuiti).

Papa Francesco, dopo essersi sbagliato più di due volte su Juan Barros, ripudiato dalla diocesi di Osorno, decise di informarsi a fondo e di prendere misure drastiche. Inviò in Cile a indagare sulla situazione il vescovo di Malta, Charles Scicluna, e Jordi Bertomeu della Congregazione per la dottrina della fede. Il risultato di questa indagine indusse il papa a concludere di essere stato male informato.

Chi l’ha informato male? Non lo sappiamo. Ma, o egli non fece caso a Francisco Javier Errázuriz, uno della commissione dei “Nove” (uno dei suoi stretti collaboratori), né al nunzio Ivo Scápolo che, per la loro vicinanza e la loro carica, avrebbero dovuto farlo, oppure questi, o uno di questi, fecero pendere la bilancia dalla parte di Barros. Ezzati, da parte sua, avrà altri “peccati”, ma si sa che si oppose alla nomina del vescovo di Osorno.

Si chiude un capitolo

Oggi, dopo le dimissioni di tutto l’episcopato cileno, sembra chiudersi un capitolo e aprirsene un altro. Sarà migliore?

La situazione è inaudita. La lettera che il papa ha consegnato privatamente ai vescovi per discernere insieme ad essi il futuro della Chiesa cilena, è commovente. Il documento rivela l’impatto che hanno prodotto in Francesco i gravissimi abusi sessuali, psicologici e di coscienza, di maggiori e minori; e, a sua volta, scuote i cattolici per il tipo di immoralità commesse da vescovi e da quadri intermedi nella copertura di tali abusi e delitti.

Il documento, da una parte, traccia un vero programma di una futura riforma della Chiesa cilena e, dall’altra, conferma irregolarità molto gravi come la distruzione degli archivi, ossia, l’eliminazione delle prove. Per chiunque è facile immaginare che il rapporto di 2.400 pagine consegnato da Charles Scicluna al papa dev’essere raccapricciante.

Che cosa succederà?

Che cosa succederà? Supponiamo che Francesco accolga la rinuncia di vari vescovi che si sono dimessi. Quanti?

È quasi sicuro che lasceranno la conferenza i quattro di Karadima, da lui spiritualmente diretti. Inoltre, tutti coloro che avevano già rinunciato per l’età. Sono quattro. Qualcuno di più? Non lo sappiamo. Ciò significa che nel futuro immediato dovranno essere nominati almeno otto vescovi e un nono per la sede vacante di Valdivia.

Cosa succederà? Non sappiamo se i vescovi che rimangono e quelli nuovi saranno all’altezza delle esigenze che il papa ha indicato nel documento in questione. Francesco chiede a tutti di lavorare per una Chiesa profetica che sappia «mettere Cristo al centro» del suo cuore e della sua azione. Una Chiesa profetica come quella dei vescovi di Paolo VI, orientata all’opzione dei poveri, che ha fronteggiato le violazioni dei diritti umani, e non come quella che venne dopo, quella di una gerarchia che, nelle parole di Francesco «smise di guardare e di indicare il Signore per guardare e occuparsi di se stessa».

È qui che sorge una domanda inquietante: i vescovi saranno capaci di intraprendere una conversione di questa portata? Rinunceranno alla loro alleanza con la classe delle élites di un paese ingiusto come il Cile? Ci sono tra questi alcuni vescovi molto conservatori e persino qualcuno che, prima si essere prete, ha lavorato per la causa di Pinochet.

Se papa Francesco vuole realmente introdurre i cambiamenti che la sua svolta pastorale richiede, dovrà disporre i mezzi affinché le sue parole non restino lettera morta. Dovrà accettare la rinuncia di vari altri vescovi. Dovrà sbilanciare la conferenza episcopale.

La Chiesa cilena ha preteso di operare con due pastorali allo stesso tempo: una per i settori alti, ricchi e religiosamente di tendenza preconciliare; e l’altra ispirata alle conferenze di Medellín, Puebla, Santo Domingo e Aparecida che, come quattro martellate sullo stesso chiodo, hanno ribadito l’opzione preferenziale per i poveri.

È l’ora dei laici

Altra domanda: ci sono persone che possano essere nominate per sostituire coloro che se ne vanno, in grado di soddisfare a queste condizioni? Nella lettera del papa c’è una lamentela a riguardo dei seminari. I seminari dell’epoca dell’«inverno ecclesiale» di Giovanni Paolo II hanno «risacralizzato» il clero. Questo tipo di clero, conclude la Royal Commission sugli abusi dei minori in Australia (2017), genera delle relazioni umane asimmetriche e inappropriate.

Papa Francesco traccia un programma e pone le basi per sperare qualcosa di meglio. Per il momento ricorda che Dio agisce nel santo popolo di Dio e che, in questo popolo, ci sono una fede e una forza straordinaria. Se i futuri vescovi non si nutrono e non imparano dal popolo di Dio in cui risiede la fede della Chiesa, credo che torneremo al punto di prima.

È quindi ugente rendere partecipi i fedeli all’organizzazione della loro Chiesa. Lo dice Francesco con queste parole: «Permettemi di insistere, è urgente creare dinamiche ecclesiali capaci di promuovere la partecipazione e la missione condivisa di tutti i membri della comunità ecclesiale», lasciando da parte la «psicologia delle élites». Parteciperanno i laici in certi casi alla scelta dei prossimi vescovi?

È l’ora dei laici. Aspettiamo che la nuova generazione di vescovi finisca di “ordinare la casa” e metta la Chiesa al servizio del mondo. Lo facciano oppure no, già ora i cattolici, i sacerdoti e i fedeli dovrebbero assumere un ruolo da protagonisti. È urgente creare qualcosa di nuovo. C’è bisogno di una Chiesa di comunità (Pagola).

Occorrono comunità di ogni tipo che esigano rispetto e partecipazione, capaci di dichiarare con rispetto le loro divergenze nei riguardi dell’autorità e di ribellarsi contro le ingiustizie. È necessaria più creatività, più solidarietà con il prossimo, più partecipazione delle donne, in una parola, più Vangelo.

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