Sinodo tedesco: le parole inappropriate di Kasper

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cammino sinodale

Conosciamo bene e apprezziamo molte delle parole che il card. Kasper ha detto e scritto nel corso della sua sua lunga carriera di teologo e di ministro della Chiesa.

Ma aver letto quanto ha dichiarato in una lunga intervista, di cui riferisce questo articolo su Cath.ch, desta una certa sorpresa. Pur avendo precisato che un giudizio definitivo sul Cammino sinodale tedesco non può essere ancora pronunciato, essendo ancora in una fase preparatoria e non essendoci ancora alcuna decisione assunta da parte dei vescovi, il cardinale si lascia andare ad alcune affermazioni di una singolare durezza, che meritano di essere brevemente esaminate, per identificare gli argomenti che in esse vengono utilizzati.

Primo argomento

Si rispolvera il più classico degli argomenti dell’antimodernismo: “perché il Cammino sinodale…non ha esaminato le questioni critiche alla luce del Vangelo?”. Per quanto importanti possano essere le nozioni delle scienze umane “la norma è solo Gesù Cristo, nessuno può porre un altro fondamento”.

Per quello che ho letto del Cammino sinodale, mi pare che il riferimento alla “norma Gesù Cristo” non sia mai mancato. Che da un uomo così colto e così prudente possa venire un argomento così rozzo sembra quasi incredibile. Se ad un Sinodo, per di più di natura nazionale, si oppone la obiezioni di “non seguire il Vangelo” e di non avere “Cristo come norma”, si solleva una questione talmente viscerale e pesante, da screditare l’intero fenomeno, senza alcuna possibilità di appello.

Di fatto si cade nella logica di una accusa “di scisma/eresia”, basata però su un grave pregiudizio. La domanda giusta da sollevare dovrebbe essere “quale mediazione istituzionale” deve essere posta dalla Chiesa perché Gesù Cristo resti la norma? Come è possibile che il card. Kasper abbia dimenticato che il “mondo”, con il suo sapere e le sue forme di vita, non è solo “perdizione” per lo Spirito, ma anche “luogo dello Spirito”.

E che ciò che potrebbe essere visto come “cedimento al mondo” può essere anche valorizzato come “segno dei tempi”? Non abbiamo imparato proprio dal card. Kasper a valorizzare ciò che ora egli rigidamente contrappone a Cristo? Perché mai dovremmo seguirlo nel cedere al linguaggio dell’antimodernismo in un passaggio tanto delicato? Perché dovremmo dimenticarci, proprio ora, del Concilio Vaticano II e del suo stile? Perché dovremmo improvvisamente parlare come Humani generis anziché come Gaudium et spes?

Secondo argomento

La correlazione tra Germania e mondo appare basata su due ragionamenti non solo fragili, ma addirrittura ingiuriosi. Il primo è fondato sulla consapevolezza della giusta differenza tra Chiesa universale e Chiesa tedesca. Questo vale non solo per la Germania, ma per ogni Chiesa, per la Amazzonia come per il Congo.

Ma sarebbe curioso se avessimo detto, ad es. per la Amazzonia: chi potrebbe pensare che sia un problema dell’umanità che ci siano comunità nelle quali l’autorità è esercitata da donne? O che ci siano popoli per i quali la “terra” è costituita da un “fiume”? O che ci siano popoli che per rendere grazie anzitutto danzano? O che ci siano popoli in cui il matrimonio è sempre preceduto da lunga convivenza tra i futuri coniugi? Nessun problema è assolutamente decisivo sempre e ovunque.

Ma tutti hanno la loro dignità. Persino il celibato dei preti e il ministero femminile sono temi con una loro dignità e una forza che nessun cardinale può permettersi di ridicolizzare. Ma non basta. Il secondo argomento utilizzato dal cardinale resta sul piano della particolarità di popolo e si sofferma brevemente sul “Germanentum”, ossia la tendenza dei “tedeschi” a considerarsi “i migliori”. E addirittura osa paragonare questo aspetto del Cammino sinodale ad una sorta di “eredità nazista”.

Qui si sconfina nel dileggio. Ed è imbarazzante ascoltare queste parole sui tedeschi proprio da un cardinale tedesco.

Terzo argomento

Anche sul piano ecumenico, che è stato così a lungo terreno di lavoro fecondo per il card. Kasper, il giudizio sulla “intercomunione”, che ha già sollevato contrasti tra Chiesa tedesca e Roma, è allo stesso tempo un poco nostalgico e duramente negativo in ragione di una “perdita di identità”.

Sia i cattolici, sia i protestanti “non sanno più chi sono”. Ma forse è proprio la storia ad aver portato a questo cambiamento di identità, che non è soltanto negativo. Vivendo insieme, cattolici e protestanti cambiano: perché scandalizzarsi? Perché non corrispondono più alle definizioni del Denzinger? Anche qui le concessione “personali” alla comunione ecumenica – che privatamente il cardinale non nega – contrastano con una sorta di “sordità istituzionale”. Ogni passo formale viene sospettato di non rispettare la tradizione e di introdurre una nuova rottura.

Considerare le forme effettive di comunione, da riconoscere, sembra impossibile, perché l’approccio alle questioni resta sostanzialmente dottrinale. Il “cambio di passo” che molti osservatori avevano ritenuto inevitabile dopo il 1999 (con l’accordo sulla Dottrina della Giustificazione) sembra per Kasper soltanto una chimera piena di tentazioni.

La lotta contro la gabbia del linguaggio

Il difficile apprendistato di uno “stile sinodale” mette alla prova anzitutto il linguaggio. E lo fa con tutti. Tutti sono messi alla prova. È facile cadere in opposizioni viscerali. È facile pensare di poter riformulare tutto o che nulla si possa toccare. Soprattutto la confusione, di cui tutti siamo vittime, riguarda la differenza tra “sostanza” e “rivestimenti”.

Che cosa è possibile cambiare e che cosa è invece “irreformabile”? Che cosa è vitale per la Chiesa e che cosa è zavorra da alleggerire? Tutto questo passa anzitutto attraverso un confronto sul piano del linguaggio. Ed è facile lasciarsi trascinare da forze antitetiche. Una di queste è senza alcun dubbio la messa in opera di una “squalificazione del sinodo stesso”. Se il difetto è “di nascita”, che cosa potrà salvare la Germania dal suo stesso Sinodo?

Questo mi pare un grave errore di giudizio, anche se è condiviso, come dice Kasper, “dai miei amici di S. Egidio”. Quale sia la differenza tra “essere fuori dalla storia” perché si affrontano le questioni e “attaccare l’asino sempre solo dove vuole il padrone” per garantirsi la patente di “avere i piedi nella storia” resta una questione aperta.

Se poi la squalificazione e il discredito diventano accusa, più o meno diretta, di “scisma e/o eresia”, di “violenza” o di “perdita di identità”, è evidente che l’apprendistato sarà ancora lungo, per tutti. Ma dalla lotta contro la gabbia del linguaggio non usciremo con successo né soltanto ripetendo vecchie formule, né soltanto ingiuriando sgarbatamente le nuove formulazioni in fieri.

Questa fu la tentazione di tutti i peggiori avversari del Concilio Vaticano II: ridurlo a parole vuote o riempirlo di insulti.  Ma fu invano. Ci sono processi irreversibili.

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Un commento

  1. Marco Ansalone 16 giugno 2021

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