La parola salva la vita

di:

1001 notte

Una rilettura in chiave simbolica della “Storia del re Shāriyār e della bella Shahrazād” da Le mille e una notte dimostra il potere della parola.

Si racconta – ma Dio ne sa più di noi dal momento che si tratta di dire il vero sugli avvenimenti del passato e sulle cronache dei diversi popoli – si racconta dunque che vivevano un tempo, nell’impero dei Sasanidi, due re fratelli che regnavano sulle isole dell’India e della Cina interna.

Inizia così la Storia del re Shāriyār e della bella Shahrazād, con cui si apre lo scrigno incantato delle Mille e una notte.

In questo lungo racconto, che ha funzione di cornice per l’intera raccolta di novelle, i primi personaggi che si fanno incontro al lettore sono i due re fratelli Shāriyār e Shāhzamān, legati fra loro da saldo affetto reciproco e da un comune destino: entrambi sono stati traditi dalla legittima moglie con un uomo di condizione servile.

Il fratello minore, nello scoprire la propria sposa dolcemente addormentata tra le braccia di uno dei garzoni di cucina, reagisce immediatamente con violenza: sguainala sciabola, uccide i due amanti e getta i loro cadaveri nel fossato che circonda il palazzo.

Il fratello maggiore, invece, dopo aver visto la propria moglie e le sue ancelle unirsi ad alcuni schiavi che si erano nascosti nella reggia in vesti femminili, inizia ad interrogarsi profondamente sulla natura del potere e sulla sua fallacia illusoria: A che cosa potrebbe servirci il potere nella situazione in cui ci troviamo?

Un cammino di ricera

Il potere declinato in forma assoluta, come possesso che cancella le zone di rispetto, trova la sua massima estrinsecazione nello ius vitae necisque, ossia nel diritto di vita e di morte.

Shāhzamān esercita questo diritto senza esitazione alcuna, uccidendo la moglie non appena ne scopre il tradimento. Shāriyār, invece, entra nella dimensione della crisi: che senso ha regnare sul mondo intero, se perfino il potere più grande non offre garanzie rispetto all’essere amati, stimati, benvoluti e non mette al riparo dall’inganno, dal torto, dal tradimento?

Shāriyār propone, dunque, al fratello minore di rinunciare al potere regale e di mettersi in cammino. Camminare indica il desiderio di percorrere e attraversare la crisi nella sua interezza. Assumerla fino in fondo per sciogliere il nodo della domanda di senso che ogni crisi porta con sé.

Dopo un solo giorno di viaggio, Shāriyār e Shāhzamān fanno un incontro spaventoso: dalle onde del mare esce un orrendoʿifrīt[1] nero che porta sulla testa una cassa di vetro chiusa da quattro catenacci d’acciaio. Terrorizzati, i due fratelli salgono su una pianta per nascondersi.

L’ʿifrīt, fermatosi proprio sotto quella pianta, apre i catenacci e fa uscire dalla cassa una ragazza bellissima; presala per mano, la fa sedere ai piedi dell’albero. Poi la mostruosa creatura si sdraia a terra e, posata la testa sulle ginocchia della fanciulla, si addormenta.

La ragazza, alzando gli occhi, scorge i due uomini nascosti tra i rami. Con delicatezza poggia a terra la testa dell’ʿifrīt, fa segno ai due fratelli di raggiungerla in silenzio e li invita ad avere un rapporto d’amore con lei.

I due, per timore che la giovane svegli il mostro addormentato, si vedono costretti a cedere alla richiesta.

Poi la fanciulla riprende in grembo la testa dell’ʿifrīt e, congedandosi dai due sovrani, li ammonisce dicendo loro: Quando la donna vuole una cosa, nessuno al mondo può impedirle di ottenerla.

Incontrare la fanciulla è, per i due fratelli, incontrare la Donna e la sua indomabile alterità, in una sorta di duplicazione e di rovesciamento speculare della loro stessa situazione coniugale. Anche qui c’è una moglie, vincolata ad una sottomissione cieca al maschio che, per quanto orrendo, è suo marito e, in quanto tale, esercita su di lei un dominio assoluto: la tiene sempre con sé, rinchiusa in una cassa, privata completamente della libertà. Eppure, nonostante questo stato di segregazione, la bella fanciulla riesce a sfuggire al dominio del mostruoso marito, per accoppiarsi con gli uomini che lei stessa si sceglie.

La fanciulla non ha forse agito come le loro stesse mogli, che hanno scelto per sé e da sé gli uomini con cui unirsi in amore, anziché limitarsi a subire passivamente chi è stato loro imposto senza tener conto alcuno della loro volontà?

Il mostro si è arreso al sonno, e la giovane è riuscita ad avere ciò che voleva.

Il potere presenta debolezze, cedimenti, incrinature. Non può avere tutto sotto controllo, non può essere sempre, costantemente vigile. Ed è proprio lì, dove la debolezza si palesa, che si gioca la partita tra fiducia e sospetto. Il potere, che non ammette e teme la propria debolezza, ricorre in via preventiva alla coercizione e alla violenza. Ma una piccola crepa sulla sua superficie può bastare come fulcro per la leva della libertà.

La vendetta di Shāriyār e lo stratagemma di Shahrazād

Dopo l’incontro con la bellissima fanciulla sposa dell’ʿifrīt, i due fratelli decidono di far ritorno ciascuno nella propria reggia.

Del fratello minore, Shāhzamān, che già aveva consumato la vendetta verso la propria sposa, non si parlerà più. Al centro della scena rimane il fratello maggiore.

Shāriyār concepisce una terribile punizione nei confronti non solo della moglie, ma di tutta la stirpe femminile: dopo aver messo a morte la moglie che l’aveva tradito, stabilisce di scegliersi ogni giorno una nuova moglie tra le figlie dei suoi sudditi. Ogni notte dormirà con una nuova sposa, che l’indomani mattina verrà condotta a morire dal suo visir.

Ma presto in città si comincia a sospettare. Troppe ragazze spariscono nel nulla. Cosa sta accadendo? Il popolo ha paura, soffre, si lamenta e innalza preghiere per chiedere aiuto e protezione a Colui che ascolta la voce degli afflitti e risponde alle loro preghiere.

Il visir, che ogni mattina provvede all’uccisione delle spose del re, ha due figlie, Shahrazād, la maggiore, e Dunyazād, la più piccola. Shahrazād sente dentro di sé la sofferenza del popolo e non può restare indifferente. Il padre cerca in tutti i modi di contrastare la sua volontà, ma la ragazza ha deciso: vuole essere data in sposa al re, per poter mettere in atto uno stratagemma che libererà dalla paura e dalla morte tante altre giovani vite e l’intero suo popolo.

Shahrazād aveva letto libri e scritti di ogni genere, arrivando persino a studiare le opere dei Saggi e i trattati di medicina. Aveva tenuto a mente un gran numero di poesie e di racconti, aveva imparato i proverbi popolari, i detti dei filosofi, le massime dei re. In effetti, non le bastava essere intelligente e assennata; voleva anche essere istruita e conoscere la letteratura. E i libri che aveva letto, non si era limitata a scorrerli: li aveva studiati tutti con cura.

Prima di recarsi nella camera nuziale del sovrano, Shahrazād concorda i dettagli del suo piano con la sorella minore. Arriva la notte. Dopo l’amplesso, Shahrazād piange e il sovrano gliene chiede ragione. La sposa confida al re il suo desiderio di salutare la sorellina minore che sa di non poter più rivedere, perché al risveglio l’aspetta la morte. Il re acconsente e manda a chiamare Dunyazād, che si siede sul pavimento, accanto al letto e, secondo l’accordo, resta in silenzio. Poi, di lì a poco, si rivolge a Shahrazād, dicendole:

Sorella, se non dormi, raccontami una delle tue belle storie, di quelle che ci aiutavano a far passare le serate. Poi, prima dell’alba, mi congederò da te, perché so bene che cosa ti riserva il domani…

Shahrazād chiede al re il permesso di raccontare una storia alla sorella. Il re acconsente. E, tutta presa dalla sua gioia segreta, Shahrazād inizia il racconto.

“Ascolta”, le disse…

Ascolta. Ecco il punto di svolta. Shahrazād invita all’ascolto la sorellina – bellissima questa complicità sororale! –, ma le sue parole sono in realtà rivolte al re, che resta sveglio tutta la notte ad ascoltare il meraviglioso racconto della sposa. Quando arriva l’alba, la storia non è ancora terminata. Per Dio! Non la ucciderò finché non avrò sentito la continuazione. Il re, incantato dalle parole di Shahrazād, si vede costretto a rimandare la condanna a morte all’indomani. Ma la sposa continuò in tale modo a dipanare il filo dei suoi racconti, interrompendolo alla fine di ogni notte e riprendendolo nel corso della notte successiva, sempre con il permesso del re Shariyār… E mille e una notte trascorsero.

La vita vince, grazie alla parola

Mille e una notte. Non la misura di un computo esatto, ma l’immagine di un tempo lunghissimo e carico di significato. Tanto significativo che la regina, nel tempo di mille e una notte, può concepire e dare alla luce tre figli. Così che, quando tutti i racconti sono terminati, quando non ci sono più storie da raccontare e fili narrativi da dipanare, c’è, comunque, la vita, ci sono tre figli: Il primo cominciava a camminare, il secondo andava a quattro zampe, il terzo era ancora attaccato alla mammella. Lo spazio della debolezza del potere si è fatto spazio aperto alla parola, e la parola ha permesso alla vita di fiorire.

Il re, che aveva conosciuto il potere soltanto come necis potestas, come potere di morte, scopre così che il vero potere di vita non è quello declinato e contrario come magnanima concessione di grazia che permette al condannato di continuare a vivere. Il vero potere di vita è quello fiorito nel grembo di Shahrazād, nel tempo gioioso e ricco di speranza delle mille e una notte.

Vitae potestas. Potere di vita. Potere del generare. Shahrazād conosce la gioia della parola che custodisce gli affetti e libera dalla paura. La parola che salva e genera la vita, sconfiggendo la morte. Prende tra le braccia i tre figli e li presenta al re: Re del tempo, ecco i tuoi figli. Il re Shāriyār piange, stringendo al petto le sue creature.

Shahrazād! Ero deciso a risparmiarti la vita prima ancora che mi presentassi questi bambini, perché ti ho visto casta, pura, fedele e pia. Possa Dio concederti le sue benedizioni. Dio mi sia testimone che d’ora innanzi allontanerò da te tutto ciò che può farti del male.

La vita ha vinto, grazie alla parola.


[1] L’ʿifrīt o jinn (genio) è un essere soprannaturale, di carattere spesso maligno.

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