Bosnia, una democrazia sussidiata

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Nei mesi scorsi, su questa rivista, si sono evocate in più occasioni le elezioni bosniache del prossimo ottobre. Quelle elezioni, definite da più parti come le più importanti dalla fine della guerra, sono caratterizzate da un contrasto irrisolto fra la comunità croata e quella bosgnacca riguardo al sistema elettorale. Un sistema che il leader del partito nazionalista croato-bosniaco HDZ, Dragan Čović, ritiene svantaggioso per i croati di Bosnia. Per questo motivo il finanziamento della macchina elettorale è stato sospeso per mesi ritardandone la messa in moto fino a quando, lo scorso giugno, l’Alto Rappresentante della Comunità internazionale, il tedesco Christian Schmidt, ha deciso di intervenire erogando un finanziamento ad hoc di 12,5 miliardi di marchi (circa 6,5 miliardi di euro).

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Da sinistra a destra: Zeljko Komsic, Milorad Dodik, Sefik Dzaferovic – Copyright REUTERS/Dado Ruvic

Le elezioni politiche del prossimo 2 ottobre avranno dunque luogo grazie all’intervento della Comunità internazionale. La Bosnia diventa così una democrazia sussidiata.

Le divisioni che hanno portato allo stallo del finanziamento della macchina elettorale hanno a che fare con il complicatissimo sistema politico del paese e, per capirci qualcosa, occorre fare un passo indietro.

La Bosnia è una repubblica formata da due entità federate, la Repubblica Serba (Republika Srpska) e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (Federacija Bosne i Herzegovine), quest’ultima divisa in dieci cantoni.

Nel nord-est del paese, al confine con la Croazia, c’è poi il Distretto di Brčko, un’unità amministrativa indipendente che divide in due la superficie della Republika Srpska. Tutto questo fu deciso 27 anni fa a Dayton, Ohio, quando i leader di Serbia, Croazia e della nazione bosgnacca (detta anche bosniaco-musulmana) stabilirono i termini della pace dopo una guerra che, tra il 1992 e il 1995, aveva fatto oltre 100 mila vittime.

Il più complesso sistema politico al mondo

La ratio di una soluzione politica così complicata sta nel fatto che uno dei motivi dietro la guerra di Bosnia fu che nessuno dei tre gruppi nazional-religiosi voleva ritrovarsi a essere minoranza all’interno di un paese dominato da altri. Serbi e croati di Bosnia non accettavano di vivere in una Bosnia a maggioranza bosniaco-musulmana; questi ultimi rifiutavano di rimanere in una Jugoslavia che, dopo l’uscita di Slovenia, Croazia e Macedonia, cominciava a somigliare sempre più a una “grande Serbia”.

Gli Accordi di Dayton del 14 dicembre 1995 crearono una spartizione del paese sulla base delle avvenute conquiste territoriali e consolidarono le decisioni prese con gli Accordi di Washington di un anno prima sulla coesistenza fra bosgnacchi e croati. Poiché, con la fine della guerra, serbi e croati sarebbero diventati di fatto delle minoranze nella neonata Bosnia-Erzegovina, i firmatari di Dayton si inventarono un sistema in cui la rappresentanza politica fosse indipendente dalla struttura demografica del paese e garantisse invece un costante equilibrio di potere fra le tre nazioni che, da quel momento, furono dette “costituenti”.

L’ordine istituzionale, dunque, fu concepito in modo tale da impedire che un gruppo nazionale prevalesse sull’altro e fra i diversi strumenti di garanzia vi fu anche il sistema elettorale. I serbi si ritrovarono così a governare un’entità tutta loro. I croati, minoranza più esigua e dispersa in più territori, si federarono con i bosgnacchi dando vita ai dieci cantoni in cui è divisa la metà occidentale della Bosnia. A livello statale, le tre nazioni avrebbero condiviso equamente il potere politico attraverso un sistema di quote.

Si ebbe così uno stato con tre Presidenti della Repubblica, due entità, un distretto, dieci cantoni, una decina di primi ministri e circa 700 parlamentari, calcolando anche quelli dei cantoni. Tutto ciò in un paese più piccolo del centro Italia e con tre milioni e mezzo di abitanti, meno dell’Area Metropolitana di Roma.

Gli interessi di Serbia e Croazia

Torniamo quindi alle elezioni del 2 ottobre e al perché siano accompagnate dal rischio di far deflagrare nuovi conflitti.

Dalla fine della guerra, Serbia e Croazia hanno incoraggiato una politica di nazionalizzazione dei serbi e dei croati di Bosnia concedendo la cittadinanza dei rispettivi paesi a qualunque cittadino bosniaco ne avesse i requisiti. È successo così che numerosi cittadini bosniaci siano anche cittadini serbi o croati residenti all’estero. Oltre a essere garanti degli Accordi di Dayton, dunque, Serbia e Croazia hanno un interesse politico a preservarne l’assetto istituzionale, perché ciò permette loro di conservare un’influenza importante sulla politica bosniaca, tanto che il partito di maggioranza croato-bosniaco, l’Unione Democratica Croata (HDZ) è un’estensione di quello croato fondato da Franjo Tudjman.

Analogamente, in coincidenza con le ultime elezioni in Serbia, a Banja Luka sono comparsi cartelloni della campagna del presidente serbo Vučić. Per avere idea del significato di questa cosa, è come se a Torino comparissero dei 6×3 con la foto di Emmanuel Macron e a Venezia con quella del cancelliere austriaco Nehammer.

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Un cartellone elettorale recante la scritta “Pace. Stabilità. Vučić”.

In contrasto alla deriva nazionalistica, nel 2002 l’Ufficio dell’Alto Rappresentante decretò che ogni cantone dovesse eleggere un serbo, un croato e un bosgnacco alla Camera dei popoli (una sorta di camera alta del parlamento) a prescindere dalla composizione demografica del cantone. Ciò ha significato che, nei cantoni a larga maggioranza bosgnacca (i più numerosi), il rappresentante croato venisse di fatto votato dai bosgnacchi, con la prevedibile conseguenza di favorire candidati estranei all’influenza di Zagabria e alla piattaforma nazionalista dell’HDZ.

L’obiettivo dichiarato della comunità internazionale è sempre stato di incoraggiare lo sviluppo di una comunità civica entro cui le nazioni costituenti potessero riconoscersi e cooperare senza sentirsi minacciate e senza dover compromettere la propria storia e identità. Tuttavia, la frammentazione politica del territorio ha favorito l’instaurazione di potentati locali che ricercano il consenso del loro elettorato evocando incessantemente lo spauracchio dell’annientamento e fomentando, per converso, l’orgoglio nazionalistico.

Oltre a ciò, la popolarità fra i bosgnacchi del Partito d’Azione Democratica (SDA) di Bakir Izetbegović, che ha nel programma la creazione di una Bosnia unitaria islamica e coltiva stretti rapporti con Turchia e Iran, non fa ben sperare sulla riuscita del progetto di una Bosnia civica, cioè laica e federale, modellata sui paesi democratici più avanzati. La campagna elettorale non lascia dubbi in proposito.

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Un uomo dal nome riconoscibilmente bosgnacco posa accanto alla scritta “Anch’io ho difeso la Bosnia Erzegovina”. La didascalia riporta la professione e lo stato civile.

Negli ultimi anni il partito che i croato-bosniaci votano a maggioranza, lo HDZ, ha perso posizioni e, nelle elezioni del 2 ottobre, con l’attuale legge elettorale, potrebbe essere escluso dalla Camera dei popoli.

Episodi di violenza nazionalistica sono già esplosi nelle settimane scorse, come la devastazione del cimitero dei partigiani a Mostar, un monumento della vecchia Bosnia jugoslava, simbolo di decenni di pacifica convivenza.

Fonti diplomatiche riferiscono che, se l’HDZ dovesse perdere le elezioni, è probabile che scoppino disordini. E c’è chi sostiene che Zagabria potrebbe arrivare a sospendere gli Accordi di Dayton, ridando così slancio alle spinte secessionistiche della Republika Srpska, da tempo avviata lungo questa china.

Il nodo da sciogliere

Per scongiurare simili esiti, l’Alto Rappresentante ha recentemente annunciato di voler emendare la legge elettorale per far sì che, nei cantoni in cui una delle nazioni costituenti abbia meno del 3% di residenti, non venga eletto alla Camera dei popoli alcun rappresentante di quella nazione.

È apparso subito a tutti chiaro che il senso della proposta è di far sì che, laddove la popolazione croata costituisse meno del 3% di un cantone, non verrebbe eletto alcun rappresentante croato da quel cantone. Di conseguenza, i rappresentanti croati della camera alta, che, secondo la Costituzione, devono comunque raggiungere un numero fisso, avrebbero maggiore probabilità di essere eletti in cantoni a maggioranza croata, cosa che ribalterebbe il favore dei pronostici verso candidati del partito nazionalista HDZ.

I bosgnacchi non l’hanno presa bene. A fine luglio una folla di migliaia di persone si è riversata davanti all’ufficio dell’Alto Rappresentante a Sarajevo per protestare contro questa decisione che i critici sostengono essere discriminatoria e illegale. Di fronte al coro di proteste, Schmidt ha fatto parzialmente marcia indietro, rimandando alla politica locale la decisione sul da farsi.

Nessuna decisione è stata ancora presa e non si sa con quali regole si voterà il 2 ottobre. Fra retorica incendiaria e stallo istituzionale, le elezioni di ottobre potrebbero essere le ultime della Bosnia Erzegovina come l’abbiamo conosciuta finora.

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