Covid-19 e politiche globali

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Shangai

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Sto osservando da un mese Shangai. Perché sta morendo così tanta gente a New York e non a Shangai, una megalopoli in cui vivono accalcati 25 milioni di abitanti – solo a cinque ore di treno da Wuhan?

Amartya Sen ha teorizzato, in una sintesi divenuta famosa, che la democrazia elimina il problema della fame e di altre catastrofi ad ampia portata grazie alla sua combinazione di libertà, prontezza nel far fronte agli eventi e flessibilità istituzionale. Il punto di partenza di Sen era precisamente il fallimento della Cina di Mao di fronte alla Grande carestia. E una pandemia invece? Cosa significa Shangai per il futuro della politica internazionale e per l’ordine liberale del mondo? In merito alcune brevi considerazioni.

Politica internazionale

Uno dei tratti politici di maggior rilievo sul piano della risposta globale al Coronavirus è stata la mancanza di coordinazione internazionale. Da un lato, si tratta di un aspetto che può in parte sorprendere. Per anni studiosi in ambito delle relazioni internazionali, da David Held a Bob Keohane, hanno sostenuto che la natura  specificamente transnazionale delle grandi questioni internazionali (come  migrazioni,  riscaldamento globale, terrorismo e conflitti cibernetici) dovrebbe incentivare la cooperazione globale su una scala molto più ampia di quanto non fosse tipico nei sistemi internazionali precedenti.

Sotto alcuni punti di vista, il Coronavirus sembrerebbe essere esattamente il tipo di problema che questi teorici delle relazioni internazionali avevano in mente: una forma di violenza senza confini né basi statali, che caratterizza la nostra epoca di globalizzazione e ne convoca le possibilità globali. Nel suo saggio del 2006, Reframing Global Governance: Apocalypse Soon or Reform, Held fa della diffusione globale di una malattia un esempio cruciale del nuovo tipo di problemi internazionali che richiedono forme inedite di cooperazione globale.

Eppure, tali forme di cooperazione globale non si sono manifestate, per una serie di ragioni, ognuna delle quali  merita attenzione.

Innanzitutto, come evidente da prima del 2016, è chiaro che il potere e l’attenzione degli Stati Uniti, se non propriamente in declino, sono tuttavia rivolti al proprio interno, prendendo poi,  soprattutto con Trump, una forte svolta isolazionista. In nessun modo Trump ha tentato di assumere una leadership globale nella gestione della crisi provocata dal Coronavirus.

Poco successo hanno avuto i tentativi di delineare una leadership globale da parte di altri. La voce dell’ONU e dell’Unione Europea è stata sommessa; e i piani dei singoli stati in Europa e altrove non hanno mai raggiunto il livello di una decisa convocazione all’azione internazionale. In altre parole, il Coronavirus sembra aver confermato il fragile stato di salute dell’ordine globale liberale, da un lato, e i limiti della flessibilità creativa del liberalismo nel fare da volano per un’azione globale, dall’altro.

Eppure non vi è nulla di fatalmente inevitabile in questa situazione. È possibile immaginare uno scenario diverso: uno in cui un’America più globalista, insieme a un G7 più determinato, a un’Unione Europea più solidale, a una ONU più incisiva e a una Cina più cooperativa, avrebbero mobilizzato collettivamente le loro capacità politiche verso una risposta vincente per tutti davanti alla pandemia.

Una risposta che avrebbe potuto coordinare meglio la distribuzione delle forniture e aiuti d’emergenza, e la diffusione di linee guida sanitarie così da rafforzare e riaffermare il sistema internazionale liberale anziché indebolirlo.

Perché non abbiamo un video youtube di Trump, Xi e Guterres che indossano insieme le mascherine e si fanno paladini del futuro globale? Perché non una videoconferenza di Macron, Merkel e Conte ai popoli d’Europa con la IX di Beethoven in sottofondo?

Da un certo punto di vista, la situazione attuale potrebbe essere attribuita a una scarsa immaginazione morale internazionale e non solo alle debolezze strutturali o istituzionali dell’ordine globale liberale.

D’altro lato, la natura stessa della crisi ha  indebolito questa possibilità e ha messo in risalto la centralità delle capacità di risposta  del singolo stato, alimentando così, invece di metterle a freno, le dinamiche di sovranità nazionale.

La minaccia del Coronavirus va affrontata sul territorio e per questo governanti locali, sia a livello regionale sia a quello statale (come Cuomo e Zaia), e nazionalisti come Xi, emergono come agenti  principali nel corso della crisi – non diplomatici internazionali, politici e ministri degli esteri.

Mentre il virus si fa beffa dei confini statali, sono proprio i poteri statali e le forme locali di governo a riemergere come protagonisti delle scelte, dalla coordinazione di team sanitari d’emergenza all’applicazione delle misure di distanziamento sociale. Questo marca una differenza importante rispetto alle risposte a situazioni di crisi come il terrorismo internazionale o il riscaldamento globale, che avevano suscitato un coordinamento internazionale.

Tutto questo getta benzina sul fuoco dell’ondata di autoritarismo che sta attraversando oggi il mondo, con le sue accuse di declino della democrazia liberale – soprattutto quando quest’ultima viene valutata non per il suo valore intrinseco ma in termini meramente tecnici, cioè nella sua capacità di innovare e di trovare soluzioni efficaci a nuovi problemi, dalla carestia alla pandemia.

E qui torniamo a New York e Shangai. Anche se la Cina mente sui suoi numeri – e a seconda del grado con cui lo fa –, il suo successo a oggi nel fare ciò è la prova evidente del potere di cui i nuovi regimi autoritari hanno saputo impadronirsi in un mondo caratterizzato da comunicazione aperta e economia liberalizzata. Questo non è l’autoritarismo chiuso di Mao e potrebbe risultare più attraente e durevole di altri modelli, soprattutto in assenza di una contro-narrazione convincente e di una risposta adeguata. Questo vale non solo per Xi, ma anche per altri autoritari liberali e democratici illiberali di ogni genere – come Erdogan, Putin, Orban e il resto della compagnia.

In questa prospettiva, il destino di Shangai e di New York potrebbe essere ricordato come una sconfitta storica.

Cattolicesimo politico e Coronavirus

Quale potrebbe essere il ruolo della Chiesa in questo momento di riassestamento geopolitico? La dinamica abbozzata sopra, che intercetta anche la recente intensificazione globale della contrapposizione fra tendenze sovraniste e cosmopolite, verosimilmente avrà ricadute simili  sul cattolicesimo politico.

Uno degli sviluppi più importanti nel posizionamento politico cattolico degli ultimi cinque anni, sia in Europa sia negli Stati Uniti, è stata la mobilitazione di forze politiche e religiose a supporto di un’idea forte di nazionalismo cristiano. Questo nuovo movimento sovranista cattolico ha creato una nuova alleanza tra politici e agitatori come Orban, Bannon e Salvini e intellettuali conservatori come Dreher, Reno e De Mattei in un modo che non dovrebbe essere preso alla leggera.

La rivista First Things, attualmente diretta da Reno, ha giocato un ruolo centrale nel teorizzare una comprensione religiosa più stretta ed esplicita dello stato-nazione, difeso come il miglior baluardo della libertà religiosa contro forme aggressive di umanesimo laico e la sua visione globalista. Da qui deriva il plauso della destra cattolica per Orban e la sua attrazione verso Salvini e il Front National.

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Sembra essere chiaro che questo movimento vede i suoi istinti politici confermati dalla crisi attuale, come suggerisce larvatamente un lungo articolo pubblicato su First Things questo mese, in cui si elogia la politica di Salvini nell’Italia del Coronavirus. Un movimento che è in frizione col papato di Francesco, ma è anche in contrasto con la dinamica internazionalista della modernità cattolica che era stata fatta propria dalla Chiesa dopo le due guerre mondiali.

Se la Chiesa non vuole arretrare rispetto alla sua visione della modernità  e, allo stesso tempo, vuole far fronte in maniera efficace al nuovo autoritarianismo e isolazionismo geopolitico, allora essa deve mettere mano a una visione ben più solida e teologicamente fondata di internazionalismo cattolico. Una visione che va oltre al sostegno alle dichiarazioni dell’ONU o alle formule oramai esauste dell’internazionalismo liberale attualmente in circolo.

Piuttosto si tratta, a mio avviso, di rendere più solido il profilo integrale della sua visione di sviluppo umano e politico, portando in maniera decisa la lettura ecclesiale della misericordia e della sofferenza nel dibattito pubblico sulla libertà, la dignità umana e la cooperazione internazionale che è sorto in maniera evidente nel corso di questa pandemia.

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L’attenzione di Francesco al dialogo interreligioso è una risorsa decisiva per muoversi in questa direzione (cf. SettimanaNews). Come progetto, il dialogo interreligioso cerca di fondare una visione di cooperazione internazionale sulla solidarietà spirituale e teologica. Dichiarazioni e documenti recenti sulla diffusione della pandemia da Coronavirus, tra cui quelli della nuova Alliance of Virtue e di Religions for Peace, hanno risuonato con vigore nell’ambito internazionale e le parole del papa sulla ricostruzione di una civiltà dell’amore post-pandemia sono da leggere in questo senso.

Esse puntano alla possibilità di una comprensione del mondo che sia teologicamente valida e religiosamente feconda; una visione che sia in grado di sfidare l’ordine mondiale e traghettarlo al di là dell’attuale divisione fra sovranisti e cosmopoliti.

  • Michael Driessen è professore di scienze politiche e relzioni internazionali presso la John Cabot University di Roma; dove è direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali e co-direttore della Interfaith Initiative.

Coronavirus and Global Politics: Short Notes

I have been contemplating Shanghai all month. Why are so many people dying in New York? Why not in Shanghai, that densely packed megacity of 25 million residents merely five hours by train from Wuhan? Amartya Sen famously theorized that democracy eliminates the problem of famine and other widespread catastrophes thanks to its combination of freedom, responsiveness and institutional flexibility.

He was especially thinking about the failure of Mao’s China to contain the Great Famine. But what about pandemics? What does Shanghai mean for the future of international politics and the liberal world order? A few short notes.

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Coronavirus and International Politics

One of the most striking political features of the global coronavirus response has been the absence of international coordination. On the one hand, this is relatively surprising. For years, liberal international relations scholars from David Held to Bob Keohane have argued that the specific, transnational nature of contemporary international problems – like migration, global warming, terrorism and cyber warfare – ought to incentivize global cooperation to a larger degree than in previous international systems.

On some level, coronavirus would seem to be precisely the type of problem these theorists had in mind, the sort of borderless, non-state based violence that characterizes our era of globalization and summons its global possibilities.[1] And yet, this has not been the case, and for a number of reasons, all of which are revealing.

First, as has been evident for some time, since before 2016, American power and attention, if not fully waning, have shifted inward and, especially under Trump, taken a dramatic isolationist turn. There has been no attempt at global leadership on the coronavirus crisis by Trump. And there has been little success asserting global leadership by others during the crisis. The voice of the UN and the EU have been feeble, and the plans of single states in Europe and elsewhere have not added up to an international call with teeth- there has been no real, coordinated action or sense of mounting global cooperation so far during this pandemic. Coronavirus, in other words, seems to have confirmed the fragile health of the liberal world order, and the limits of liberalism’s creative flexibility to channel international action.

On the one hand, there is nothing inevitable about this situation. It is easy enough to imagine a fairly different scenario, one in which a more globalist-oriented United States, together with a more determined G7, a more solidarity-oriented EU, a more muscular UN and a more cooperative China collectively mobilized on their political capacities towards a more win-win response, one which could have better coordinated the distribution of emergency supplies, relief aid and health guidelines in a way which would have strengthened and reaffirmed the liberal international system rather diminishing it.

Where’s the sunny youtube video of Trump, Xi and Gutteres wearing coronavirus masks together and offering succor to the global future? Why no joint Macron-Merkel-Conte zoom address piping Beethoven’s 9th to the peoples of Europe? To some degree, it could be argued, our situation represents as much a failure of the international liberal moral imagination as it is a reflection of its current structural or institutional weaknesses.

On the other hand, the very nature of the crisis itself has also worked against this possibility and highlighted the centrality of individual state capacity to implement response measures, increasing rather than diffusing the dynamics of sovereignty in the process. It is partly because of the nature of the threat itself, therefore, that governors, including state and regional ones like Cuomo and Zaia, as well as nationalist ones like Xi, have emerged as the central cast of agents in this crisis, as opposed to international diplomats, policy-makers or foreign ministers.

While the virus ignores state borders, effectively responding to it has driven up the premium on local governing skills – from the coordination of emergency medical teams to the enforcement of social distancing measures – especially relative to other forms of international action which we might have associated with recent responses to global crises like international terrorism or global warming.

All of this blows new wind into the sails of our current wave of authoritarianism breaking across the globe, and the claims these regimes are capable of mounting about the decline of liberal democracy, especially when evaluated in its more bare technical terms- as in the reduction of Sen’s insight to “Democracies are better at preventing famines.”

If this is the driving measure of current liberal world leadership – “we do innovation better” – then the coronavirus fates of Shanghai and New York may be remembered in terms of victory and defeat on a grander historical scale than we are currently contemplating. Even if China is lying about its numbers – and depending somewhat on the order of scale – its very success in doing so is striking evidence of the power that new authoritarian regimes have learned to wield in an open media and liberalized economic environment.

This is not Maos’ closed authoritarianism and could well be the more attractive and lasting one, particularly in the absence of a compelling counter narrative and response. And as for Xi, so, too, for liberal authoritarians and illiberal democrats of various stripes elsewhere, as in Erdogan, Putin, Orban and the rest.

Catholic Politics and Coronavirus

What might be the role of the church in this shifting geopolitical moment? The dynamics sketched out above, which closely intersect the recent intensification of sovereigntist v. cosmopolitan trends in world politics, are likely to impact parallel debates within contemporary Catholic politics in similar ways. One of the most important developments in Catholic politics over the last five years, in fact, across both Europe and the United States, has been the mobilization of political and religious forces for a strong idea of Christian nationalism. This new Catholic sovereigntist movement has linked together politicians and agitators like Orban, Bannon and Salvini to conservative intellectuals from Dreher, Reno, and de Mattei in ways that should not be read lightly.

The Journal of First Things, currently edited by Reno, has been central in these efforts to build a Catholic intellectual edifice in favor of a more closed and more explicitly religious understanding of the nation-state, defended as a better means to protect religious freedom from aggressive forms of secular humanism and its globalist designs.  Hence, the Catholic right’s praise for Orban and its attraction to Salvini and Le Front National.

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It seems clear that this movement views the current state of things as reinforcing their political instincts, as a long First Things article this month lauding Salvini’s politics in coronavirus Italy more than subtly hints at. This movement is at odds with Pope Francis’ papacy, but it is also at odds with the internationalist dynamics of Catholic modernity that were embraced by the church in the aftermath of the World Wars.

If the church wishes to defend that vision of modernity, and, at the same time, effectively counter the dynamics of new authoritarianism and geopolitical isolationism, it will have to renew a much thicker and theologically creative vision of Catholic internationalism, one which does not simply append itself to UN declarations or parrot the hollowed out liberal internationalism currently on display.

Rather, the task, I would argue, is to fortify the integral in its vision of human and political development, to bring the church’s understanding of suffering and mercy more powerfully to bear on the questions of freedom, human dignity and international cooperation raised in these times of pandemic.  Francis’ attention to interreligious dialogue represents an important resource in this direction.

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Interreligious dialogue, as a project, grounds a vision of international cooperation in a public affirmation of spiritual and theological solidarity,. Recent declarations on the coronavirus outbreak by emergent interreligious networks, including the statements offered by the new Alliance of Virtue and Religions for Peace, have rung with particular impetus.

The Pope’s recent statement on rebuilding a post-pandemic “civilization of love” can be read as an encouraging sign  in this direction. These declarations point to the possibility of a theologically rich and religiously fecund understanding of the world, one which is capable of challenging world politics and orienting them beyond our current sovereigntist-cosmopolitan divides.

Michael Driessen is Associate Professor and chair of the department of Political Science and International Affairs at John Cabot University, Rome, where he also co-directs the University’s Interfaith Initiative.

[1] In his classic 2006 article, “Reframing Global Governance: Apocalypse Soon or Reform!” Held, in fact, names the global spread of disease as a critical example of new international problems which require new forms of global cooperation. Keohane has made similar arguments (while offering different solutions) in his writings on the environment and other international dilemmas.

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