Rivoluzione in Iran

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Mi son fatto l’idea – come già scritto qui – che quella in corso in Iran non sia una protesta, bensì una rivoluzione. L’ingresso dei bazarini – cioè dei commercianti, anima economica del sistema – nell’agone, insieme al movimento femminile, ai giovani, ai lavoratori e ai tanti diseredati dell’inferno iraniano – vero sostegno o stampella del sistema, sinora, degli ayatollah –, conferma che questa è proprio una rivoluzione.

Il fatto che qualcuno sostenga che molti commercianti chiudono i loro esercizi più per paura dei danni derivanti dagli scontri tra le forze dell’ordine e i manifestanti, involontariamente, conferma quanto la maggior parte degli osservatori sostiene: si tratta di una rivoluzione!

Ai confini le minoranze

C’è un dato – profondamente rivoluzionario – emergente da tutte le piazze del mondo in cui gli iraniani vanno manifestando la loro ostilità al regime. Queste dicono che le zone ove più sanguinosa e spietata è la repressione sono quelle di confine, abitate dalle minoranze etniche curde, azere, armene, beluci, arabe e così via.

L’unità nazionale così vacillerebbe, tanto che, ad agitarne lo spauracchio, sono i paramilitari del regime, per giustificare la loro crudeltà, persino contro bambini. Eppure, dalle piazze del mondo e dai confini del Paese, si leva una voce unanime – iraniana – indivisa per etnie.

Scrivo, dunque, di una sola rivoluzione, con molti motori.

Balzano agli occhi – di chi abbia visto a suo tempo e ricordi – molte analogie rispetto alla rivoluzione che portò Khomeini al potere: l’incendio della casa natia trasformata in museo a Khomeini, è, per me, oggi la conferma che quella rivoluzione non fu la rivoluzione khomeinista, bensì una rivoluzione dai molti motori. Il golpe khomeinista provvide poi a reprimere e a mettere a tacere tutto il resto.

La caduta dello scià

Ricordiamo dunque quel golpe. La rivoluzione contro lo scià non vide per protagonisti i mullah iraniani, molti dei quali «quietisti». La rivoluzione vide, anche allora, come protagonisti soprattutto i giovani, il movimento studentesco (islamico e non), i liberali, i comunisti del Tudeh, i bazarini.

Tra tutti questi spiccavano figure affatto compatibili con Khomeini, quali il primo ministro Mehdi Barzagan, autentico pilastro del passaggio all’epoca post-scià, o ancora il ministro degli esteri dell’Iran rivoluzionario – guida ed espressione del partito liberale – Ebrahim Yazidi. Cosa accadde di entrambi? È molto semplice: si dimisero. Perché?

Nel 1979 l’Iran fu chiamato a scegliere tra monarchia e repubblica con un referendum e il 99% degli iraniani votò per la repubblica. Pochi notarono che – sotto la pressione di Khomeini – sulla scheda elettorale c’era scritto Repubblica Islamica. Allora, a parte qualche individualità isolata, nessuno ebbe ad eccepire.

Dopo la vittoria referendaria il governo Bazargan dichiarò abrogata la precedente Costituzione e avviò i lavori per il varo della nuova. A ottobre, però, lo stesso governo si dimise in aperto dissenso all’azione con cui le milizie khomeiniste avevano fatto ostaggi nell’ambasciata americana di Teheran. Con quell’atto cominciò il golpe.

Da quel momento in poi il principio teocratico – sempre respinto dalle principali scuole teologiche sciite – divenne il pilastro fondamentale del nuovo Iran, sino ad oggi: Khomeini – ovvero l’ombra di Dio sulla terra – avrebbe infatti garantito non la sovranità del popolo, bensì, direttamente, l’autorità di Dio e della legge divina sul popolo.

Il secondo golpe khomeinista

Se vogliamo, possiamo distinguere un secondo golpe khomeinista nella storia dell’Iran. Dieci anni dopo, il 14 febbraio del 1989, Khomeini emise la celebre fatwa contro Salman Rushdie: per sua disposizione chi avesse ucciso Rushdie avrebbe ricevuto ogni onore in terra e ricompensa dal cielo. Proprio in quelle ore l’Unione Sovietica stava per ritirarsi dall’Afghanistan.

I rivali di Khomeini – i fondamentalisti sunniti che avevano combattuto in Afghanistan – già si sentivano i vincitori. Khomeini tolse loro il trionfo dalle mani: l’Islam eversivo a livello planetario sarebbe stato il suo, non il loro. Così i pasdaran, ossia i «guardiani della rivoluzione», il corpo speciale, quasi personale – affiancato all’inaffidabile esercito nazionale – si dedicò non solo a reprimere ma anche a diffondere la rivoluzione teocratica in Libano, Siria, Iraq, Yemen, tramite la destabilizzazione e la presa su ogni Islam di diversa tradizione.

Tenere insieme le anime della rivoluzione: Ali Shariati

Ma come ha potuto inizialmente Khomeini tenere insieme le diverse anime della rivoluzione iraniana alla fine degli anni ’70? In realtà non lo fece direttamente, mai. Chi riuscì a tenere le fila fu un intellettuale unico nella storia islamica: Ali Shariati.

Pensiamo che gli ayatollah, negli anni Settanta, avevano proibito la diffusione dei suoi libri e chiesto a Khomeini di dichiararlo apostata. Questi non si oppose, ma si astenne dal provvedere ufficialmente, perché – astutamente – sapeva che solo Shariati avrebbe potuto indirizzare la forza dei diversi motori della rivoluzione iraniana in un’unica direzione.

Definito un islamo-marxista, Shariati fu il primo pensatore a dar forma ad un pensiero ibrido rivoluzionario, così come lui era lui uno spirito ibrido, dalla sua formazione in Francia. Aveva infatti imparato l’Islam andando a lezione dall’islamologo cristiano Louis Massignon; influenzato dagli esistenzialisti – dagli amici Sartre e Fanon –, amava, in particolare, il pensiero del grande rivale di Sartre, Albert Camus. Con Shariati l’Islam è entrato dunque in una sorta di «teologia islamica della liberazione».

Sebbene fosse evidente in Shariati la possibilità di un certo fondamentalismo perché chiaramente ideologico, il suo era un pensiero di larghissima convergenza con il cristianesimo, l’ebraismo, la modernità e la democrazia: il cuore del suo pensiero era teso all’incontro e al dialogo.

Per lui il clero sciita non era che una classe che si era autonominata intermediaria tra l’uomo e Dio, chiudendosi in un letteralismo incapace di comprendere che solo l’incontro di comunisti e liberali con un Islam non clericale avrebbe avuto una felice possibilità di riuscita: liberatorio.

La predicazione di Shariati, favorita dai movimenti studentesco e dai riformatori islamici, non era centrata sulle moschee, bensì sul respiro ibrido del movimento Ershad. Shariati era infatti convinto che si dovessero riscoprire le figure fondanti dell’Islam sciita e che le sale di preghiera per Husayn – ove nel mese santo si commemorava il martirio dell’Imam Husayn – ne potessero essere il cuore, se fuori dal controllo clericale.

Analogie

Così, proprio come oggi, al centro della rivoluzione ci fu soprattutto l’incontro tra i riformisti dell’islam, i giovani e facoltosi commercianti, i bazarini di oggi e di allora.

Se infatti oggi i bazarini chiudono i negozi nonostante le pressioni dei mullah, allora molti di loro finanziarono la grande sala di preghiera per Husayn – l’Ershad – vocabolo che possiamo tradurre come ricerca o intelligenza della verità. I giovani accorrevano a Ershad, a migliaia. La sfida al clericalismo era lanciata.

Il successo straordinario dell’iniziativa di questa grandissima sala di preghiera testimoniò il cuore rivoluzionario del nuovo Iran. Ma anche allora, come oggi, emersero gruppi armati: marxisti-leninisti, ma non solo.

Shariati parlava dell’Imam Husayn, partito disarmato per il martirio per dare testimonianza del vero Islam. Shariati non poteva sostenere quei piccoli gruppi armati, per quanto la sua anima rivoluzionaria fosse radicale. La visione dell’Imam Husayn e del suo martirio recava evidenti similitudini cristiane e la teologia della liberazione di Shariati non poteva cedere alle armi. Le masse avrebbero dovuto divenire protagoniste, non le avanguardie o le «ali marcianti».

Tutto questo per dire che l’odierna rivoluzione iraniana contiene molti aspetti della precedente, che non fu semplicemente khomeinista, bensì, appunto, ibrida, come il suo vero ideologo Shariati, fuggito dall’Iran per timore di ciò che sarebbe divenuto effettivamente l’Islam iraniano di Khomeini.

Lo confessò ad alcuni suoi amici, prima di fuggire e di morire di crepacuore in Europa: «Sembra che voi non vi rendiate conto di quanto sta accadendo. I nemici dell’Islam stanno isolando e scacciando tutti coloro che difendono il vero Islam. Con l’aiuto dei custodi della religione ufficiale e dei mercanti del paradiso stanno tentando di forgiare una religione che ripugnerà alle nuove generazioni, spianando la strada al ritorno di dottrine islamiche devianti».

Il rischio che questa nuova rivoluzione – dopo l’inferno khomeinista – prenda un corso antireligioso non può essere escluso (qui).

Uno dei principi insegnamenti da Shariati resta valido: «Non stupisce – diceva infiammando i giovani a Ershad – che chi ha il petrolio non sappia trasformarlo in energia, dal momento che ha cultura ma non sa trasformala in pensiero».

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