La Siria dopo il terremoto

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Dopo aver interpellato l’operatore di Caritas Italiana in Turchia (qui), abbiamo ascoltato Danilo Feliciangeli al suo recente rientro dalla Siria, l’altro Paese devastato dal terremoto e da 12 anni di una guerra di cui ricorre, in questi giorni, il triste anniversario. L’intervista è curata da Tiziana Bacchi e Giordano Cavallari.

  • Danilo, dove sei stato in Siria, da cui sei tornato nei giorni scorsi?

Il mio viaggio dei primi giorni di marzo è iniziato da Damasco, dove sono stato qualche giorno nella sede di Caritas Siria per incontri con la direzione e il gruppo di operatori esecutivi della Caritas. Ho partecipato ad alcuni incontri istituzionali col nunzio, mons. Zenari, e pure con una delegazione della CEI col segretario generale, mons. Baturi.

Da Damasco sono andato a Latakia, sulla costa, per lavorare con la Caritas locale nel post-terremoto, oltre che su altre realizzazioni intraprese in passato. Mi sono poi spostato ad Aleppo. Sono arrivato qualche ora prima che fosse bombardato l’aeroporto (il 7 marzo). Mi sonoa  fermato ad Aleppo per quattro giorni, quindi sono tornato, facendo scalo di nuovo a Damasco e Beirut per Roma.

  • Qual è stato l’obiettivo del viaggio per Caritas?

L’obiettivo primario era avere una percezione diretta della situazione – dopo un terremoto così devastante nella zona a nord della Siria – e quindi per delineare un primo piano di intervento, non solo con Caritas Internationalis, bensì proprio come Caritas Italiana, col frutto della nostra raccolta, con le nostre risorse, sempre in stretto rapporto con Caritas Siria e le Caritas locali siriane.

Aiutare Caritas Siria in questo momento di estrema difficoltà da tutti i punti di vista era e resta la priorità. I bisogni della popolazione sono enormi: sia i bisogni primari generati da i12 anni di guerra, sia i “nuovi” bisogni prodotti dal terremoto. Può apparire strano a noi dall’Italia, ma tra i bisogni più urgenti c’è quello che chiede un forte supporto psicologico. Ho incontrato e visto persone che, letteralmente, non ce la fanno più: persone più che stressate, quasi senza più alcuna speranza. L’aspetto psicologico è forse quello più pesante nel quadro di disdetta generale.

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  • Qual è dunque la situazione che hai trovato?

Come sto dicendo, la sensazione provata è di grande sconforto e smarrimento. Anche gli operatori siriani condividono in prima persona tale sensazione. È inutile fare troppe pressioni, ora, con i progetti e i soldi da spendere. Servirà tempo. L’unico aspetto positivo è che ora sta tornado un po’ di attenzione internazionale sulla Siria, anche se non sappiamo quanto potrà durare.

È vero che, a più di un mese, è stato fatto poco rispetto alle stesse limitate possibilità. Ma capisco il senso di impotenza che ha pervaso un po’ tutti nella situazione data.  Dobbiamo essere molto attenti ad aiutare questi amici e colleghi a recuperare i processi di animazione umanitaria.

Sovraccaricarli di burocrazia – pur con tutta la trasparenza dovuta nel caso in cui girano tanti soldi – sarebbe, secondo me, un grosso errore. Bisogna ragionare per comunità, per senso di comunità, più che per progetti ed efficienza. Ce lo diciamo sempre, ma va detto, particolarmente, in questo caso.

  • Evidentemente parli delle comunità siriane multietniche e multireligiose: è così?

Certamente, perché le tensioni sono ancora ben presenti. Non saprei dire se il terremoto abbia acuito o temperato le tensioni create ad arte dagli Stati che si stanno tuttora misurando in Siria. Il bombardamento dell’aeroporto di Aleppo – mentre si stavano scaricando gli aiuti internazionali per i terremotati – non è stato sicuramente un buon segno, con tutte le difficoltà che già c’erano e restano per portare gli aiuti di cui c’è un gran bisogno, in Siria come in Turchia.

Già i controlli degli Stati – per dire così – sono pesantissimi, sulle ONG. Poi c’è la corruzione. Poi ci sono le fazioni politiche. Ci mancano pure le bombe!

  • Puoi chiarire il fatto del bombardamento di Aleppo, visto che ne sei stato – quasi – testimone?

Posso solo dire di essere stato svegliato nella notte da forti esplosioni, non confondibili con scosse di terremoto o altro. È stata forse la prima volta che mi sono trovato così vicino alle bombe. Mi sono immedesimato nella gente del posto che è vissuta sotto bombardamenti continui, per anni, durante l’assedio di Aleppo. È una sensazione traumatica, forte, paralizzante.

Allo sbarco del volo umanitario delle Nazioni Unite, al mattino, avevo visto gli operatori delle varie agenzie scaricare materiale che mi sembrava, naturalmente, appunto, di tipo umanitario. Non ho pensato certamente che da qualche parte – lì – ci fossero pure delle armi. L’aeroporto è funzionale agli aiuti, indispensabile. Tutto questo è stato interrotto per i danni arrecati alle strutture.

Non sta a me dirlo, ma mi è parso che l’obiettivo di chi ha lanciato i missili fosse proprio quello di mettere fuori uso l’aeroporto in un momento già molto difficile. Da quello che mi hanno detto – non sono stato evidentemente in grado di verificare – gli ordigni sono partiti da navi israeliane sulla costa mediterranea e sono piovuti su Aleppo, pare, con grande precisione. Mi sembra sconcertante. Eppure, se ne è detto poco o nulla.

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  • La Conferenza episcopale italiana sta sostenendo gli interventi in Siria?

La visita di mons. Baturi era stata stabilita prima del terremoto. Chiaramente, dopo il terremoto, ha assunto anche altre motivazioni. La CEI ha manifestato la prossimità della Chiesa italiana alla Chiesa siriana. Gli interventi della Caritas sono naturalmente dentro questi rapporti tra Chiese.

Poiché Caritas non è l’unico operatore umanitario italiano in campo della rete cattolica, CEI sta sostenendo anche altre realtà cattoliche in Siria: penso in questo momento all’Ordine francescano. Posto che – come noto – la CEI sostiene sempre i progetti di Caritas Italiana nel mondo. Le offerte della colletta nazionale del 26 marzo andranno a sostenere interamente gli interventi caritativi in Turchia e Siria.

Va considerato che Caritas interviene in tutte le possibili situazioni, naturalmente, anche in quelle in cui non ci sono cristiani cattolici coinvolti, oppure sono molto pochi, in minoranza.

  • Quali sono i beneficiari di Caritas?

La maggioranza dei nostri beneficiari non è cristiana. È normale in un Paese in cui la stragrande maggioranza della popolazione non è cristiana. Spesso lavoriamo in contesti in cui la Chiesa cattolica non è per nulla presente.

Ad Aleppo est, ad esempio, non ci sono parrocchie e non c’è alcuna presenza di realtà ecclesiali, ma Caritas è stata la prima organizzazione umanitaria ad entrare anche lì, sin dal 2017, cioè dalla fine dell’assedio e dei bombardamenti sulla città.

Anche nella zona di Latakia raggiungiamo villaggi ben al di fuori dalla città, sui monti, in cui non c’è nessuna presenza cristiana, in mezzo a musulmani che sono così poveri e abbandonati da non disporre neppure di una piccola moschea per pregare.

  • Qual è la composizione di Caritas Siria e delle Caritas locali?

Caritas Siria può contare su circa 300 operatori retribuiti in tutto il Paese, con un ufficio centrale a Damasco e uffici periferici nelle principali sedi territoriali, tra cui Aleppo. È un’organizzazione cresciuta nel tempo in questi anni di guerra, con l’accompagnamento di Caritas nazionali tra cui quella italiana. È ormai conosciuta e riconosciuta sia dalle comunità siriane che, necessariamente, dalle autorità siriane: è registrata come organizzazione della chiesa cattolica. Ciò – tengo a sottolinearlo – non condiziona in nessun modo l’aiuto dedicato da Caritas ai non cristiani e a tutte le comunità.

Le operatrici e gli operatori sono molto giovani, sia per età che per esperienza. In maggioranza sono giovani donne, anche perché di giovani uomini se ne trovano ben pochi: o sono fuggiti dal loro Paese, ovvero sono sotto le armi.

È straordinario notare la resistenza di questo staff, nonostante tutto: ad Aleppo alcune ragazze dormono in ufficio da più di un mese dopo il terremoto, sia per continuare a lavorare, sia perché le loro stesse case, ai piani alti, hanno subito ingenti danni. Ricordo che ad Aleppo sono crollati moltissimi edifici perché già danneggiati dalla guerra. Immaginiamo la loro preoccupazione: devono provvedere a sé stesse e alle loro famiglie, mentre sono impegnate nel lavoro.

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  • Sono laiche? Cattoliche?

Gli Operatori e le operatrici sono tutte laiche, tra cui alcune direttrici delle Caritas locali: una è ortodossa, non cattolica. Dei gruppi fanno parte anche musulmani e musulmane. La coordinatrice del team del magazzino-aiuti è musulmana. In maggioranza l’organico è di appartenenza cristiana, per lo più cattolica.

  • Cosa pensano questi giovani? Come vedono il loro futuro?

Vorrebbero viaggiare, vorrebbero fare esperienze al di fuori del loro Paese, come tutti i giovani.  Ma non possono. Ma sono convinto che vorrebbero comunque restare nel loro Paese. Non abbandonarlo.

Qualcuno di loro dispone di doppia cittadinanza – pure siriana e italiana – ma hanno scelto di rimanere in Siria per stare accanto alla famiglia e per portare avanti, come possono, il loro lavoro, sperando in un domani migliore.

  • Quale futuro, mentre Assad resta sempre al suo posto?

C’è molto malessere al riguardo. Ma lo scontento coinvolge anche le potenze che ancora alimentano la guerra e la comunità internazionale nel suo complesso, ormai ininfluente.

Caritas, come ho detto, riesce a godere di una certa autonomia. Per la realizzazione dei maggiori programmi – come è normale che sia e come avviene anche in altri Paesi – si coordina col governo e con le autorità locali. Questo sta accadendo anche nel dopo-terremoto.

C’è sicuramente un controllo sulle attività e queste prevedono la verifica dei beneficiari. Abbiamo in atto tanti altri progetti – diciamo minori o informali – che non prevedono tuttavia controlli. La distribuzione di generi di prima necessità appartiene a tale tipologia, libera. Il supporto psicologico e il lavoro di animazione delle comunità sono attività libere.

In linea di massima, quindi, Caritas riesce ad intervenire in maniera efficace – per tutti i poveri – nelle zone controllate dal governo di Assad.

  • Le offerte in denaro raccolte in Italia giungono regolarmente in Siria?

I fondi arrivano: ci mettono un po’ – naturalmente attraverso le banche – ma arrivano. C’è il cambio ufficiale e c’è il mercato nero. Sino a prima del terremoto il cambio ufficiale stava a circa 4.500 lire siriane per 1 dollaro. Questo significava una perdita del valore di acquisto reale tra il 40 e il 50%. Perciò è fiorito il mercato nero che fa entrare i dollari nel Paese senza passare per le banche e per le vie ufficiali: non è il nostro caso.

È un fatto relativo all’inflazione spaventosa che affligge la Siria. Lo stesso discorso vale per il Libano, forse in maniera ancora più grave. È chiaro che questo dato sta taglieggiando l’attività di tutti i soggetti in Siria, comprese le organizzazioni umanitarie.

Dopo il terremoto, tuttavia, il governo ha stabilito un cambio più favorevole sui fondi trasferiti direttamente dall’estero per il sollievo della popolazione. Ora – se la causale del trasferimento recita la motivazione “terremoto” – il cambio è di 7.000 lire siriane per 1 dollaro. Questa mossa sta facilitando la nostra operatività.

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  • Conviene dunque acquistare i generi di prima necessità – se si trovano – in loco, oppure organizzare trasporti dall’Europa?

I generi di prima necessità sono sostanzialmente reperibili in Siria – a parte i prodotti a maggiore tecnologia compresi quelli per assistenza sanitaria – per cui conviene a Caritas acquistare sul mercato locale, sia per le quantità che per la celerità. Il problema è che in Siria – come da nostra prassi – non si possono ottenere preventivi per scegliere i migliori fornitori. Nessuno fa preventivi in Siria. Si vive alla giornata.

  • Mandare beni direttamente in Siria è possibile, benché poco conveniente?

Come spesso abbiamo detto anche in altre circostanze di emergenza, è preferibile mandare aiuti in denaro. Per altra via, almeno come Caritas, non siamo riusciti a far arrivare nulla a destinazione, neppure il materiale di soccorso stoccato in Libano. Caritas Libano e Caritas Giordania, nella circostanza del terremoto, avrebbero potuto trasferire circa 5.000 tende in Siria: sarebbero state preziosissime.

Avevano anche il cibo a lunga conservazione nei magazzini. Non hanno ancora ottenuto l’autorizzazione per fare entrare questi aiuti a quasi un mese e mezzo dall’evento. Penso che ci abbiano rinunciato. So di convogli – non Caritas – che sono riusciti ad entrare in Siria ma poi sono stati bloccati ovvero hanno dovuto cedere i loro carichi, in tutto o in parte, alla Mezza Luna Rossa siriana o ad altre organizzazioni governative.

Per chi avesse intenzione di mandare beni in natura – chiaramente per carichi significativi – si può ragionare con Caritas Libano. Anche il Libano ha problemi enormi, comprese le necessità del milione e mezzo di profughi siriani nel Paese.

  • Per chi ha soldi, la merce si trova? Parlo della popolazione.

I beni alimentari primari sono quasi tutti disponibili al mercato. L’agricoltura siriana ha ripreso a produrre. Altri generi di prima necessità arrivano dal mercato asiatico: Cina, Turchia, India. Si sta assistendo, anche in Siria, alla invasione dei prodotti cinesi. I Paesi arabi pure contribuiscono.

  • Questo è l’effetto delle sanzioni occidentali?

Mi diceva un siriano – che commercia in una ditta di distribuzione di materiali edili per cantieri – della sua collaborazione con una società tedesca: ebbene la società tedesca ne ha creata un’altra in Cina, per cui i materiali voluti, alla fin fine, arrivano anche in Siria. All’inizio questo è costato di più. Ora la situazione si è persino stabilizzata. Ci sono Paesi che non aderiscono alle sanzioni e che provvedono a far arrivare tutto, se ci sono i soldi.

Il problema oggettivo forse più grande – per la popolazione comune – è costituito dalla carenza dei carburanti per il trasporto e per i generatori di energia elettrica. Ciò è paradossale in un Paese petrolifero. Tutti i distributori di benzina sono chiusi o fuori uso o contingentati. Dal mercato ufficiale ogni cittadino può ottenere venti litri di benzina al mese. Ciò pure determina un fiorente mercato nero, con prodotti che vengono dall’Iraq, piuttosto che dal Libano, per vie illegali.

Gli effetti delle sanzioni, dunque, ci sono, ma colpiscono soprattutto la parte più povera della popolazione, come sempre.

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  • Qualcuno è riuscito a raggiungere le zone terremotate non controllate dal governo siriano, ad Idlib?

Come Caritas, per ora, è impossibile arrivarci. Ho parlato con un padre francescano: i francescani hanno tre parrocchie nella zona di Idlib. Mi ha descritto una situazione molto, molto difficile. Il terremoto ha colpito da quelle parti ancor più violentemente. La situazione era già molto grave. Per quanto se ne sa, pochi aiuti sono arrivati là e solo dalla Turchia.

La mia sensazione – ricavata parlando con i siriani che sono rimasti nel territorio controllato – è che quei siriani non li riguardino. Ormai quei territori e quelle persone sembrano non fare più parte dello stesso Paese. È una sensazione molto amara per me.

Le guerre di sopravvivenza sono sempre guerre tra poveri. Non si pensa ad altro quando la propria situazione è già disperata. Così quando ho chiesto cosa si sa delle parti controllate e amministrate dai siriani curdi – a un’ora di macchina da Aleppo – non ho ricevuto alcuna risposta: non si pensa a nulla, appunto, se non a sopravvivere. Un ragazzo mi detto: «noi siamo dei sopravvissuti, siamo un blocco di cemento inerte, stiamo qua, ci siamo, però siamo un blocco di cemento; andiamo avanti, ma il futuro è un buco nero».

  • Se i soccorsi – da una parte e dall’altra – fossero giunti senza dover superare tanti ostacoli e resistenze, si sarebbero salvate altre vite? Cosa hanno potuto fare gli ospedali?

È ben noto che intervenire repentinamente in una zona terremotata vuol dire salvare tante più vite umane. Da quel che so, gli ospedali sono riusciti a curare tutti i feriti per le conseguenze non mortali. Il limite del soccorso non ha riguardato, dunque, gli ospedali – benché ridotti e malconci dopo 12 anni di guerra – bensì la capacità di estrarre le persone dalle macerie.

Da quanto mi hanno raccontato i testimoni, è mancata pressoché totalmente l’organizzazione del soccorso immediato. So che una squadra di soccorritori dall’Algeria – una delle poche arrivate dall’estero – è giunta ad Aleppo solo una settimana dopo. Si sono avvalsi dei cani di salvataggio. Testimoni mi hanno descritto, con stupore e angoscia, la scena di quei cani all’opera: «riuscivano ad annusare le persone che stavano fino a sotto, ma ormai si trattava, quasi esclusivamente, di cadaveri».

A differenza delle immagini dai terremoti italiani – in cui spesso sono stati i centri storici a crollare – ad Aleppo sono crollati anche gli edifici in cemento armato, persino quelli nuovi o non ancora ultimati. Moltissimi erano già stati danneggiati dai colpi della guerra. Altri no. Ebbene, senza essere degli esperti, facilmente si intuisce che le travi in cemento armato, quando crollano, formano delle strutture casuali di protezione dalle macerie: chi ha la “fortuna” di trovarsi in questi spazi, pur ferito, può salvarsi, naturalmente se soccorso per tempo.

Ma ad Aleppo c’è stato solo il caos. Nessuna organizzazione. Dall’imbrunire c’era il buio più totale. La corrente elettrica mancava. Mancavano i carburanti per i mezzi di soccorso. Secondo le stime, si sarebbe potuto salvare il 95% dei sopravvissuti, mentre è stato salvato solo il 5% stimato. Anche questo dato è la conseguenza di 12 anni di guerra: della politica interna e internazionale per questo Paese.

  • Qual è la sensazione che hai provando lasciando la Siria, per ritornarci probabilmente presto? 

Ho provato la sensazione che tutti i mali si siano concentrati e accaniti contro quel bellissimo Paese e contro quella meravigliosa gente. Tutti i possibili problemi ora solo là.

Tra giovani operatori si cerca ancora qualche motivo di buon umore. Si è detto: «il prossimo anno un meteorite potrebbe abbattersi su Aleppo!». Si cerca di scherzare, ma nel fondo c’è un grande senso di amarezza.

Ma i segni della speranza sono sempre nelle persone belle che si incontrano: nonostante tutto, questi amici siriani riescono ancora a vivere, a sorridere, a manifestare i sensi di una gioia che viene da chissà dove.

Per sostenere gli interventi di Caritas Italiana in Turchia e Siria vedi qui.

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