“Desiderio desideravi” e la questione liturgica

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liturgia

“Non possiamo tornare a quella forma rituale che i Padri conciliari, cum Petro sub Petro, hanno sentito la necessità di riformare, approvando, sotto la guida dello Spirito e secondo la loro coscienza di pastori, i principi da cui è nata la riforma” (Desiderio desideravi, 61).

Da tempo era necessario che una voce autorevole dicesse una parola chiara a proposito di un equivoco che il secolo XX ha creato intorno alla “questione liturgica”. Ciò che leggiamo in DD corrisponde bene a quanto era desiderabile ascoltare da alcuni decenni. Provo a presentarne qui la logica in una serie di 10 proposizioni, perché appaia a tutto tondo non solo il merito del testo, ma anche le conseguenze teologiche e pastorali delle sue affermazioni.

  1. La questione liturgica è sorta all’inizio del XIX secolo, quasi 200 anni fa. Da allora, nelle parole profetiche di A. Rosmini in Italia e di P. Guéranger in Francia, si è manifestata la consapevolezza che la liturgia conosceva una crisi profonda, dalla quale occorreva uscire con nuove evidenze, nuove forme di vita, nuove pratiche. La crisi è riconosciuta negli anni 30 dell’800: non è quindi il frutto né del Vaticano II né del 68!
  1. La nascita ufficiale del Movimento Liturgico è avvenuta, ai primi del XX secolo, proprio con questo duplice intento: la riscoperta della tradizione liturgica e il reinserimento della liturgia come “fonte” di vita cristiana e dell’esperienza spirituale. Fondamentale è stata la I guerra mondiale, che apriva una domanda nuova di interesse e di studio verso le pratiche rituali.
  1. Almeno fino agli anni 50 del ‘900 la “formazione liturgica” è stata il centro dell’attenzione, rispetto ad un ruolo della “riforma”, in partenza piuttosto secondario, che però ha preso vigore in modo forte con le decisioni di Pio XII successive alla II guerra mondiale. Da allora la riflessione sulla “riforma” ha preso il sopravvento, grazie al Vaticano II e al lungo e dettagliato lavoro post-conciliare.
  1. Questo passaggio, che potremmo definire “dal primato della formazione al primato della riforma”, è stato necessario e direi quasi fisiologico. Ma altrettanto naturalmente è accaduto che, dopo circa 40 anni di lavoro quasi totalmente volto alla realizzazione dei nuovi riti, nel periodo dal 1948 al 1988, tornasse a galla la questione più antica, ossia quella della formazione. Proprio su questa soglia finale del 1988 si sono collocati tre eventi simbolici di una trasformazione imprevedibile: la commemorazione dei 25 anni di SC (Vigesimus quintus annus), il primo rito inculturato (Messale romano per le diocesi dello Zaire) e lo scisma lefebvriano.
  1. A partire da allora la questione liturgica aveva assunto sempre più la forma di una “progressiva attenuazione” della necessità della riforma. Alla domanda sulla “necessità della riforma liturgica” il magistero ha dato risposte differenziate, ma segnate da sempre maggiore cautela e ritrosia. Mentre si ribadiva formalmente la necessità della riforma, contemporaneamente la si rendeva sostanzialmente aggirabile, dispensabile, evitabile, scavalcabile, quasi a difesa della “libertà” di celebrare come se non vi fosse stato alcun Vaticano II.
  1. Per più di 30 anni, rincuorati nel 2007 dal tenore del MP Summorum pontificum, un certo numero di cattolici si sono (o sono stati) convinti della non necessità della riforma: in effetti, quando un documento ufficiale asserisce che tutti i riti precedenti alla riforma possono essere usati anche dopo di essa, di fatto esso ridimensiona la portata e l’evidenza di questa scelta conciliare. Permette di pensarsi cattolici indipendentemente dal Vaticano II e dalle sue conseguenze. Così si garantiva dall’alto una immunizzazione del cattolicesimo dal Vaticano II, che ha preso forme pesanti in diverse nazioni.
  1. Ma, nonostante le apparenze, non è questo l’attacco più insidioso alla riforma liturgica. La riforma soffre molto di più non per la negazione sfrontata della sua necessità, ma per il fatto di essere giudicata “sufficiente”. In questo modo, infatti, si introduce una cesura nei confronti del movimento liturgico, che sapeva bene come, pur onorando il compito di riforma, il vero fine fosse la “formazione del popolo alla actuosa participatio”. Con lucidità R. Guardini lo ha scritto dal 1918 al 1964: si tratta di “reimparare l’atto di culto”: questo sarebbe stato il vero scopo della riforma liturgica.
  1. Così, accanto all’attacco alla riforma mediato dalla contestazione della sua necessità, vi è stato un altro attacco, molto meno evidente, ma molto più insidioso, che è consistito nel ritenere, ingenuamente o colpevolmente, che la riforma fosse sufficiente, in quanto tale, a risolvere la questione liturgica. Il primo attacco è venuto dai tradizionalisti (che avrebbero voluto negarne la necessità), mentre il secondo è venuto dai burocrati e dai funzionari (che si sono illusi e hanno illuso gli altri circa la sua sufficienza). D’altra parte, la riforma è “atto centrale” controllabile, mentre la formazione da aggiungere ad essa è “atto decentrato” e molto più contingente.
  1. Con Desiderio desideravi diventa chiaro che questo equivoco viene totalmente rimosso. Non si cade più nella trappola per cui la fatica e la lentezza della formazione diventa l’alibi per contestare la necessità della riforma. Con piena coscienza, e con grande lucidità, per DD l’unica lex orandi vigente diventa “testo e contesto normativo” per sviluppare la “via sperimentale” mediante cui l’azione rituale dà forma al soggetto ecclesiale. La riforma, con tutta la sua necessità, resta insufficiente se non diventa pratica rituale nuova, condivisa da tutto il popolo. La contingenza di questo passaggio esige una cura particolare, che non è solo “apologetica della riforma”, ma “contingente esperienza rituale”.
  1. Se il dibattito uscirà dalle secche della disputa sulla “necessità della riforma” e permetterà una seria considerazione della sua “insufficienza” formativa, i nuovi riti potranno diventare mediazione linguistica della carne e sangue di Cristo e della Chiesa, cosa che potrà avvenire solo mediante una formazione liturgica alla partecipazione attiva di tutto il popolo di Dio nel contesto di un’azione rituale riconosciuta come linguaggio comune, senza deleghe clericali a terzi. La prospettiva di SC si rispecchia ora in DD, ma con la nuova consapevolezza di una riforma riconosciuta ormai come necessaria e irreversibile, e tuttavia giudicata anche “non sufficiente” rispetto al compito primario della liturgia di costituire il “fons” e il “culmen” di tutta l’azione della Chiesa. Una nuova liturgia che non riuscisse a diventare “fons comune” di tutta la Chiesa finirebbe prima o poi per veder messa in questione di nuovo la sua stessa necessità.
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4 Commenti

  1. Fabio Cittadini 28 luglio 2022
  2. Francesco Grisorio 26 luglio 2022
    • Anima errante 27 luglio 2022
      • Francesco Grisorio 27 luglio 2022

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