Liturgia: superare lo stato di eccezione

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Da una grave crisi si possono trarre cose buone: questo è il senso più autentico di ciò che chiamiamo tradizione.

Anche l’occasione di una serissima crisi pandemica, che apre una riflessione comune e collettiva sullo “stato di eccezione civile”, permette di leggere con maggiore lucidità quel diverso “stato di eccezione” che la Chiesa cattolica viveva da quattordici anni, soffrendone non piccoli disagi interni ed esterni.

Per comprendere la questione, pur profittando della condizione contemporanea, bisogna cominciare da lontano. Ossia dalla “riconciliazione liturgica” che il Movimento liturgico e il Concilio Vaticano II hanno proposto e “istituito” nel corpo della Chiesa cattolica.

Un accurato ripensamento dell’atto di riconciliazione iniziato formalmente sessant’anni anni fa è la condizione per non aggirare quella pace che ancora oggi ci è chiesta, con una nuova urgenza che si impone.

Due secoli di “riconciliazione liturgica”

Sotto la spinta del lavoro di quasi due secoli, iniziato nella prima metà del XIX secolo da A. Rosmini e P. Guéranger, nutrito dal pensiero di profeti (come M. Festugière, L. Beauduin, R. Guardini, O. Casel) e da sperimentazioni pastorali (come quelle di Klosterneuburg, Lipsia, Montcésar, Rothenfels) la questione liturgica è giunta con il Concilio ad una svolta decisiva.

Il compito di una “riconciliazione liturgica” è al cuore del Concilio Vaticano II e ne costituisce una delle acquisizioni decisive. Potremmo esprimerla così: avendo constatato la “incapacità liturgica” della Chiesa cattolica, chiarita dal percorso di riflessione del Movimento liturgico, che aveva identificato la “crisi liturgica” della tradizione come una “questione” inaggirabile, il Concilio intende “rimediare” a tale crisi – che è di almeno un secolo e mezzo antecedente al Vaticano II – mediante una adeguata riforma della tradizione e formazione alla tradizione.

Ciò che dal Concilio abbiamo ricevuto, ossia una “riforma del rito romano”, non è il sorgere del problema, al quale si possa rispondere con la “riabilitazione del rito preconciliare”, ma è precisamente la riconciliazione di cui la tradizione aveva bisogno e di cui continua ad avere bisogno.

Per questo la “soluzione” approntata mediante il motu proprio Summorum Pontificum risulta contraddittoria e deve essere accantonata, perché parte da una analisi distorta della storia degli ultimi 200 anni.

Dalla dialettica tra “due forme” alla polarità tra “verbale/non verbale”

Una volta riacquisito un concetto originario di “riconciliazione liturgica” e superata la illusione di una soluzione mediante “forme rituali parallele”, dobbiamo chiederci: che cosa rappresenta dunque la riconciliazione liturgica operata dal MP Traditionis custodes , se non può e non deve essere una “riforma della riforma”, né un “nuovo Movimento liturgico”? Credo che le sue caratteristiche fondamentali possono essere così sinteticamente presentate:

  • la riconciliazione liturgica, se non vuole smentire il Concilio Vaticano II, implica un lavoro comune su un unico tavolo: il rito romano ha un’unica forma vigente, quella scaturita dalla riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II. Non può esservi alcuna riconciliazione liturgica senza ascoltare fedelmente la voce del Vaticano II: non si può fare la pace né contra Concilium né praeter Concilium.
  • la riunificazione della forma, con il superamento di ogni parallelismo generalizzato di usi tra loro non coerenti, permette di lavorare sulla stessa forma ma a diversi livelli: infatti si deve valorizzare la riforma liturgica non solo a livello verbale, ma anche a livello non verbale. Attivare tutti i linguaggi della celebrazione è, in effetti, una nuova definizione dell’ars celebrandi secondo la definizione di Sacramentum caritatis, che al n. 40 così la determina: «l’attenzione verso tutte le forme di linguaggio previste dalla liturgia: parola e canto, gesti e silenzi, movimento del corpo, colori liturgici dei paramenti». Ed è su questo punto che il Novus Ordo può “essere riconciliato” con la tradizione che ha ricevuto e che ora trasmette fedelmente e creativamente;
  • il Vetus Ordo, sul piano della lingua, da secoli non veniva più compreso: per questo ha saputo dar maggior valore, diremmo quasi per necessità, al registro non verbale. Questa condizione deve diventare una “luce” per lavorare sul Novus Ordo. È l’uso del Novus Ordo a diventare il terreno di lavoro su cui la Chiesa può recepire davvero, integralmente e plenariamente, tutta intera la tradizione del rito romano – la tradizione sana, non quella malata – in una unica forma vincolante per tutti, ma valorizzata sui diversi livelli della sua espressione “multimediale”: parola e canto, spazio e tempo, silenzio e movimento, tatto e odorato sono “organi” e “codici” di esperienza e di espressione del rito romano – in una forma unica, ma non univoca né monotona.
Alcune prospettive

In conclusione, i compiti che si aprono dinanzi alla Chiesa cattolica nel prossimo futuro, in vista di un progresso nella “riconciliazione liturgica” inaugurata dal Concilio Vaticano II e ristabilita nella sua “ordinarietà” da TC, possono essere identificati in tre diversi passi:

a)  Primo passo, istituzionale e sistematico: la esperienza della doppia forma parallela dello stesso rito romano ha dimostrato di essere fragile e astratta dal punto di vista teorico, pericolosa e ingestibile dal punto di vista pratico.

Perciò viene ufficialmente superata, uscendo dallo “stato di eccezione” che essa ha determinato sia nelle competenze sulla liturgia (che vengono restituite integralmente a vescovi e Congregazione per il culto divino) sia nella unificazione della forma rituale per tutto il corpo ecclesiale, che non può sopportare un parallelismo generalizzato di usi tra loro contraddittori;

b) Secondo passo, ecclesiale e pastorale: resta forte l’esigenza di una “riconciliazione liturgica”, che riprenda il progetto del Concilio Vaticano II e lo recepisca in modo pieno, equilibrato e profetico, per «far crescere ogni giorno di più la vita cristiana tra i fedeli» (SC 1).

Tale crescita deve riflettere criticamente sul modo con cui la riforma è stata eseguita, recepita e pensata, per attuarne più radicalmente le implicazioni verbali e non verbali, corporee e simboliche, dinamiche ed ecclesiali. Restituire al rito la parola implica una conversione che dà pace.

c) Terzo passo, simbolico-liturgico: alla concorrenza tra “forme parallele”, che non generava pace ma discordia, si deve sostituire una lucida correlazione tra “forma verbale” e “forma rituale”, sulla cui integrazione la sapienza ecclesiale deve saper predisporre strumenti teorici nuovi e buone pratiche comuni, perché l’unica forma del rito romano, in sé indivisa e concorde, possa brillare di nobile semplicità «per ritus et preces» (SC 48), mediante la partecipazione attiva di ogni fedele battezzato all’unica azione di culto comune, che edifica il corpo ecclesiale.

La felice convergenza tra le priorità poste oggi con nuova chiarezza dal “magistero della cattedra pastorale” e le attenzioni sollevate da tempo dal “magistero della cattedra magistrale” conferma la avvenuta maturazione della coscienza ecclesiale, che può aprirsi ora ad una fase nuova nella recezione del Concilio Vaticano II nel suo disegno di traduzione della tradizione. Perché i riti e le preghiere assicurino al corpo ecclesiale una efficace intelligenza liturgica del mistero.

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3 Commenti

  1. Adelmo li Cauzi 21 luglio 2021
  2. Giorgio De Benedittis 20 luglio 2021
  3. Francesco Grisorio 20 luglio 2021

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