Recentemente due preti del vicariato di Bassano-Rosà (diocesi di Vicenza) hanno chiesto un periodo sabbatico. Questo ha aumentato il lavoro dei confratelli del vicariato e ha innestato un dibattito sul settimanale diocesano (La Voce dei Berici) sulla figura del prete oggi, sul sovraccarico pastorale, sull’appannamento delle comunità cristiane… Don Gigi Maistrello, presbitero vicentino, autore dell’articolo, riflette sull’attuale momento e lancia alcune proposte per il futuro.
Devo complimentarmi con il direttore per aver avuto il coraggio di mettere in prima pagina della Voce dei Berici un tema che tutti vediamo in modo evidente, ma che solitamente viene trattato fuori da questi contesti, in modo – diciamo – più riservato. Il titolo del numero 46/2020 della Voce diceva invece chiaramente: “Preti in crisi, Bassano si interroga”.
Con alcuni amici abbiamo provato negli anni scorsi a cercare un dibattito per individuare una via d’uscita a questa crisi, ma non è stato possibile distaccarsi dallo schema attuale.
C’è attorno a noi un clima di pericolosa rassegnazione: «Siamo destinati a gestire solo il tramonto, non c’è niente da fare». «Ma dobbiamo farlo senza dircelo!». «Sappiamo bene che le ricette con cui stiamo operando sono gravemente insufficienti, che sono persino sbagliate; ma non abbiamo altra possibilità e forse neanche fantasia!».
Ogni tanto appare qualcuno che lancia delle proposte radicali, come quelle riguardanti il celibato obbligatorio o il sacerdozio femminile. Ma si tratta di puro esercizio retorico, frutto di quel vecchio adagio: “Cercare l’ottimo che è nemico del bene!”. Si propone di cambiare tutto, per non cambiare niente! Abbiamo visto tutti che fine stanno facendo le buone intenzioni di papa Francesco intorno ai viri probati o alle “diaconesse”. Tutto è stato cestinato con il metodo che ben conosciamo dentro alla Chiesa: il muro di gomma!
Intanto altri due preti della zona di Bassano hanno chiesto di fermarsi! Intanto i preti che operano nelle parrocchie non possono fare altro che prospettare nel futuro l’allargamento della propria zona pastorale! Intanto si procede come si è sempre proceduto, con la consapevolezza che tra dieci anni i preti dovranno gestire un numero doppio di parrocchie rispetto al presente, perché le cose non saranno certamente migliorate. Se non è rassegnazione questa!
Non vi sembra uno scandalo vedere decine di canoniche chiuse? Un bene enorme ibernato e cadente! Non vi sembra uno scandalo far passare come proposta caritatevole ipotizzare di collocare nelle stesse canoniche alcune famiglie di profughi? Quelle strutture sono nate come cuore delle comunità e tali devono rimanere! Per i profughi bisogna cercare altre soluzioni.
Non vi sembra uno scandalo che, nelle parrocchie senza un prete presente, stiano per chiudersi gli oratori (i Centri comunitari) e tutti gli altri luoghi non delegati al culto? Proprio nel momento storico in cui i nostri ragazzi avrebbero più bisogno di spazi delegati alla relazione allargata, all’accoglienza e all’integrazione!
Non vi sembra uno scandalo che continui la triste prassi del prete costretto a cambiare parrocchia ogni nove/dieci anni, proprio quando ha trovato una sua famiglia e delle relazioni autentiche?
Cerchiamo una via d’uscita da questa situazione gravemente difficile. Per questo io propongo alcuni passi.
Prima di tutto: salviamo le nostre comunità
Parlare della crisi dei preti è toccare un argomento vastissimo e dovrebbero essere toccati moltissimi aspetti di vario genere. È certo, però, che uno dei motivi di questa situazione di sbandamento nasce anche dalla crisi delle comunità cristiane, delle parrocchie. È un dato di fatto che queste stiano vivendo una stagione difficile, per non dire molto difficile.
Siamo tutti convinti che togliere alla nostra società (ai quartieri della città, ai vari paesi della diocesi) la presenza della comunità cristiana, di chi ha come missione di proporre un modo di vita (nelle parole e nei fatti) che si basi sulla proposta chiamata “Gesù” e raccontata nel suo vangelo, sarebbe arrecare una ferita enorme al futuro di tutti.
Per individuare il ruolo della parrocchia all’interno della società civile, ho sempre utilizzato quello che santa Teresina diceva di se stessa: «Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore». La parrocchia, all’interno di una comunità molto più vasta dei suoi recinti, «dovrà essere il cuore, l’amore!». Qui ci sarebbe molto da aggiungere, ma torniamo al tema principale.
L’attuale impostazione delle parrocchie, unite all’interno delle Unità Pastorali (UP) – che sono state costituite esclusivamente per la mancanza di preti (nessuno osi dire il contrario!) e dove la responsabilità rimane esclusivamente nelle mani del presbitero –, non porta altro che a soffocare le singole parrocchie e quindi le relative comunità.
Mi stupisce che non si arrivi mai a una conclusione simile, anzi, si dice sempre che le UP hanno portato una stagione nuova nella Chiesa! Se poi si va a parlare direttamente con la gente, ci si deve confrontare con una opinione diametralmente opposta.
Bisogna dirlo: con la crisi del clero, stanno scomparendo anche le comunità! Infatti, scegliere questa modalità di impostare le UP costringe il prete a utilizzare, come azione pastorale, quasi esclusivamente la via sacramentale, con le relative celebrazioni. Ma che senso ha un rito se questo rimane l’unica espressione e intanto le comunità rischiano di scomparire? Il prete ha solo tempo per celebrare e non per seguire tutto il capitolo precedente, quello delle relazioni, relazioni che devono essere d’amore. Senza una comunità vera, anche le celebrazioni si svuotano, alla fine!
Qualcuno tira fuori le carte dei Gruppi ministeriali, nascondendo di fatto che questo nuovo metodo è un semplice proseguimento di quello precedente, con tutti gli elementi positivi e negativi. Non ci sono novità: solo la macchina si è un po’ ingolfata con un ulteriore appesantimento di riunioni, appuntamenti, incarichi, commissioni, segreterie…
Qualcuno dice che bisognerebbe tornare alla monarchia (il prete che decide da solo), altri sostengono che l’unico metodo è la democrazia (un po’ quello che stiamo vivendo adesso): io dico che le parrocchie vanno gestite come famiglie. In una famiglia ci sono delle persone che prendono decisioni per il bene di tutto e qualche volta si siedono a tavola per trovare la condivisione.
Un motto: una comunità, una testa
Questo è il cuore della mia riflessione: ogni comunità deve avere una testa, una guida, un pastore! Una comunità che possa contare almeno mille anime. Non un gruppo, ma una sola testa, uomo o donna, non è importante; può essere anche una coppia. Magari una religiosa o un diacono.
Una testa che torni a vivere in canonica o che passi buona parte delle sue giornate dentro quelle mura.
Una testa proposta dalla gente della comunità, scelta dal presbitero e avallata dal vescovo.
Una testa che abbia come missione prima non la conservazione dell’overdose di riunioni che stanno ammazzando le nostre agende, ma tenere viva la relazione! La comunità vive di relazioni e dopo, minimamente, di riunioni! Meno riunione e più unione!
Una testa che confermi l’attenzione evangelica per l’altro, per tutti coloro che sentono il bisogno di uscire dall’individualismo e dalla solitudine. Che sappia dialogare con le famiglie, con i ragazzi, con i giovani, con chi sta vivendo un momento di dolore, con chi sta prendendo decisioni importanti, con gli anziani spesso soli, con coloro che si sentono fuori, con chi non ce la fa più…
Una testa che possa trovare anche il riconoscimento della società civile, che è terribilmente assetata di mettersi in rete con chi operi per il bene comune ed è persino disposta a mettere mano ai propri bilanci pur di supportare simili esperienze. Che continui a lavorare con gli altri operatori laici, lontano però dalla brutta abitudine di tanti tra loro di peccare di clericalismo, di sostituirsi al prete.
Una testa che non lo faccia per sempre, ma in una fase intensa della sua vita. Che possa essere preparato anche ad animare delle celebrazioni domenicali, da inventare con fantasia e coraggio.
Il ruolo del presbitero
Io credo che il prete del futuro sarà costretto a ritagliarsi un nuovo ruolo, proprio per uscire dall’angoscia in cui sta precipitando in questi decenni, costretto com’è oggi ad essere trottola che gira intorno a se stessa senza una precisa meta. Oggi è costretto a correre tra sempre più comunità con un unico fine: tenere vivo l’impianto sacrale che per secoli ha retto la cristianità.
Ma, se non ci sono le comunità, come sarà possibile sostenere il sacro? Il presbitero ha bisogno di relazioni e queste devono essere alte. Ha quindi diritto ad una famiglia. Non lo dico nel senso classico. Per famiglia intendo quella costituita da un gruppo di persone con cui creare condivisione, sentirsi a casa e poter fare progetti a lungo termine.
Io credo proprio che il prete del futuro sarà costretto a diventare un piccolo-vescovo, capace di tener vivo e unito un territorio di trenta/quaranta parrocchie.
Lui diventerà l’incaricato della sinodalità, del camminare tutti sulla stessa strada, che dovrà sostenere, supportare, coordinare “le teste” delle comunità.
Non sarà indispensabile che viva in una comunità presbiterale, ma dovrà cercare dimora in modo che la sua quotidianità possa essere di relazione e non intonata alla solitudine.
La Chiesa del futuro avrà bisogno di pochi preti: pochi, preparati e motivati. Scelti soprattutto perché capaci di relazione mature e alte. Questo potrà essere veramente un’enorme innovazione.
Partire ora per essere operativi tra cinque anni
Un progetto simile ha bisogno di tempi lunghi e, prima di tutto, deve essere discusso, condiviso e sperimentato. Se si partisse oggi, potremmo iniziare tra cinque anni e vedere i primi frutti tra dieci anni.
Però non possiamo aspettare troppo. Non dobbiamo aspettare il concilio Vaticano III, ma cercare, nelle pieghe dell’attuale Codice di diritto canonico e nei documenti della Chiesa, gli articoli che possano permetterci di partire subito. Si comincia con poco per arrivare al molto!
Tutto questo è una semplice proposta, un po’ provocatoria, ma la formulo proprio perché amo questa Chiesa e soffro enormemente nel vedere che sta per diventare insignificante nel proscenio degli uomini.
Cf. SettimanaNews
L’attenzione all’esercizio del ministero e al suo rapporto con la comunità cristiana rappresenta uno dei temi centrali seguiti da SettimanaNews, sia per offrire spunti di riflessione sia per aprire un dibattito pubblico sulle trasformazioni che il ministero sta conoscendo – e su quelle a cui la Chiesa dovrebbe urgentemente mettere mano in vista di una sua significativa presenza nella vita della fede nel prossimo futuro.
S. Armanni: Caro prete…
R. Zanon: Cara Sara…
«Abbiamo visto tutti che fine stanno facendo le buone intenzioni di papa Francesco intorno ai viri probati o alle “diaconesse”. Tutto è stato cestinato con il metodo che ben conosciamo dentro alla Chiesa: il muro di gomma!». Parto da questa sconsolata considerazione per mettere l’accento sull’affermazione costruttiva che don Luigi ha poi bene sintetizzato: «Io dico che le parrocchie vanno gestite come famiglie. In una famiglia ci sono delle persone che prendono decisioni per il bene di tutto e qualche volta si siedono a tavola per trovare la condivisione. … Ogni comunità deve avere una testa, una guida, un pastore! Una comunità che possa contare almeno mille anime. Non un gruppo, ma una sola testa, uomo o donna, non è importante; può essere anche una coppia. Magari una religiosa o un diacono.» Fin qui condivido senza riserve.
Il trasloco da Parrocchia a Unità pastorale è una medicina palliativa: il problema di fondo non ha risposta. Le “relazioni d’amore (agàpe)” non si creano in questo modo e tanto meno con la rotazione decennale dei parroci.
Alcuni mesi fa leggevo su Facebook parole sconsolate di parrocchiani/e di Novale (Vicenza): “dopo oltre 400 anni siamo senza parroco per la partenza di don Vincenzo Faresin…”. La solita musica funebre; ma forse è anche un campanello, una sveglia per tutti noi (clero o laici: semplicemente cristiani), un invito a leggere “i segni dei tempi” (papa Giovanni XXIII), a non essere dei fossili o cristalli testardamente fermi a modelli dell’Antico Testamento.
Utopia dettata dal motu proprio del 15 agosto 1972 di san Paolo VI ” Ministeria quaedam” e dai relativi canoni CdC 224-231 e dal successivo motu proprio che modifica il can. 230.
Riaprire i seminari per un percorso di formazione ministeriale.
Tre fasi.
1. Preparazione biennale ai ministeri del lettorato e dell’ accolitato. Un modulo di cammino potrebbe avere la traccia in http://www.liturgia.it/biennio.
Devono essere previsti periodi forti di convivenza, rispettando momenti, luoghi e tempi appropriati e specifici per uomini e donne, come nella tradizione antica.
Qualora il discernimento portasse a poter applicare ad un candidato/a il canone 230, si potrebbe procedere ad istituirlo come accolito e/o lettore.
In questa fase del percorso i candidati possono sposarsi o rimanere celibi.
Agli accoliti e lettori potrebbe essere affidata una piccola parrocchia. L’accolito si dedicherebbe specificamente all’Eucaristia portando il fermentum dalla Cattedrale o da parrocchia principale. Svolgerebbe tutte le mansioni specifiche del ministro straordinario della Comunione e in caso di impossibilità di celebrazione eucaristica da parte del presbitero celebrerebbe la liturgia eucaristica come per i presantificati (cfr. venerdì santo).
Il lettore celebra la Liturgia della Parola e legge l’omelia inviatagli dal vescovo.
Si interessa della catechesi.
L’Ordinario può intervenire in qualsiasi momento per interrompere il servizio ministeriale.
2. Preparazione al diaconato.
Chi volesse proseguire il cammino dovrebbe perfezionare gli studi teologici stabiliti e iniziare il periodo di preparazione prevista per i candidati al diaconato in diocesi, servizi pastorali inclusi. Il discernimento è rivolto solo a persone di sesso maschile.
In questo grado il candidato può decidere di sposarsi e ricevere l’ordinazione oppure rimanere celibe ed eventualmente proseguire verso il presbiterato.
3. Chi infine volesse accedere al presbiterato dopo l’ordinazione diaconale seguirebbe il percorso previsto attualmente per il quinto e sesto anno degli studi teologici nella formazione sacerdotale in forma residenziale stabile in seminario.
In questo grado si richiede il celibato.
Pienamente d’accordo, io sono Lettore, ho sostenuto un percorso teologico con esami, però in parrocchia è difficile applicare ciò, per i motivi soliti.
Comprendo pienamente ciò che scrive. Dagli anni 80 lavoro per preparare laici alla ministerialità. Sovente la risposta a chi avrebbe voluto impegnarsi seriamente e fattivamente è stata: “L’ha fatto per cultura personale”. L’unico percorso aperto è l’insegnamento della Religione Cattolica o al massimo un po’ di catechismo. Ma non bisogna demordere e sostenere Papa
Francesco, che ben conosce la situazione dell’America centrale e meridionale e non solo. Il problema rimane la reazione delle Curie che a san Paolo VI hanno risposto con l’istruzione Ecclesiae de mysterio, bloccando le varie iniziative che avrebbero potute nascere applicando il motu proprio “Ministeria quaedam”. Come per san Paolo ci basti la grazia di Cristo che della nostra debolezza costruisce la Sua forza.
Mi sembra un lamento-analisi che non tocca il nodo di fondo. Il nodo di fondo e’ la clericalizzazione di tutto. Se non si cambia strada non se ne esce. Spazio ai laici, quelli seri, non i mezzi-preti-ma-laici che piacciono tanto. Il resto sono chiacchiere un po’ inutili.
Concordo