Il diacono tra profezia e realismo

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ministero

L’icona del Samaritano, che papa Francesco pone come figura-chiave della “Fratelli tutti”, e il giudizio finale di Matteo 25 stimolano a riflettere sul ruolo del diacono come nodo di una rete di fraternità e sull’insidia di un “realismo” che impedisce di vedere la nuova realtà, alla cui edificazione siamo chiamati a contribuire.

Leggendo il grande dramma del giudizio finale in Matteo 25, troviamo stupore sia a sinistra che a destra: nei “capri”, dai quali potevamo aspettarcelo, ma anche nelle “pecore”. Lo stupore di queste ultime è frutto di un’autentica incapacità di riconoscere il Signore negli incontri che hanno fatto in vita e in cui pure si sono dimostrate misericordiose.

Merito in più, viene da dire, perché è facile fare i buoni al cospetto di Dio, molto meno al cospetto di uomini e donne come noi, con pregi e difetti, virtù e vizi. Ed è senz’altro così, tanto che le buone “pecore” si sono meritate il Paradiso.

Mediazioni pericolose

Ma, come i due discepoli di Emmaus, le “pecore” hanno operato una mediazione: sono arrivate a vivere il comandamento dell’amore verso Dio e verso il prossimo, ma non hanno colto la piena identificazione di Dio nel prossimo. E, se il termine di paragone del comandamento è ama Dio sopra ogni cosa e il tuo prossimo come te stesso, possiamo dedurne che l’identificazione non l’hanno colta neppure in se stesse.

Il Vangelo lo ascoltavano e lo praticavano, ma sempre con un diaframma: Dio è Dio, il prossimo è il prossimo, io sono io. Amo il prossimo perché me lo chiede Dio e perché so che Dio lo ama come ama me. Ma all’identificazione piena non ci arrivo.

Clèopa e l’altro discepolo si sentono ardere il cuore nel petto, mentre quel compagno di strada rammenta loro ciò che si dice del Messia in tutte le Scritture, ma i loro occhi sono incapaci di riconoscere il Messia nel compagno di strada. Quando lui finge di voler proseguire, per metterli alla prova e per garantire la loro libertà, avvertono la santa ispirazione di trattenerlo. Per il suo bene – dicono – che le strade di sera sono pericolose. Ma sanno benissimo che la ragione vera è il loro bruciante bisogno di lui.

Ancora, però, non comprendono chi è. Lo riconoscono al segno eucaristico, come le “pecore” raggiungono la consapevolezza solo alle parole che sigillano la loro salvezza e felicità eterne: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Non “in mio nome”, come hanno sempre creduto a causa della loro mediazione. «A me», a Cristo in persona.

I “capri” fanno a loro volta il viso della meraviglia alla sentenza che sancisce la loro auto-esclusione dalla salvezza. E sono, almeno in questo, in assoluta buona fede. Perché hanno passato tutta la vita a imbastire mediazioni tra le logiche del mondo e l’appello divino all’amore. Ci hanno messo interamente se stessi, al punto da convincersi che tra il dire di Dio e il fare dell’uomo ci fosse un mare di gradazioni, di sfumature, di eccezioni e condizioni.

Scoprire ora, all’epilogo, che tutto quel lavorìo si rivela per loro fatale, li sconvolge. Eppure, anche in quell’estremo, disperato istante non sanno fare altro che aggrapparsi a un tentativo di mediazione. «E quando mai ti abbiamo visto affamato, assetato, nudo…?». L’avessimo saputo, figùrati!, ti avremmo accolto a braccia aperte e soccorso in ogni tua necessità… La risposta fa definitivamente e tragicamente chiarezza.

Riecheggia il tentativo, a suo modo generoso ma irrimediabilmente ottuso, del ricco che dall’inferno invoca Abramo di mandare il povero Lazzaro, morto anch’egli e chiamato a riposare per l’eternità nel suo seno, dai fratelli ad ammonirli (cf. Lc 16,19-31). «Hanno Mosè e i profeti; ascoltino loro», è la risposta.

Un gesto profetico: la persona prima del bisogno

Il profeta biblico rende manifesto il messaggio del Signore non solo con parole esplicite, ma anche con atti e gesti, appunto definiti profetici. Grazie al suo essere profondamente innestato nel mondo, al diacono è concesso di poter fare qualcosa di simile.

L’essere del diacono è anzitutto l’identità di un uomo consacrato «per il servizio». Lumen gentium 29 non specifica per quali tipi di servizio. È di fatto rilevante l’incidenza, negli impegni dei diaconi, delle opere di carità. È una rilevanza collegabile alla «diaconia delle mense» di At 6,1-4, ritenuto uno dei momenti istitutivi del diaconato, e a una lettura troppo rigida dell’affermazione degli Apostoli: «Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola». Conta, inoltre, la naturale propensione del diacono, che vive nel mondo e lavora, alla gestione di problemi concreti e pratici.

Ma questo ambito pastorale non è l’unico, né deve esserlo: si è diaconi “24×7”, e non solo quando gli atti ministeriali e i ruoli pastorali vengono posti ed esercitati nell’ambito della comunità cristiana.

Colleghi, collaboratori e superiori (sì, anche i superiori: ricordarsene non è scontato!) sul luogo di lavoro sono persone che incontriamo con il loro stile di vita e il loro portato di gioie e dolori. La rete sociale in cui la famiglia del diacono è inserita – a cominciare dalle famiglie dei compagni di scuola o di sport dei figli e senza dimenticare i vicini di casa – è un tessuto di relazioni nel quale il diacono si trova già da prima dell’ordinazione e al quale è “inviato” non da un espresso mandato pastorale, ma dalla propria identità di cristiano e di ministro ordinato.

Molti e diversi sono i bisogni che possiamo incontrare nelle persone, materiali e spirituali. Ma, appunto, non incontriamo bisogni, incontriamo persone. Prima, potente testimonianza profetica distintiva della fraternità, cioè riconoscibile rispetto alle molte e diverse forme di assistenza e solidarietà, è non definire la persona che incontriamo a partire dal suo bisogno.

Questa è la pre-condizione perché si possa rispondere propriamente alla domanda del dottore della Legge di Lc 10,25-37, e di tanti battezzati di ogni tempo: «Chi è il mio prossimo?». Tutti riconosciamo che il primo dei comandamenti è «Amerai il Signore Dio tuo… e il tuo prossimo come te stesso». Il problema, per il dottore come per noi, sta nel definire quale sia quel prossimo da amare come noi stessi.

Il dottore pone la questione «per giustificarsi», dice Luca: il comandamento, infatti, stabilisce chiaramente la relazione inscindibile tra amore di Dio e amore del prossimo, ma, mentre non abbiamo alcuna difficoltà nel riconoscere la priorità da assegnare all’amore di Dio, ci risulta spesso ostico cogliere il nesso Dio-prossimo nella concretezza della vita quotidiana. Proprio come i “capri” e le “pecore” di Mt 25. E poi c’è l’altra, importante questione: quella della tensione tra ideale evangelico e ciò che chiamiamo “realismo”, e che, se ci arrendiamo a esso, ci impone la “misura” della misericordia.

La trappola del realismo

Lo spettro e, in molti casi, la concretezza drammatica della crisi economica, unita a istanze sempre più esplicite di particolarismi locali, etnici, culturali contribuiscono a far dire ad alcuni che non è possibile accogliere tutti, assistere tutti, ma è necessario operare secondo le concrete possibilità di ciascun singolo, ente, comunità locale e Paese, anche perché l’alternativa inevitabile sarebbe impoverire pure chi accoglie.

Ascoltando queste argomentazioni viene in mente il “realismo” dei discepoli di fronte ai cinquemila accampati ad ascoltare Gesù. Nel racconto di Mt 14,13-21 (e nei passi paralleli di Mc 7,34-44 e Lc 9,10-17) le loro considerazioni sono rigorosamente razionali: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi – dicono a Gesù –, congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare» (Luca aggiunge: «e per alloggiare»). La replica di Gesù è del tutto “irrealistica”: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare».

Cosa impossibile, rispondono i discepoli: «Qui non abbiamo che cinque pani e due pesci». Nella versione di Gv 6,1-15 è invece Gesù stesso che provoca i discepoli dicendo a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Notiamo che Gesù non chiede “con quali risorse?”, ma soltanto “dove”?». Annota l’evangelista: «diceva così per metterli alla prova». E naturalmente i discepoli ci cascano e cominciano a prendere le misure dell’impegno, ovviamente ingestibili: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».

Effetto accecante

Spiccano, nel racconto di Matteo, le coordinate di quantità e di luogo che segnano il realismo dei discepoli. Di particolare importanza è la coordinata di luogo: «Qui non abbiamo che cinque pani e due pesci». Certo, «qui» c’è solo quel poco. E la ragionevolezza dice che “qui”, con quel poco, non si può fare nulla. Non c’è egoismo, in questa considerazione, ma una sollecitudine con riserva: per la folla affamata i discepoli provano compassione, ma non vedono cosa sia loro possibile fare per essa, quindi meglio congedarla perché possa cercare altrove le risorse che “qui” non ci sono.

Questo “realismo della buona volontà” ha un effetto accecante: i discepoli non si rendono conto che “qui” c’è quel Gesù che hanno già visto compiere segni straordinari. Nella narrazione di Matteo, prima dell’episodio dei pani si contano undici interventi miracolosi, di uno dei quali – la tempesta placata – i discepoli sono stati protagonisti, e non solo testimoni. Di più: i dodici hanno già ricevuto (Mt 10) il mandato e l’invio a predicare il vangelo, insieme al «potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità».

E, se Matteo non racconta l’esito della missione, Marco e Luca lo fanno. Marco scrive: «Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6,12-13). Ancor più significativo è il resoconto di Luca, perché qui la moltiplicazione dei pani avviene immediatamente dopo che «al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto» (Lc 9,10).

Insomma, i dodici vedono i segni di Gesù, su suo mandato ne compiono anch’essi, eppure, al dunque di un problema di assistenza e logistica, si arrendono alla “realistica” evidenza che non ci sono risorse sufficienti a provvedere, e non si rendono conto che proprio Gesù è la risorsa di cui hanno bisogno.

Mai come in questo caso appare evidente che tra il realismo e la realtà ci può essere un’enorme distanza. La realtà, certo, non come siamo abituati a concepirla, cioè entro il limite della creatura caduta, ma la realtà nuova del Regno di Dio già inaugurato e operante. «Il regno di Dio è vicino», dice Gesù all’inizio della vita pubblica in Mc 1,15, e si sa che “vicino” vuol dire che il regno è Gesù stesso, ed è quindi tangibilmente prossimo a chi lo incontra e lo segue.

Eppure è proprio da parte dei discepoli di allora e di noi oggi che spesso «la misura del dono di Cristo» (Ef 4,7) viene sostituita con le più ristrette e “realistiche” misure umane. Commentando il discorso della montagna di Mt 5-7, il card. Martini nota che «il Discorso è molto serio e non si può snobbare. Eppure tutta la storia dell’esegesi è la storia della difesa dalla rigidità delle parole di Gesù. L’esegesi cattolica adatta e interpreta più largamente alcune espressioni, cercando degli accomodamenti (…) L’esegesi protestante ha elaborato dei sistemi più rigorosi, sostenendo ad esempio che siamo di fronte a un testo escatologico, che riguarda al massimo gli ultimi tempi, quando il mondo impallidirà nei suoi valori concreti; oppure affermando che è destinato a far emergere la nostra peccaminosità: essendo impossibile da osservare, siamo salvati dalla grazia, riconoscendoci peccatori. Si suppone un’impraticabilità del Discorso (…) E tuttavia Gesù ha inteso il Discorso come ideale e reale insieme».¹

La storia della Chiesa e del popolo cristiano è piena di esempi di questo atteggiamento, e l’attualità pure ne è prodiga. Non è un caso se Gesù fa spesso riferimento a personaggi al di fuori della cerchia dei buoni credenti per declinare concretamente il comandamento dell’amore.

Il Samaritano, la profezia, il diacono

Tra questi personaggi spicca il Samaritano di Lc 10,25-37. Che è la risposta di Gesù alla domanda: «E chi è il mio prossimo?».

Nel secondo capitolo della Fratelli tutti, papa Francesco attira l’attenzione proprio su questa icona evangelica. La parabola lucana – scrive il pontefice – «è un testo che ci invita a far risorgere la nostra vocazione di cittadini del nostro Paese e del mondo intero, costruttori di un nuovo legame sociale. È un richiamo sempre nuovo, benché sia scritto come legge fondamentale del nostro essere: che la società si incammini verso il perseguimento del bene comune e, a partire da questa finalità, ricostruisca sempre nuovamente il suo ordine politico e sociale, il suo tessuto di relazioni, il suo progetto umano. Coi suoi gesti il buon samaritano ha mostrato che “l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro”» (FT 66).

Nella parabola i personaggi che ai nostri occhi fanno una pessima figura, ma ai quali spesso somigliamo tanto, hanno per il loro comportamento delle ragioni che non sono soltanto di mero egoismo. Il sacerdote passa oltre, probabilmente, per non contaminarsi al contatto col ferito sanguinante, e così fa il levita: esempi quanto mai attuali di un certo modo di intendere il culto da rendere a Dio e, per conseguenza, il ministero ordinato, con il rischio che la centratura dell’attenzione su una sacralità e una verità formali e distanti facciano da alibi al quieto vivere. Nel testo non è scritto, ma non possiamo escludere che, passando, il sacerdote e il levita abbiano impartito al ferito una bella benedizione, affidando a Dio colui che non si fermano a soccorrere.

Quattro passi

Cosa fa il Samaritano è arcinoto, ma proprio per questo conviene analizzarlo senza darlo per scontato. Individuiamo così i quattro passi della misericordia, e scopriamo che sono atti al tempo stesso di efficacia immediata e profetici.

Il Samaritano, passando accanto al ferito, per prima cosa lo vede. Sembra una banale notazione pratica, ma quel vedere è il presupposto di ciò che segue: «ne ebbe compassione». Da quante vite siamo attraversati e quante ne attraversiamo come se fossimo e fossero fantasmi inconsistenti!

Il diacono ha nel vedere del Samaritano il suo modello di sguardo, e quello sguardo penetra nel profondo. È lo sguardo che ogni cristiano è chiamato a rivolgere al suo prossimo, ma per il diacono farlo è anche un preciso mandato ministeriale. Lo sguardo compassionevole, nel senso etimologico del termine, è uno sguardo che spesso riesce a schiudere anche le porte più ostinatamente serrate, perché non è lo sguardo voyeuristico di chi vuole sapere i fatti degli altri per morbosa curiosità e senza farsene coinvolgere (la vita come talk show), ma lo sguardo di chi vuole con-vivere la vicenda dei fratelli e delle sorelle che incontra, nella gioia e nel dolore.

Una generica compassione è un sentimento che non ci riesce difficile provare: la visione – o più spesso la tele-visione – di chi soffre suscita compassione nella maggior parte di noi. Ma anche tra quanti provano questa reazione emotiva, molti subito dopo fanno scattare il “realismo”: chi sarà poi quel tipo? non è che se l’è andata a cercare? che posso fare io, che non sono un medico? e se poi mi becco qualche brutta malattia? ci vuole un bel decreto per garantire la sicurezza delle strade… E intanto si passa oltre.

Il Samaritano si regola diversamente. La compassione, in lui, è operativa. Fa subito quel che può fare direttamente: presta al ferito le cure di base. Poi lo trasporta all’albergo e resta accanto a lui.

Ma c’è ancora un quarto passo. Se prolunghiamo e approfondiamo gli effetti dell’arrivo del Samaritano alla locanda, scopriamo che attiva una rete.

Lo sottolinea papa Francesco nella Fratelli tutti: «Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano. Le difficoltà che sembrano enormi sono l’opportunità per crescere, e non la scusa per la tristezza inerte che favorisce la sottomissione. Però non facciamolo da soli, individualmente. Il samaritano cercò un affittacamere che potesse prendersi cura di quell’uomo, come noi siamo chiamati a invitare e incontrarci in un “noi” che sia più forte della somma di piccole individualità; ricordiamoci che «il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma”» (FT 78).

È certo che la prima vocazione dell’oste non è gestire un’astanteria, quella dei servi e delle serve non è di fare gli infermieri. È però ciò che il Samaritano li muove a fare.

Si può obiettare che l’albergatore interviene perché viene pagato. Ma i due denari non bastano a giustificare il suo coinvolgimento: l’albergatore accetta di trasformare una stanza in una camera d’ospedale. E fa un investimento di fiducia, accettando la promessa del Samaritano di versargli l’eventuale differenza al ritorno. Luca non scrive perché l’albergatore si fida, non ce n’è bisogno: un uomo capace di sporcarsi le mani con la sofferenza altrui appare meritevole di fiducia.

Possiamo facilmente immaginare un ulteriore allargamento della rete solidale: l’albergatore chiama i camerieri e impartisce loro le disposizioni perché si occupino del ferito, manda qualcuno ad avvisare i familiari del poveretto. Insomma, il Samaritano agisce in proprio, ma coinvolge anche altri e mette in piedi un intervento strutturato, dove altre persone si ritrovano a fare qualcosa di imprevisto e di non conforme al proprio ruolo predefinito e al proprio mansionario, ma comunque alla loro portata: un albergatore ha già gli strumenti per ospitare, ne cambia la destinazione d’uso; un cameriere sa già come accudire un ospite, declina diversamente questo suo sapere; un garzone o uno dei tanti ospiti dell’albergo, che ha già come destinazione o come tappa il villaggio del ferito, si assume l’incarico di avvertire la famiglia. E ci piace pensare che, una volta appresa la notizia, i vicini si siano dati da fare per sostenerla in attesa del ritorno del capofamiglia.

Il diacono come nodo della rete

Attivando la rete, il Samaritano si è preso cura non delle ferite di un uomo, ma di un uomo nella condizione di ferito. E ha coinvolto altri a fare lo stesso. Lo sguardo che riconosce l’altro come prossimo e suscita compassione autentica, che a sua volta attiva un fare misericordioso, sulla cui testimonianza si fonda la possibilità di attivare una rete: tutto questo è profezia. E non può non essere tratto costitutivo del ministero del diacono, che è chiamato a testimoniare la carità, a stimolare negli altri, con l’esempio, l’assunzione di responsabilità verso i fratelli e ad essere ponte di misericordia tra la Chiesa e ogni uomo e donna del mondo. In sintesi: ad essere nodo ministeriale della rete di fraternità.

Se la vita coniugale e familiare è ispirata a una vigilante invocazione e accoglienza della Grazia, tutta la famiglia del diacono può diventare nodo attivo e attivante. La casa del diacono, la sua famiglia, possono essere la prima locanda. La confidenza e la sintonia della sposa ne fanno interlocutrice ideale dello sposo per discernere le situazioni incontrate e primo riferimento per le persone cui può giovare di più la sua sensibilità. Figli cresciuti in una casa la cui porta si apre a chi bussa, e dove arrivare con un ospite inatteso non provoca scompensi, sono naturali supporter.

Nel servizio ecclesiale e nella presenza nel tessuto sociale, il diacono prima che operatore pastorale è animatore e suscitatore, uomo del fare, certo anche, ma ancora di più ministro del far fare. Innestato con la propria specifica identità ministeriale in una rete di relazioni, di questa rete è chiamato non solo ad essere nodo attivo, ma ad attivare altri nodi.

«L’orecchio e la bocca del vescovo»

Nella Didascalia degli Apostoli (2,44) si dice: «Il diacono sia l’orecchio e la bocca del vescovo, il suo cuore e la sua anima». Vale la pena, in conclusione, riflettere sulle implicazioni di questa definizione.

C’è, naturalmente, il fatto fondamentale di essere nell’obbedienza al vescovo e da lui mandato nei luoghi e nelle attività pastorali. Ci sono gli incarichi diretti che, a volte, il vescovo può assegnare a un diacono, ed è sempre possibile che un diacono segnali al suo vescovo particolari situazioni.

Ma è possibile anche un’interpretazione spirituale estensiva di questo ruolo “protesico”.

Se mi sento realmente e intimamente legato al vescovo e all’obbedienza che ho promesso a quello che mi ha ordinato e ai suoi successori, quando il mio sguardo si posa su un fratello o una sorella in qualche modo è anche lo sguardo del vescovo che li raggiunge, quando mi pongo in ascolto di una persona, è anche il pastore che ascolta.

E la profonda comunione di cuore e anima con il vescovo, che la Didascalia raccomanda al diacono, mi porta a pensare: sarebbe bello se ogni vescovo, nella preghiera personale quotidiana, ponesse espressamente un’intenzione per le persone e le situazioni incontrate dai suoi diaconi. Nel dettaglio probabilmente non le conoscerà mai tutte, ma sa che attraverso gli occhi dei diaconi anche i suoi occhi le hanno guardate con amore.

  • Giorgio Agagliati è membro del Consiglio direttivo della Comunità del Diaconato in Italia.

¹ Carlo Maria Martini, Il Discorso della montagna. Meditazioni, Mondadori Oscar spiritualità, ottobre 2008, pagg. 25-26.

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