Suscitare diaconia nella Chiesa

di:

serivizio

La vita sinodale della Chiesa si offre, in particolare, come diaconia nella promozione di una vita sociale, economica e politica dei popoli nel segno della giustizia, della solidarietà e della pace  (La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, n. 119).

Come si inserisce la vocazione specifica al diaconato dentro il processo di rinnovamento sinodale delle nostre comunità cristiane?

Offro un contributo, presentando alcuni aspetti che, a mio parere, possono contribuire a far sì che il diaconato svolga quel ruolo profetico e quella spinta trainante che il Concilio Vaticano II, più o meno consapevolmente, gli ha riconosciuto nel ripristinarlo nella sua forma permanente di esercizio ministeriale.

Presupposti teologici

Richiamo brevemente alcuni aspetti che considero essenziali per inquadrare la mia proposta. Si tratta di elementi teologici acquisiti in buona parte dall’attuale sviluppo del pensiero teologico e magisteriale, anche se a volte trovano tuttora chi ne mette in discussione alcuni.

In primo luogo, il diaconato è parte del ministero dell’ordine. Si tratta quindi di un sacramento, e in questo sta lo specifico della novità di questo ministero, che non può essere confuso con una ministerialità laicale istituita, mentre si trova a esserne – come vedremo – animatore e promotore.

Un certo linguaggio che attraversa il sentire comune delle comunità cristiane (anche nei vescovi e nei presbiteri, a volte) mi sembra non aiutare in questa consapevolezza: quando si dice che “quest’uomo fa già il diacono, che bisogno c’è di ordinazione?”, emerge una certa nebulosità nella comprensione del diaconato stesso.

Trattandosi di una ministerialità ordinata, emerge con maggior evidenza che si tratta di una chiamata, di una vocazione, che il soggetto sperimenta interiormente come risposta a una specifica relazione con il Signore che chiama, ma che necessita un’approfondita e competente valutazione da parte della comunità cristiana, e in particolare del vescovo e degli incaricati al discernimento vocazionale.

In questo senso, non trovano spazio nel processo di discernimento e nella formazione dei futuri diaconi atteggiamenti di rivendicazione o di pretesa, sottintesi in forme di autocandidatura non vagliate adeguatamente nel cammino spirituale.

Allo stesso tempo, credo sia da vigilare sulla consapevolezza dei parroci o dei presbiteri che propongono eventuali aspiranti al diaconato a partire dalle proprie necessità pastorali, senza una chiara coscienza dell’identità specifica del diaconato stesso.

Come membro dell’ordine sacro, il diacono fa parte della gerarchia della Chiesa, chiamata a guidare la comunità tutta in fedeltà all’insegnamento degli apostoli (custodire l’apostolicità della Chiesa) e in una costante tensione all’unità (in un’ecclesiologia di comunione).

In termini moderni, va riconosciuto anche al diacono un ruolo costitutivo di leadership nella Chiesa, e su questa leadership, a mio parere, va orientata l’attenzione formativa, per evitare malintesi nell’assunzione della specifica missione diaconale.

Al diacono compete la triplice diaconia della carità, della Parola e della liturgia, con un possibile e forse opportuno decentramento del proprio baricentro ministeriale verso la carità, ma senza dimenticare di essere chiamato ad alimentare una relazione costante fra l’annuncio, il servizio ai poveri e la celebrazione grata del mistero di salvezza incarnato nella storia.

Considero sufficientemente acquisito dalla riflessione teologica e dalla prassi magisteriale l’idea che il diacono trova la propria specifica identificazione sacramentale in Gesù servo, di cui è segno e strumento (non proprietario in maniera esclusiva) per “ricordare” a tutti membri della Chiesa e alla comunità cristiana tutta la propria missione battesimale al servizio.

La metafora

Papa Francesco – com’è noto – ha sintetizzato l’identità del diacono nell’espressione efficace di “custode del servizio”.

La metafora va declinata, secondo me, per evitare malintesi. Ci sono alcune implicanze, nell’immagine del custode, che possono trarre in inganno, deformando in modo inopportuno la comprensione del ministero diaconale nella Chiesa locale.

Malintesi da evitare

In quanto “custode” della realtà del servizio ecclesiale, il diacono non è:

  • Una specie di scrigno a protezione di un tesoro o un armadietto per contenere i propri oggetti personali. Se così fosse, ciò che sta dentro la custodia sarebbe in qualche modo “MIO”.

Il diaconato potrebbe in questo senso proporsi alla Chiesa come il proprietario del servizio, l’unico gestore della diaconia. In pratica, si scivolerebbe nel malinteso di considerare il diacono come “colui che serve quando serve”, “colui che viene chiamato ogni volta che c’è bisogno”, perché sarebbe lui il detentore della chiamata al servizio.

Per scendere nello spicciolo, sia se ci sono compiti pratici da svolgere, sia se c’è qualche compito o ufficio da garantire nel vissuto ordinario della comunità (quasi sempre la parrocchia, nel senso più tradizionale e restrittivo del termine), allora il diacono si presenterebbe come il miglior aiutante del parroco e il tappabuchi di tutti i vuoti di servizio della comunità. Ma il servizio non è mai appannaggio di una persona sola…!

  • Una specie di boccetta che conserva una pozione magica o una medicina che cura miracolosamente.

Il servizio apparirebbe in questo caso come una specie di “toccasana”, custodito appunto e gestito da esperti che ne hanno fatto una specializzazione da non disperdere troppo. Si creerebbe così la dinamica quasi settaria dei gruppi chiusi, delle équipes autoreferenziali, delle commissioni di esperti super-competenti ma poco avvezzi al confronto, al dialogo, al coinvolgimento.

Il diacono in questo senso misurerebbe la propria efficacia più su categorie di efficienza che di evangelizzazione. Ma il servizio non è mai materia per specialisti soltanto…!

  • Una specie di guardiano di una proprietà che non gli appartiene. In questo caso il servizio sarebbe inteso come un compito, una funzione, un insieme di cose da fare che il diacono svolge “a chiamata” o “per mandato”, fedele e responsabile, ma quasi come un impiegato o uno stipendiato per conto di altri.

Si assiste, in questi casi, a forme di sottomissione al prete di turno, o anche al vescovo, che non rispecchiano il carisma dell’obbedienza per la semplice ragione che la diaconia sarebbe compresa come un ruolo esteriore e non come un’espressione di un rapporto vitale con il Cristo.

La Chiesa, quella concreta, fatta di volti e di spazi, di tempi e di incontri, risulterebbe alla stregua di un’azienda dentro la quale svolgere delle mansioni, ma ESTRANEA al vissuto interiore e quindi all’identità del diacono. Ma il servizio non è questione di funzioni, bensì di identità profonda!

Prospettive da percorrere

Messe in luce queste possibili derive della comprensione del ministero diaconale, focalizzato nella diaconia della quale è chiamato “custode”, e attingendo alla consapevolezza che alla radice della vocazione e della missione del diacono vi è una spiritualità radicata in Gesù servo, provo a mettere in evidenza quelli che, secondo me, sono i tratti specifici del diacono rispetto al servizio della e nella Chiesa.

Riprendendo quanto detto, considero che il diacono, in quanto leader, cioè guida, debba esercitare una “servant leadership”, che si potrebbe tradurre in italiano come una capacità di essere suscitatore di servizio (diaconia) fra tutti e verso tutti. Egli si fa servo nel risvegliare la coscienza diaconale di ogni membro della Chiesa e verso ogni uomo e donna della terra, secondo l’ideale conciliare di una Chiesa serva del mondo, di una comunità cristiana “tutta ministeriale”.

Da un punto di vista pastorale, considero allora che il ruolo del diacono dentro la comunità cristiana stessa si possa caratterizzare per questi quattro verbi, che hanno un ordine esplicativo fra loro, ma che non sono necessariamente da ritenere come manifestazione di un processo cronologico.

In quanto “suscitatore di diaconia”, il diacono:

  • È chiamato a scoprire talenti, capacità, carismi, doni personali e comunitari nel tessuto ecclesiale e sociale in cui vive. Il suo atteggiamento interiore è quello dell’esploratore, capace di ascolto e di visione nel cogliere i luoghi, le esperienze, le persone che, più o meno esplicitamente, esercitano o possono esercitare diaconia.

È così espressione dell’atteggiamento salvifico di Dio che, prima ancora di intervenire nella storia, «vede la sofferenza e ascolta il grido del povero che geme nella schiavitù». Già questa sensibilità, frutto di un cammino spirituale serio e fondato nel mistero dell’Incarnazione, comporta un modo specifico di “stare al mondo” che ha il sapore dell’Alleanza che salva.

  • È chiamato ad animare la diaconia, cioè a dare anima a quello che potrebbe ridursi – al contrario – in puro esercizio di filantropia sociale.

Mettendo in relazione la disponibilità di risorse diaconali presenti nei battezzati e oltre, nella comunità cristiana e oltre, con i bisogni reali del territorio, il diacono è chiamato più profondamente a rendere visibile lo specifico atteggiamento del Dio della vita, che è presente in questo processo di promozione della dignità dell’uomo in ogni angolo e periferia della terra.

In questo senso, il diacono è pungolo per la comunità cristiana che celebra l’eucaristia, è stimolo per i gruppi e le realtà che tendono ad adagiarsi e a rassegnarsi, è spinta che orienta l’impegno di tutti verso un Oltre di pienezza. E lo fa a nome della comunità cristiana stessa, della Chiesa di cui è guida ma prima di tutto membro, senza dicotomie e contrapposizioni.

  • È chiamato a formare coloro che si rendono disponibili ad esprimere la propria vocazione al servizio, facendosi aiutare o assumendo competenze in base alle necessità, perché il bene sia fatto bene.

Il diacono quindi non è colui che fa da solo, o fa al posto di altri: se prende l’iniziativa, se fa il primo passo, se dà l’esempio è per coinvolgere, stimolare, sollecitare… Non è un battitore libero, e non tende a risolvere in solitaria tutti i problemi, ma si rende artefice di una comune con-formazione a Cristo servo di tutti i battezzati e della comunità stessa.

Si forma e forma con la catechesi, con la liturgia, con opportuni corsi e stage tematici… il tutto in una visione antropologica evangelica che assume l’integrazione dei diversi livelli della personalità umana (corpo, psiche e spirito) come ideale da perseguire e mai raggiunto pienamente.

  • È chiamato a comunicare, nel senso più ampio di questo verbo: prima di tutto, a mettere in comunicazione persone, realtà, ma anche risorse e bisogni; più profondamente, a contribuire a costruire comunione.

Detto in termini moderni, il diacono crea rete, si pone come giuntura fra le membra del corpo, svolge un costante ministero di mediazione e di tessitura per relazioni pacifiche e costruttive.

Al diacono spetta il compito costante (racchiuso già nella sua identità di ministro sacro spesso inserito in un contesto relazionale familiare e lavorativo) di tenere insieme dimensioni diverse, aree diverse, situazioni diverse, non in una logica funzionale scandita dalle esigenze del cronometro o del profitto, ma in una logica evangelica di unificazione della persona in Cristo.

Il diacono si pone quindi nella Chiesa e nel mondo come un uomo di comunione.

Implicanze comunitarie

Quanto espresso finora ha senso nella consapevolezza che l’identità e il ruolo del diacono si inseriscono dentro una comunità cristiana, la quale deve essere disposta al cambiamento per poter valorizzare la ricchezza del carisma diaconale così come il Concilio ha voluto restituirlo alla Chiesa.

Sono convinto che non potranno essere comprese e non potranno esprimersi adeguatamente la bellezza e la specificità del ministero diaconale se non si attuerà un’autentica conversione del modo in cui la Chiesa stessa si comprende, sia da un punto di vista ideale, sia – necessariamente – da un punto di vista strutturale.

In particolare:

  • Il primo cambiamento radicale riguarda le parrocchie.[1] In ascolto del cambiamento d’epoca che viviamo, non è più possibile pensare alla parrocchia territoriale centrata sulla figura del parroco come unico pastore (usiamo anche per lui la parola “fastidiosa” che ho usato prima: leader).

La realtà stessa ha definitivamente sradicato la comprensione dei rapporti dentro la società in una prospettiva non solo verticistica-piramidale, ma anche a cerchi concentrici, come se da un centro di autorità derivasse, per “allargamento di cerchi”, una progressiva diffusione della missione ecclesiale.

Insomma, il tempio con il suo sacerdote non è più al centro della comunità, come non lo è della società, perché le persone hanno svariati poli di riferimento a cui rivolgersi per diverse necessità, e dai quali si esercitano funzioni di autorità o di potere.

La ministerialità, quindi, va vissuta in maniera sinodale con una reale struttura di corresponsabilità, in particolare dentro il ministero dell’ordine.

Detto in altri termini, il servizio e la guida della comunità vanno “de-sacerdotalizzati”, cioè va dato spazio per esercitare la propria reale responsabilità a ciascuno secondo la propria vocazione e missione nel contesto di una comunità cristiana “in uscita”, incarnata nel territorio e nel vissuto della gente. Serve una comprensione della parrocchia, Chiesa-fra-le-case, che non trasformi il radicamento territoriale in fissità, e riconosca la reale presenza di battezzati dentro gli ambienti di vita ordinaria come espressione della Chiesa stessa.

Al diacono, a mio parere, spetta appunto lo scoprire-animare-formare-comunicare soprattutto coloro che sono dentro le realtà quotidiane del vissuto umano, come ministro riconosciuto e inviato dalla Chiesa, con la grazia sacramentale, per aiutare a far sentire questi cristiani parte attiva e autentica della comunità cristiana stessa “spalmata” nel tessuto delle relazioni di ogni giorno.

In questo senso, considero proprio del diacono non tanto la cosiddetta “pastorale d’ambiente”, ma il compito di connettere con la pastorale, cioè con la comunità cristiana che ha nella parrocchia la sua struttura basilare, ogni ambiente di vita.

Non si tratta di attivare realtà e percorsi paralleli al vissuto ecclesiale che una parrocchia può e vuole offrire, ma di trasformare la parrocchia stessa in una logica più missionaria, riconoscendo come parte del vissuto parrocchiale stesso quelle che possono essere le nuove frontiere abitate ed esplorate dalla ministerialità diaconale.

  • In questo senso, appare evidente che il passo “sine qua non” è una nuova comprensione di tutto il ministero ordinato, per cui presbiteri e diaconi, insieme al proprio vescovo, si mettono in gioco per ripensare una maniera nuova di essere e di esercitare il proprio servizio.

Faccio fatica a continuare a pensare, per il futuro della nostra Chiesa, la presenza di parroci solitari e indipendenti, con a carico il peso di tutte le incombenze legate a una parrocchia, da quelle più specificamente spirituali e sacramentali, fino a quelle amministrative e giuridiche.

Non è qui il luogo per mettere in evidenza le conseguenze negative di una comprensione del presbiterato a mio parere decisamente anacronistica, e fautrice di diversi problemi.

Considero necessario, da una parte, proporre una teologia del ministero meno concentrata (senza escluderla) sulla prospettiva cultuale e sulla logica dei poteri sacrali da esercitare; dall’altra, l’attivazione di modalità, itinerari formativi, strutture partecipative adeguate a creare relazioni autentiche, profonde, sincere per una condivisione reale della comune chiamata al servizio al Regno, prima di tutto fra preti e diaconi, e poi con i battezzati che esercitano ministeri nella comunità.

Di conseguenza, ritengo insufficiente considerare il diacono nella sua relazione con il vescovo, sebbene ne condivida l’idea di una referenzialità che non è mediata, per chi è diacono, dal grado presbiterale del ministero ordinato. Ma poi di fatto l’interazione fra i diversi soggetti che formano l’unico ministero deve essere reale, e per il vissuto concreto della Chiesa la domanda cruciale riguarda una nuova maniera di comprendersi e di relazionarsi fra presbiteri e diaconi, in un’ottica di reciproca stima e di complementarietà ministeriale che può dare solo buoni esiti per la Chiesa stessa.

  • Ne deriva una prassi pastorale parrocchiale nuova, aperta alle periferie, incarnata maggiormente perché aiutata a mettere davvero in relazione la celebrazione del mistero eucaristico con l’azione evangelizzatrice e caritativa nel mondo.

Una maggiore coscienza comunitaria porterebbe alla luce ulteriori questioni di vario tipo, che qui non possiamo approfondire, ma che riguarderebbero per tutti i membri della Chiesa (soprattutto per chi esercita potere, come i sacerdoti) una purificazione da modalità e atteggiamenti narcisisti, autoritari, autoreferenziali nella gestione della comunità stessa.

La parrocchia vissuta e guidata in maniera sinodale (si potrebbe arrivare a parlare di “conduzione comunitaria della pastorale”) imparerebbe a far tesoro della presenza diaconale dentro le “macro aree pastorali” come espressione della parrocchia stessa (o delle parrocchie unite in dinamica sinodale), e non come ambiti di servizio separati, alternativi o addirittura in competizione con la cosiddetta “pastorale tradizionale”.

Implicanze formative

Da quanto esposto, derivano anche alcune attenzioni necessarie a livello di discernimento e di formazione diaconale.

  • Il discernimento richiede innanzitutto che vi sia una verifica da parte dei responsabili dell’effettiva capacità della persona ad integrare nel proprio mondo interiore le diverse esigenze di una realtà che necessariamente si manifesta come densa di tensioni e a volte di contraddizioni, perché il compito di “cerniera” proprio del diacono nella pastorale necessita di personalità sufficientemente mature e capaci di generare, oltre che di vivere, relazioni sane e costruttive. La spina dorsale di questa integrazione è la vita spirituale.

Non vanno però trascurate neanche le opportune attenzioni sul fronte delle abilità e delle competenze utili per svolgere quel ruolo di leader nel servizio che è richiesto al diacono.

  • La formazione iniziale, come quella permanente, deve evidentemente favorire un processo mai interrotto in quest’opera di integrazione personale, per cui sarà saggio da parte dei responsabili farsi aiutare da esperti nelle scienze umane, oltre che nella vita dello Spirito, per accompagnare adeguatamente i candidati e i diaconi ordinati.

Inoltre, avrà certamente più efficacia una formazione che favorisce l’incontro in piccoli gruppi e momenti di condivisione e di lavoro residenziali, assieme anche alle mogli, piuttosto che una serie di conferenze o di interventi cattedratici su tematiche comunque importanti della vita ecclesiale e sociale, ma spesso limitate a un approccio intellettuale poco efficace per un reale cambiamento della persona.

  • Infine, saranno da considerare momenti e spazi adeguati per avere uno scambio reciproco di conoscenza, di approfondimento, di formazione fra presbiteri e diaconi (senza escludere in qualche momento, magari a livello vicariale o zonale, di dare spazio a stage formativi pure insieme ai laici).

Solo un itinerario che consideri una progressiva adesione alla novità implicita nella presenza del diaconato dentro la Chiesa diocesana da parte di tutti può dare i frutti sperati per un rinnovamento secondo il cuore di Dio.

In concreto

L’impegno ministeriale primario del diacono si dovrebbe concentrare, per mandato del vescovo, in una di quelle che potremmo definire “macro aree pastorali”.

Si tratta di una presenza di “suscitatore di diaconia” (meglio se in équipe con altri diaconi, laici, consacrati) in una delle aree pastorali che riguardano le periferie esistenziali della vita sociale: dal lavoro, alla sanità; dal mondo carcerario, alla politica; dal volontariato, all’attenzione al creato; dalla cultura, alla pastorale dei migranti; dalle famiglie in difficoltà, all’ecumenismo ecc.

In ciascuna di queste aree, si possono attivare esperienze che concretizzino gli obiettivi di scoperta-animazione-formazione-comunicazione delle risorse diaconali presenti nella vita di ogni giorno. Che poi le si denomini o strutturi come “diaconia” o altro, ciò dipende piuttosto dal processo di sensibilizzazione condiviso dalla diocesi o dalla vicaria di riferimento, e non da un progetto pensato a tavolino e applicato in maniera deduttiva, secondo un processo che non rispetta la visione diaconale della pastorale.


[1] Per una breve sollecitazione sul tema della parrocchia oggi, si veda il mio intervento “Quale parrocchia è possibile oggi?”, in Unità nella Carità, 2019 (2), pp. 23-37, consultabile in https://online.fliphtml5.com/qmld/vzik/ .

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3 Commenti

  1. diacono Tiziano 29 luglio 2022
  2. Freddy Palacios 10 luglio 2022
  3. Massimo 5 luglio 2022

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