Chronicon – 20. Padre, sono gay

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È la quarta volta che arriva R. a confessarsi. Regolarmente, ogni quindici giorni, si presenta e racconta. Fin da subito mi ha detto molto chiaramente di essere omosessuale. La sua confessione mi ha colpito ma non solo e non tanto per questa franchezza nell’esporsi, quanto per una qualità umana e spirituale superiore alla media che emergeva dai suoi racconti.

La regolarità della sua presenza al sacramento mi ha portato a rileggere un vissuto più ampio e a recuperare altri incontri. Mi viene da chiedermi: quando e come le storie delle persone omosessuali varcano la soglia delle nostre comunità cristiane e della mia vita personale di prete? Ho provato a far mente locale e, oltre a R. che ormai è una presenza fissa, ci sono almeno altre due situazioni che mi hanno portato vicino a vissuti di questo tipo. Non sono tutti, ma rappresentano in qualche modo l’esperienza che fino ad ora posso raccogliere.

Mi viene alla mente F., anche lui incontrato in confessione. L’ho visto una volta soltanto. Mi ha narrato in maniera confusa e non del tutto limpida i suoi incontri nelle saune, nella palestra vicina e in alcuni locali. Ho fatto più fatica in questo caso ad accogliere in maniera libera il racconto che mi veniva consegnato, e di conseguenza anche ad abbozzare qualche tentativo di risposta. In positivo, l’incontro con F. mi ha permesso di non tirare conclusioni generiche sulla “categoria”, ma di provare ad entrare con più attenzione e rispetto nella storia singolare di ciascuno.

Anche perché mi ha molto colpito un altro episodio. G. e C. sono marito e moglie molto ben inseriti in parrocchia, collaboratori preziosi e anche amici cari. Non senza sofferenza, nel corso di una cena, mi hanno parlato a lungo del loro figlio che, da tempo, hanno accompagnato in un difficile percorso di ricerca e di scoperta della propria identità sessuale.

In questo cammino G. e C. si sono sentiti soli. Non avevano possibilità di confronto, e non hanno trovato un grande aiuto dai testi ufficiali della Chiesa. I principi ribaditi a oltranza e i giudizi senza appello li hanno indotti al silenzio piuttosto che alla confidenza. Il loro racconto mi ha colpito profondamente e ha cambiato il mio modo di parlare di questi percorsi.

Ogni volta che si accenna alla questione degli omosessuali, io immagino che siano presenti G. e C. e il mio modo di affrontare questi temi diventa più avvertito e discreto. Provo anche maggior fastidio quando altri ne parlano in modo rozzo e grossolano, rifugiandosi dietro battute e frasi fatte; penso a quanto questo ferirebbe i miei amici.

Forse anch’io ho poche opportunità per parlare serenamente di queste tematiche. Anche per questo le affido alle pagine discrete di questo Chronicon che magari non leggerà mai nessuno. Sento di non poter ancora contare su di un vissuto abbastanza ampio da permettere un pensiero che vada oltre affermazioni teoriche o suggerimenti di buon senso. Credo di avere soprattutto tante domande. Ma confido che questo sia un buon modo di cominciare a pensare.

Una prima domanda: come e quando ne parliamo tra preti? Poco, e in maniera confusa. Eppure, a naso, sappiamo bene che proprio tra il clero (sulle religiose non mi esprimo perché è un mondo per me ancora indecifrabile; meglio ne parlino loro) la presenza di vissuti omosessuali non è certo rara (possiamo dirlo?). Forse ne parliamo così poco perché ci troviamo in imbarazzo anche per il contrasto tra una dottrina così rigida e un vissuto così poco omogeneo.

Una seconda domanda che mi inquieta riguarda più le nostre parrocchie. Dove sono le persone omosessuali? Che tipo di accoglienza possono trovare? L’impressione è che i loro vissuti siano una presenza sommersa che non può trovare e prendere parola. Anche in questo caso sento forte un contrasto: quello tra una parola pubblica sulla condizione omosessuale anche eccessivamente esibita a fronte di un reale ascolto e accoglienza di singoli percorsi che invece restano silenti. E, d’altra parte, la fatica ad accogliere i vissuti omosessuali forse risiede anche nel modo con cui se ne parla (o se ne tace) nelle nostre comunità.

Ecco la terza questione: come ne parliamo? Ho l’impressione, a volte, che siamo molto distanti da una buona via media che eviti le secche di un buonismo generico, da una parte, e un’intolleranza grezza, dall’altra. C’è chi si limita a dire «che problema c’è, va tutto bene, ciascuno fa quello che vuole…» e chi dice «sono malati, curiamoli o facciamoli fuori!». Tutto questo non aiuta uno sguardo più fine sui vissuti e quindi non permette di accompagnare un cammino di umanizzazione e di rilettura alla luce del Vangelo di questa come di ogni altra condizione umana e sessuale. Mi pare che ci sia un ritardo culturale delle nostre comunità molto grave.

Alla fine mi chiedo: che cosa mi può aiutare? E come posso aiutare la mia comunità? Sicuramente non penso di poter fare a meno di una buona riflessione teorica e di un dibattito aperto e libero che nella Chiesa possa continuare e fiorire. Ma non basta. Sento il bisogno di ascoltare di più le loro storie e di conoscere più da vicino i loro cammini, per comprendere meglio e per imparare da loro e con loro.

Come mi diceva R. nella confessione di questa mattina: era contento di aver trovato un interlocutore per il suo cammino spirituale. «Ti ringrazio, perché con te sono libero di parlare della mia condizione, ma anche di non parlarne e di non parlare solo di questo». Mi ha fatto venire in mente quello che dice spesso papa Francesco: occorrono cammini di «inclusione». Forse significa non solo accogliere il vissuto di chi ha un percorso omosessuale, ma anche non isolare la questione come se fosse l’unica, sganciandola da tutto il resto della vita.

don Giuseppe

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Un commento

  1. Patrizia Pane 4 luglio 2016

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