Mazzolari: La parrocchia dell’universo

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Don Mazzolari

Il 12 aprile 1959 moriva a Bozzolo don Primo Mazzolari. In occasione del sessantesimo anniversario riproproniamo un saggio del prof. Emanuele Curzel.

Vi sono qualifiche che caratterizzano una persona in misura tale da entrare quasi a far parte dell’onomastica. Primo Mazzolari fu parroco: lo fu per quasi quarant’anni, dal 1921 alla morte, avvenuta nel 1959 all’età di 69 anni. Come parroco scrisse i suoi testi più famosi, da parroco attraversò il fascismo e la guerra rischiando più volte la morte, da parroco subì censure e restrizioni, da parroco fece testamento. Lo fu continuamente ed intimamente, con entusiasmo e con amore, con un’intensità che a noi, che viviamo in un’epoca in cui “entusiasmo” e “parrocchia” appaiono termini semanticamente incompatibili, appare quasi incomprensibile.

Mazzolari e la parrocchia

Primo Mazzolari, parroco, scrisse anche sulla parrocchia. Il primo testo in ordine di tempo che ne tratta direttamente è Il mio parroco (Confidenze di un povero prete di campagna), stampato nel giugno 1932. Era un opuscolo d’occasione, fatto per accompagnare il suo passaggio dalla parrocchia di Cicognara quella di Bozzolo (entrambe nel basso mantovano): serviva a congedarsi dall’una e a presentarsi all’altra comunità. In esso si notano numerose citazioni bibliche e letterarie (c’è spazio anche per Dostoevskij e Manzoni) e svariate espressioni colloquiali che, all’epoca, dovettero fare sensazione («il parroco degli scopai è scopabile», con allusione alla professione degli abitanti di Cicognara; «non lo so neppure io che cosa vendo, benché faccia il mestiere da anni: né che scritta metterci sulla mia bottega», facendo un paragone tra la professione di parroco e quella di bottegaio). Vi si trova però soprattutto un esame della distanza tra l’ideale sacerdotale e la possibilità che “un” parroco – lui, parroco – potesse corrispondervi: al centro, la necessità di amare senza pretendere nulla, proprio come fa Dio.

Il testo mazzolariano più importante sull’argomento, la Lettera sulla parrocchia, fu scritto di lì a poco, ma uscì solo nel 1937 e a firma di un anonimo “laico di Azione Cattolica”: le contestazioni e la censura (con annesse accuse di modernismo) che aveva subito La più bella avventura (1934) lo avevano evidentemente condizionato. La pseudonimia non era solo un espediente, dato che l’Azione Cattolica era l’unica istituzione sopravvissuta, in forza del Concordato, alla tabula rasa imposta dal regime, ed era dunque diventata l’unico luogo in cui avere un’esperienza formativa non del tutto allineata col fascismo.

Il testo appare non meno appassionato, ma più equilibrato de Il mio parroco; il tema è enunciato fin da subito con una certa enfasi, dato che «la parrocchia è la cellula vivente della chiesa … Nella parrocchia la chiesa fa casa con l’uomo» (p. 19). La percezione delle difficoltà che il lavoro pastorale comporta («è divenuto un magnifico facchinaggio con arsenale, dove nulla manca, e con intorno una cinta che cresce ad ogni insuccesso e trasforma la parrocchia in fortilizio», p. 23) impone però all’autore di riflettere sui cambiamenti intercorsi. Questi vengono descritti soprattutto come la conseguenza della perdita di «ministeri o funzioni, i quali erano ad essa legati o da essa esercitati direttamente benché non essenziali alla sua missione» (p. 26).

Da un lato, la parrocchia non ha saputo accettare fino in fondo questo inevitabile processo («Affermiamo di continuo l’accresciuta forza della religione purificata da ogni intromissione d’affari materiali, e non riusciamo a staccare il cuore da certi impedimenti», pp. 31-32). Dall’altro lato, il laicismo si è espresso come «pensiero e vita staccati da ogni senso religioso», e richiede, per essere superato, «un audace laicato cattolico, al quale spetta, come compito principale e urgente, di ricreare cristianamente la vita della parrocchia senza portarla fuori dalla realtà e senza imporle delle mutilazioni in ciò ch’essa possiede di buono, di vero, di grande e di bello» (pp. 47-48).

L’esame di coscienza sul metodo si traduce dunque, nella Lettera sulla parrocchia, in una critica del modo in cui la parrocchia tratta il laicato, seguendo o la strada del «lasciar fare», o quella dell’«attivismo separatista» o quella del «soprannaturalismo disumanizzato»; seguendo queste strade, però, la parrocchia declina per «difetto d’incarnazione».

In quegli stessi anni trenta si colloca Lettere al mio parroco (pubblicato poi solo nel 1974). Mazzolari si nasconde ancora: questa volta dietro la maschera di un fedele, autore di quindici missive che affrontano vari temi riguardanti la vita parrocchiale: si comincia con la richiesta della franchezza e dell’apertura del cuore, si finisce con il momento del distacco, passando attraverso la richiesta di una liturgia più sobria e sentita, la ricerca della collaborazione dei laici, la critica della mistica papale («ritroviamo il tono semplice, filiale, non servile: il tono di chi sente che non tutta la sollecitudine della Chiesa deve gravare su due spalle, ma deve essere presa e portata anche da ognuno dei credenti»), il rapporto con i poveri, persino la discussione sul significato dell’attività sportiva.

Ulteriore testo mazzolariano è quello del 1957 intitolato proprio La parrocchia. In esso, rispetto alla Lettera, vi sono alcune sostanziali differenze, dovute al diverso clima sociale ed economico. In pieno boom, Mazzolari apre così il suo testo:

«La parrocchia a servizio dei poveri.
Una parrocchia senza poveri cos’è mai?
Una casa senza bambini, forse anche più triste.
Purtroppo ci siamo così abituati a case senza bambini e a chiese senza poveri, che abbiamo l’impressione di starci bene» (La parrocchia, p. 7).

Quello che Mazzolari stesso definisce «piccolo sfogo del cuore per farlo mansueto e ragionevole in un argomento poco mansueto e per niente ragionevole» è l’ouverture di un piccolo trattato sulla «crisi» (si usa questo termine) della parrocchia stessa, che mette in guardia rispetto all’uso dei «mezzi pesanti», al pragmatismo, all’efficientismo, alla «febbre costruttiva».

«Chi dice che il nostro armamento è vecchio, sbaglia. Siamo armatissimi e organizzatissimi. Statistiche alla mano come gli altri; circolari e fogli d’ordine come gli altri; cinema, teatro e televisione come gli altri; giornali o carta stampata come gli altri; decorazioni, avanzamenti e promozioni come gli altri» (p. 19)

«Nelle mani di un don Bosco come di un Filippo Neri, l’oratorio è una casa con papà e mamma, mentre molte nostre opere sono meravigliose case senza l’uno e l’altra: case di orfani» (p. 26).

«Talvolta, osservando la febbre costruttiva che sta occupando un po’ tutti i parroci – qualcuno l’ha chiamata “il male della pietra” – mi viene il dubbio se essa non sia, per caso, un surrogato di un’insufficienza spirituale. Un’altra volta il “di fuori” prima del “di dentro”, il “sabato” prima dell’“uomo”. La tentazione mira non soltanto a capovolgere i valori, ma anche a dare una falsa fiducia che viene ben presto scontata da grossi avvilimenti. Quando ci si accorge che abbiamo ammucchiato delle pietre e che le pietre, da sole, non rendono gloria a Dio, prende lo scoramento» (pp. 38-39).

Annotazioni analoghe contestano l’«epidemia» di convegni, settimane, raduni… il pericolo è quello della riduzione del cristianesimo allo strato superficiale, rispetto al quale l’autore riporta episodi e insegnamenti evangelici che invitano alla sobrietà e alla profondità. Ma cosa significa servire i poveri? Mazzolari risponde: «La parrocchia a servizio dei poveri, vuol dire semplicemente amare di più chi ha bisogno di essere amato di più, e non lasciar fuori questi o quelli dal nostro amore» (p. 12). Nella parte finale del piccolo trattato vi è un capitolo che descrive il modo in cui il parroco di Bozzolo viveva la messa domenicale; uno dedicato al sacerdote in quanto tale (con annessa esortazione alla valorizzazione del laicato); e, in chiusura, una proposta per rispondere alla crisi:

«Si propone di costruire il presbiterio, non il convento, non quindi una disciplina e spiritualità conventuale, ma una libera comunità con una disciplina e una spiritualità che sorreggano e fecondino un apostolato lanciato alla riconquista delle masse.

Nella nuova fucina apostolica, la povertà sacerdotale tornerà a risplendere, consumando nell’offerta e nella devozione, le meschinità e le vanità che corrodono le nostre forze prima di essere portate in linea» (pp. 69-70)

Giorgio Campanini è uno dei pochi studiosi che si sono dedicati a questi scritti di Mazzolari. In una relazione presentata nel 1997 si sofferma in modo speciale sulla Lettera, giungendo ad una conclusione particolarmente interessante e degna di essere posta in rilievo. Secondo lui negli anni trenta, nel mezzo della polemica seguita alla pubblicazione de La più bella avventura, Mazzolari avrebbe inteso parlare, più che della parrocchia, della riforma della Chiesa. Campanini non ha difficoltà nel dimostrare che le frasi nelle quali si parla della parrocchia come capace di sostituirsi alla società civile, o di possedere il senso dell’eterno, «non possono che riferirsi alla Chiesa». Per cui la Lettera sulla parrocchia sarebbe in realtà una “Lettera sulla Chiesa”: non un trattato di teologia pastorale, ma di ecclesiologia, espresso usando l’unico linguaggio che la Chiesa dell’epoca poteva sopportare: quello cifrato.

Mi permetto però di dissentire, almeno parzialmente, da questa impostazione. Non perché non sia altamente verosimile che Mazzolari intendesse proporre anche un’ecclesiologia: ma non mi sembra corretto, con questo, considerare la parrocchia un semplice schermo destinato a nascondere un messaggio diverso. Egli parla anche della parrocchia, quasi sempre della parrocchia: ciò è dimostrato sia dagli altri tre scritti in merito (che Campanini ignora o confina nelle note a piè di pagina), ma anche dai numerosi riferimenti minuti all’attività parrocchiale che non avrebbero avuto senso, se si fosse voluto semplicemente alludere ad una dimensione universale.

Un profeta sorpassato?

Non sono certo io il primo a dire che il pensiero di Mazzolari, il quale scomparve prima dell’apertura del Concilio Vaticano II (avendo però il tempo di sentirsi definire «tromba dello Spirito Santo» da Giovanni XXIII), ha segnato profondamente la vita pastorale italiana del secondo dopoguerra. Ciò è talmente vero che mi chiedo quale cristiano italiano oggi, leggendo la vicenda mazzolariana, potrebbe trovarsi solidale con le posizioni dei suoi detrattori. Ci troviamo spesso a giustificare il comportamento e le posizioni di questo o quel personaggio, anche ecclesiastico, affermando che era “uomo del suo tempo”: non possiamo allora che riconoscere che Mazzolari non era uomo del suo tempo, ed era invece dotato di uno spirito profetico capace con la parola e con l’esempio di guardare oltre. Mi sia concessa una sola citazione, parzialmente extravagante rispetto all’oggetto di questa relazione, tratta dalla lettera inviata il 16 ottobre 1941 (sì, quarantuno) al suo vescovo, mons. Giovanni Cazzani:

«Domani, quando i preti del mio vicariato mi domanderanno cosa fu detto e deciso nella nostra riunione annuale, mi sentirò venir meno il cuore nel ripetere le cose che mi avete incaricato di riferire.

Perdonatemi, eccellenza, se continuo la penosa confessione.

Da qualche tempo il ministero mi porta a contatto con gente d’ogni condizione e ovunque ho trovato un animo più pronto e un più sofferente cuore che nella mia diocesi, ove il nostro clero (sotto tanti aspetti meraviglioso) sta addormentandosi perdendo slancio e vigoria. I giovani specialmente, che insieme a molti chierici arretrano su posizioni così anguste e partigiane da farmi chiedere se ancora vive in noi la passione della cattolicità.

Proprio ieri nel pomeriggio ho letto un documento giurato, che a giorni perverrà nelle mani del Papa, ove un alto ufficiale italiano racconta atrocità contro i serbi per istigazione di frati, sacerdoti e cattolici croati.

Di tale spirito partigiano qualche saggio lo si è potuto rilevare in parecchi articoli di prima pagina de La vita cattolica [settimanale diocesano di Cremona] dell’attuale direttore milanese, in uno dei quali si contavano allegramente i morti russi.

Certe sopravvivenze partigiane, certe difese… bisogna cercarle nei conventi, nelle canoniche, nei seminari (anche nel nostro seminario dove si vocifera che l’on. Farinacci per interposta persona riesca a farvi giungere la sua influenza) e nelle associazioni di Azione Cattolica femminile, le cui dirigenti, con benestare largamente dato, si trapiantano come gerarche nelle organizzazioni del regime. Proprio adesso che si avvicina il “redde rationem”…

Presto pagheremo anche queste audacie a rovescio; poiché, comunque si concluda il fatto militare, la rivoluzione è già in marcia e a noi sacerdoti – se continueremo con questa andatura – non rimarrà neanche la scelta tra l’impiccagione o il plotone d’esecuzione» (Lettere a vescovi, pp. 33-35).

Se mi fermassi a questo livello celebrativo, però, perderei di vista l’obiettivo: vedere in che modo le provocazioni mazzolariane interrogano il nostro presente. Ma a questo punto insorgono i dubbi. Perché il mondo della pieve sull’argine – è banale, ma va detto – non esiste più; non esiste più dal punto di vista sociale, economico, culturale ed anche ecclesiale. Volendomi fermare a quest’ultimo aspetto, i decenni che stanno tra la morte di Mazzolari e la nostra epoca non hanno solo dimostrato quanto Mazzolari avesse, in molti settori, ragione (e tanti gerarchicamente superiori a lui avessero torto), ma hanno anche causato una certa obsolescenza dei suoi scritti in materia. È infatti evidente che il parroco-padre, figura centrale della vita parrocchiale, non esiste quasi più nel contesto attuale, e verrà a mancare del tutto tra dieci o quindici anni. E cosa è allora della parrocchia, cosa sarà della parrocchia?

Fine del sacerdote, fine della parrocchia?

Il Concilio, quarant’anni fa, conosceva una Chiesa a trazione clericale: il clero era numeroso, capace di pervadere in modo capillare ambienti e territori, in grado di esprimere una propria cultura che reggeva il confronto con quella “secolare”. Ora invece la Chiesa occidentale sta modificando proprio la propria organizzazione di base, sguarnita dal crollo numerico delle vocazioni al ministero consacrato. Esiste certamente un problema “qualitativo”, così descritto, con crudo realismo, da Michele Nicoletti:

«Oggi preoccupa non tanto il mancato riconoscimento da parte della società, non tanto le poche vocazioni, ma il fatto stesso che la chiesa non sappia che cosa fare del prete e lo lasci così in balìa di se stesso: gli anziani a guardare il mondo che cambia, quelli di mezza età con la rabbia di chi si era arruolato per una causa di liberazione e si trova a fare l’assistente sociale dei rifiuti del capitalismo o il terapeuta delle fisime dei capitalisti, quelli più giovani soffocati dagli uffici di dispensatori di servizi religiosi, portandosi dentro un mondo interiore che alle inquietudini messianiche ha da un bel pezzo sostituito la ricerca tormentata del proprio sé, della propria identità, sessuale, affettiva, sociale».

Al problema qualitativo si affianca però un evidente problema quantitativo, per ora percepito soprattutto come un invecchiamento del clero, ma che non tarderà a manifestarsi in tutta la sua evidenza, costringendo le comunità cristiane a confrontarsi con la mancanza di coloro che – stando alle norme – dovrebbero garantire il servizio liturgico e pastorale, numericamente insufficienti per compiere con dignità la loro missione. La Chiesa che conosciamo – dando per scontato che non si avranno, a breve scadenza, mutamenti sostanziali nei “meccanismi di reclutamento” – è dunque alla vigilia di una “declericalizzazione violenta”. Credo si tratti di un passaggio al quale non siamo preparati, foriero più di conflitti che di discussioni, capace di innescare più scismi che dialettica. E cosa accadrà alla parrocchia? Il modello inaugurato quindici secoli fa, in seguito alla grande diffusione del cristianesimo anche nelle campagne, sta già mostrando i suoi limiti per la sempre minore rilevanza dei legami territoriali per la vita di fede; ma con la scomparsa del prete, di colui che nella sua persona dovrebbe rappresentare il centro della comunità cristiana, segno e strumento della presenza di Cristo, cosa potrebbe succedere?

Si possono immaginare due situazioni. L’una, quella di un cristianesimo vissuto in modo tendenzialmente individualista, nel quale il fedele (quello che è in grado di farlo) “rincorre” ogni domenica il sacerdote nel luogo in cui viene celebrata legittimamente l’eucarestia; il celebrante viene così considerato presenza sacra, imprescindibilmente mediatrice rispetto alla divinità, e garanzia di unità con la Chiesa universale. È quello che spesso viene definito modello “tridentino”. Al lettore dei suoi scritti, don Primo Mazzolari appare schierato decisamente su questo fronte (Saverio Xeres parla perfino, a questo riguardo, di «inadeguato fondamento ecclesiologico»). Ne Il mio parroco, il sacerdote è esplicitamente definito «altro Cristo»; nella lettera intitolata “Ricordanze” della raccolta Lettere al mio parroco, si contesta l’idea di festeggiamenti “profani” per un venticinquesimo di sacerdozio con queste parole:

«Certi ricordi non si possono condire con campane, musiche, battimani, banchetti. Ogni sventagliare di vanità, ancorché innocua, profana e disturba il colloquio misterioso di una povera creatura che fu posta a fare da ponte tra le sponde di due mondi, troppo in basso per quella dell’eterno, troppo in alto per quella del tempo» (p. 130)

L’altra situazione è quella delle comunità che – intendendo il ministero consacrato in funzione di esse – a poco a poco imparano a fare a meno del ministro consacrato, dando vita a gruppi autocefali che tendono alla deriva reciproca. Nel contrasto tra questi due cristianesimi, portatori di ecclesiologie radicalmente diverse, potrebbe emergere (forse prima di quanto pensiamo) quello scisma sommerso di cui spesso si parla. Non è, per quanto mi riguarda, una prospettiva auspicabile, e chi può fare qualcosa per porvi rimedio e non lo fa, e sceglie invece di puntare sui preti ultraottantenni, o sulla “tratta” che riempie conventi e canoniche di fratelli del Sud che vengono a svolgere l’ennesimo lavoro che rifiutiamo, dimostra una certa miopia.

Di fatto (e anche in linea di principio) si è alla ricerca di una via intermedia tra i due estremi, soprattutto affidando ai laici “ministeri” sempre più ampi nella liturgia e nella pastorale (catechesi, matrimoni, battesimi, liturgie della parola, funerali…) lasciando al “prete volante”, che fa la sua comparsa in qualche orario domenicale, solo eucarestia e confessione. Una soluzione apparentemente “democratica”, relativamente facile da praticare, almeno per il momento. Il rischio è però che i laici si trovino a ricoprire responsabilità sempre più ampie senza un’adeguata preparazione (culturale e spirituale) e senza alcun riconoscimento della propria opera, e che i (pochi) ministri consacrati rimanenti perdano sia il contatto con le comunità, sia la coscienza del proprio ruolo in quanto persone, non in quanto operatori liturgici. Questo, in merito, il giudizio di Alberto Melloni:

«Mentre crescono per numero e per importanza queste figure indefinite, il prete ordinato rimane prigioniero di incombenze apparentemente più alte, ma in realtà più burocratiche: gestore di un team pastorale, assistente sociale, formatore, ripetitore dei Romana locuta, funzionario… In nessuno di questi “mestieri” la cura animarum, sulla quale il [concilio] tridentino aveva costruito la riforma e l’identità del chierico, trova adeguato spazio – e chi ne porta il peso, al fondo, è lo stesso clero, che paga pigrizie intellettuali e iperattivismi socio-pastorali».

Norme per il sacerdozio universale

In questo quadro, dove sta Mazzolari? Davvero è ancorato irrimediabilmente ad un passato che non esiste più? Deve essere considerato, da questo particolare punto di vista, come colui che visse in un tempo troppo diverso dal nostro, o anzi come il difensore di una linea che (almeno a chi scrive) appare di corto respiro? O dal suo magistero si possono ancora trarre fecondi stimoli per il futuro?

Vi offro, a questo proposito, la mia interpretazione, senza pretendere che sia considerata corretta o condivisibile da tutti. A mio parere il perno sul quale si incardina una lettura attualizzante degli scritti di Mazzolari sulla parrocchia e sul parroco è Lumen Gentium 10: la trattazione sul sacerdozio comune dei fedeli.

«Cristo Signore, pontefice assunto di mezzo agli uomini, fece del nuovo popolo “un regno e sacerdoti per il Dio e padre suo”. Infatti per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui, che dalle tenebre li chiamò all’ammirabile sua luce».

Siamo cresciuti pensando che parlare di “sacerdozio universale” fosse importante sì, ma un po’ generico: affermare l’universalità di una condizione non è come non affermarla, ma certamente rischia di farne sbiadire la portata. In un mondo nel quale le culture e le religioni si intrecciano e si mescolano (non sto parlando solo della società multietnica, ma anche delle tantissime varianti in cui si declina una appartenenza culturale dichiarata), un mondo inevitabilmente lontano dalla “pieve sull’argine”, la parola “universale” può cominciare ad interagire con il suo corrispondente greco: “cattolico”. E allora è al cristiano aperto all’universo, che intende vivere nella quotidianità e nella concretezza la sequela di Cristo, che potranno essere trasferiti almeno alcuni dei caratteri che Mazzolari attribuiva al ministro ordinato secondo il grado dell’ordine presbiterale.

Saverio Xeres si serve di immagini bibliche per tracciare le coordinate teologiche di riferimento del prete mazzolariano: il padre che attende il ritorno del Prodigo, il Samaritano aperto all’incontro, l’accompagnatore discreto sulla strada verso Emmaus. Riconosce quindi il «disegno essenziale» del parroco di Cicognara e Bozzolo nella «ministerialità, ovvero in un servizio reso a Cristo Servo di ogni uomo». Tra gli aspetti particolari di tale servizio, Xeres cita il servizio alla Parola, il culto della vita umana come luogo di incontro con Dio, la missione senza confini, l’attenzione alla concretezza del tempo presente. Tutti aspetti – mi permetto di dire – che solo un’ottica ancora, magari inconsciamente, “tridentina” può pensare di considerare circoscritti alle competenze del ministero ordinato. Provo allora ad annotare, facendomi aiutare dai testi di don Primo, alcuni dei caratteri di questo cristiano che, riscoprendosi sacerdote consacrato nel battesimo, tenta faticosamente la sequela di Cristo.

Il cristiano deve mettersi in ascolto del Vangelo.

«Forse quando ho incominciato a scrivere non volevo arrivare fin qui. Ma col Vangelo in mano si sa dove s’incomincia e non si sa dove si finisce. Il Vangelo è novità e sorpresa. La strada continua per chi ha osato aprire il libro, e dire: “Ti seguiremo ovunque andrai”» (La parrocchia, p. 72).

Il cristiano deve vivere l’amore gratuito verso tutti.

«La malattia di voler bene ai clienti ce l’ha attaccata Cristo: è la passione sacerdotale, il segno della divina fecondità. Ma prima di credergli, gli uomini, che pure non desiderano di meglio che di essere amati per amore, cioè senza interesse, lo mettono alla prova: perché se veramente c’è questo sentimento nell’animo del prete, allora anche quello che il prete insegna può essere vero» (Il mio parroco, p. 21).

Il cristiano deve essere aperto a ciò che sta al di fuori della piccola cerchia di chi la pensa allo stesso modo.

«Occorre salvare la parrocchia dalla cinta che i piccoli fedeli le alzano allegramente intorno e che molti parroci, scambiandola per un argine, accettano riconoscenti» (Lettera sulla parrocchia, p. 42).

Il cristiano deve avere una attenzione preferenziale per i poveri.

«In quella pagina del Vangelo c’è dentro tutto: la povertà, la gente che ha fame, che ha sete, che è ignuda, che è senza casa, che è prigioniera…

Perché? Importa tanto sapere il perché?

Ora io so quanto è necessario: cioè che se non mi adopero per dare da mangiare, per dare da bere, per accogliere, per vestire, per visitare…, ne sia o no personalmente responsabile, non avrò la vita eterna» (Lettere al mio parroco, pp. 125-126).

«Qualcuno dice: “Dà ragione ai poveri per gusto di popolarità”. Già, come se il popolo ci credesse! Bel gusto perdere gli uni e gli altri! Ma non deve essere perduto il gusto del Vangelo, di una parola divina che fruga ogni anima e non lascia in pace nessuno, né quelli che voltano le spalle alla chiesa, né quelli che vi occupano i “primi posti”, e che spesso, con la loro presenza, tengono lontani gli “ultimi”. I ricchi ci possono stare, ci devono stare in chiesa, ai primi posti se volete, purché paghino questo onore confrontandosi col Crocifisso e sul Vangelo che il parroco deve discoprire senza pietà o falsi riguardi!» (La parrocchia, pp. 46-47).

Il cristiano deve vivere nella radicalità, contro le pretese di fare affidamento sulle sole forze umane, intellettuali o materiali, e contro le logiche funzionariali nelle quali la “religione civile” vorrebbe rinchiudere il messaggio cristiano.

«E allora noi le domandiamo: “sentinella, a che punto è la notte?”

Per rispondere come deve rispondere chi vigila alle frontiere del Regno di Dio e come le anime richiedono, non è necessario ch’egli sia uno scienziato, uno storico, un politico. Starebbe come Davide nell’armatura di Saul: direbbe cioè parecchie corbellerie come ne dicono alcuni suoi colti colleghi. Ci basta ch’ella spalanchi gli occhi dell’anima, quelli che la fede illumina e dove conclude ogni cosa saldandosi o meno con l’unica realtà» (Lettere al mio parroco, p. 23).

«Ogni organizzazione che pospone o dimentica la via evangelica e pone l’apostolo in tentazione di confidare nell’uomo e nelle cose fabbricate dalle mani dell’uomo, costruisce piuttosto per il tempo che per l’eternità, per un segno che è dell’uomo o del tempo, anche se le insegne solo di un Altro» (La parrocchia, pp. 25-26).

Il cristiano deve respingere il rimpianto del passato ed essere aperto verso il futuro.

«Ci fu davvero l’età dell’oro della religione? È a portata della nostra memoria, o bisogna cercarla lontano, nella storia? Che nel rimpianto non ci sia il segno di quell’inclinazione naturale che ci fa dimentichi dei mali passati, esacerbati come siamo dei presenti, oppure un ripiegamento quasi senile di fronte alle nuove difficoltà, le quali non si superano piagnucolando sopra privilegi scaduti o abitudini soppiantate? …

L’età dell’oro è davanti, nell’avvenire. La storia archivia le proteste inutili, perché anch’essa come la vita è in funzione di presente e di futuro. Un prestigio perduto non è una prova, ma una difficoltà, che non conviene esagerare con larghi rimpianti. Ma io vorrei sapere da lei, signor parroco, se nella Chiesa c’è davvero un passato che meriti così vasto e indefesso rimpianto. Mi si viene dicendo, con monotonia inquietante, che una volta la religione era più viva di oggi, che una volta i costumi… e giù un singhiozzo e un anatema. Quando? Mi si fissi l’epoca, perché il passato è il tempo di nessuno, e ognuno vi può collocare indisturbato l’età dell’oro, roba di nessuna età, la quale deve essere segnata soltanto nel catasto della fantasia, come le fiabe che cominciano tutte con… c’era una volta» (Lettere al mio parroco, pp. 105-107).

Il cristiano deve riconoscere il proprio limite.

«Ogni prete ha lo strazio di dovere quasi sempre predicare delle parole che sono più in alto, se non proprio in aperto contrasto, con la sua vita. Ogni volta che noi predichiamo il Vangelo, condanniamo noi stessi» (Il mio parroco, p. 17).

Il cristiano deve avere il coraggio di esprimersi con franchezza e di vivere nella libertà.

«In troppe parrocchie si ha paura dell’intelligenza, la quale vede con occhi propri, pensa con la propria testa, e parla il suo linguaggio. I parrocchiani che dicono sempre di sì, che sono sempre disposti ad applaudire, a festeggiare e a… mormorare, non sono, a lungo andare, né simpatici, né utili, né obbedienti» (La parrocchia, p. 68).

L’insistere di Mazzolari sulla imprescindibilità della parrocchia, più che una teoria riguardante l’organizzazione pastorale, è allora un corollario dell’incarnazione: vivere la parrocchia significa accettare che la fede divenga carne, che si traduca sul piano dei rapporti umani, rifiutando la possibilità che un impegno ecclesiale possa portare al distacco dalla vita reale.

«Le strade cristiane nel mondo si tracciano camminando con integrità di fede, con passione d’apostolo, con audacia di carità, con disciplina di figliuoli. E – non illudiamoci – sono strade di dolore prima che strade di conquista e di gloria. Se qualcuno, per scusare la propria accidia spirituale o per non esporre la propria anima al pericolo di perdersi, pretende veder chiaro e sicuro, pronto a gridare al fallimento del tentativo per ogni passo sbagliato o per ogni esperienza che va ripresa, non si metta neppure in strada. Il calvario ha le sue cadute e le sue ignominie e chi non sa compatirle non può neppure fare da cireneo a Gesù, che muore ogni giorno nel nostro mondo disumanizzato» (Lettera sulla parrocchia, pp. 37-38).

Mi rendo conto, con questo, di aver parzialmente tradito la lettera del testo di Mazzolari, il quale non mancava di sottolineare che «per essere nella Chiesa, il laico non ha bisogno di farsi chierico» (La parrocchia, p. 65). Ma non rinuncio a pensare che possa essere rivolto a tutti i cristiani l’appello che chiude l’ultima delle Lettere al mio parroco:

«non li ha incaricati di imporsi alla terra, ma di aprire in qualche cuore le speranze del Regno, di dare una consolazione a chi piange, una gioia a chi muore, una certezza a chi attende: non per essere esercito, ma sale della terra e luce del mondo: non per camminare a passo di marcia, ma per sentirsi uniti nella carità» (Lettere al mio parroco, p. 142).

Relazione presentata nell’ambito di un ciclo di incontri dedicati alla figura di don Primo Mazzolari: Fossò (Venezia), 11 febbraio 2005, e pubblicata su Il Margine, n. 3(2005).


Nota bibliografica (per la quale ringrazio Paolo Marangon). Ho utilizzato i seguenti testi: P. Mazzolari, Lettere al mio parroco, La Locusta, Vicenza 1974; P. Mazzolari, Lettera sulla parrocchia, EDB, Bologna 19793; P. Mazzolari, Il mio parroco, EDB, Bologna 19802; P. Mazzolari, La parrocchia, La Locusta, Vicenza 19602; P. Mazzolari, Lettere a vescovi, La Locusta, Vicenza 19842 (i numeri di pagina si riferiscono a queste edizioni). Per le note biografiche: C. Bellò, Primo Mazzolari. Biografia e documenti, Queriniana, Brescia 1978. L’articolo di G. Campanini è Dal rinnovamento della parrocchia alla nuova immagine di Chiesa, in Mazzolari. Nella storia della Chiesa e nella società italiana del Novecento, a cura di A. Chiodi, Paoline, Milano 2003, pp. 133-147. Il testo di S. Xeres è Il prete e la sua missione nella visione di don Mazzolari, in Mazzolari e la spiritualità del prete diocesano, a cura di M. Guasco e S. Rasello, Morcelliana, Brescia 2004, pp. 63-110. Il quadro riguardante la situazione della pastorale è una sintesi di quanto ho scritto in Al servizio della salvezza. Preti, laici, futuro della liturgia e della pastorale, in “Il Margine”, 1998, n. 5. La citazione di Michele Nicoletti è tratta da Ridateci san Tarcisio, in “Il Margine”, 1999, n. 10; quella di Alberto Melloni da Chiesa madre, chiesa matrigna, Einaudi, Torino 2004, p. 78.

 

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