Meloni, Renan, la nazione

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In questi giorni ha avuto una certa risonanza mediatica una polemica innescata da una nota della Presidenza del Consiglio, in cui si virgolettava una citazione tratta da un’opera di Ernest Renan (1823-1892). L’autore è noto soprattutto per la pubblicazione di una Vie de Jésus (1863), che suscitò all’epoca enorme scandalo. Un ex seminarista, educato nella prestigiosa scuola cattolica di Saint-Sulpice, applicando il metodo storico-critico ai quattro vangeli, procedeva a una radicale desacralizzazione del racconto della vita di Gesù.

Ma la discussione è nata dal riferimento a un’altra sua opera. Conviene in primo luogo fare una breve cronaca della vicenda, per coglierne poi alcune implicazioni – che sembrano tutt’altro che secondarie – rimaste in ombra in questo dibattito.

Disputa su Renan

Il 17 marzo, in occasione del 162° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, Giorgia Meloni celebrava l’evento con un comunicato apparso sul sito ufficiale della Presidenza del Consiglio. Ha dapprima ricordato – con un’evidente apertura verso famiglie politiche non rappresentate nel governo – le ragioni dell’unificazione nazionale attraverso le parole del mazziniano Goffredo Mameli.

Poi ha asserito che occorreva ritrovare le ragioni del «nostro stare insieme». A questo proposito ha citato un passo ricavato da Que-ce qu’est une nation – una conferenza pubblicata nel 1882 da Renan – in cui si argomentava la tesi secondo cui «la nazione è un plebiscito di tutti i giorni». La nota terminava con l’osservazione che, sulla base della disponibilità al sacrificio su cui si fonda questo quotidiano consenso all’appartenenza nazionale, «nessuna meta è preclusa all’Italia».

L’intervento ha subito suscitato l’attenzione del segretario di Sinistra Italiana, l’on. Nicola Fratoianni, che ha stigmatizzato la citazione da Renan come lo scandaloso ricorso della Presidente del Consiglio a un «teorico della razza ariana». Il giorno dopo il politologo Alessandro Campi ha avuto buon gioco nel ricordare al disinvolto deputato quel che è scritto in ogni manuale di Storia delle dottrine politiche.

È infatti ben noto che lo studioso francese ha elaborato una visione volontaristica della nazione proprio in contrapposizione ad una sua concezione su base biologico-naturalistica. Renan sostiene, infatti, che la nazione non si fonda su vincoli razziali, etnici, culturali, geografici, religiosi, ma sulla libera manifestazione quotidiana di un consenso politico.

 Il 19 marzo Corrado Augias pubblicava su La Repubblica un articolo intitolato «Giù le mani da Ernest Renan». Ribadiva lo stravolgimento del pensiero dello studioso francese compiuto da Fratoianni; ma, al contempo, rimproverava a Meloni di averne «quasi fatto l’alfiere del nazionalismo». Ne individuava le ragioni nella semplificazione di un itinerario intellettuale assai complesso e mutevole. La considerazione non è priva di fondamento.

Lo aveva già rilevato uno studioso del calibro di Zeev Sternhell. Basta qui ricordare il contesto – troppo spesso ignorato – in cui nasce il volumetto del 1882. Renan – che in precedenza non aveva certo manifestato propensioni alla liberal-democrazia – propone quella visione della nazione nel quadro del revanscismo francese nato dalla sconfitta nella guerra franco-prussiana del 1870. La concezione volontaristica della nazione mira a fornire la base teorica per la riacquisizione dell’Alsazia e della Lorena alla Francia.

Il 20 marzo, la Presidente del Consiglio ha replicato all’articolo di Augias con una lettera al direttore di La Repubblica. Oltre a ricordare che in passato lo aveva molte volte citato senza sollevare obiezioni, ha proclamato che non ha affatto intenzione di «mettere giù le mani da Renan». Non solo perché rivendica il diritto di rifarsi a autori di cui condivide il pensiero, ma soprattutto perché la cultura appartiene a tutti.

A suo giudizio, infatti, la cultura deve essere utilizzata senza quelle appropriazioni a scopi politici, che derivano dall’applicazione alle sue acquisizioni delle categorie di “amico” e “nemico”. Ne ha fornito come prova un dato: a Renan hanno fatto riferimento personalità di orientamenti assai diversi come Antonio Gramsci e Giovanni Spadolini. Non si possono che condividere, come del resto ha osservato nella sua replica anche Augias, le precisazioni della Presidente del Consiglio.

Tuttavia, occorre aggiungere qualche ulteriore considerazione. Si deve anche ricordare la larghissima utilizzazione che di Renan ha fatto Benito Mussolini. Non solo perché l’iniziale anticlericalismo del Duce ha forti radici nella Vie de Jésus; ma, soprattutto, perché nella voce «Fascismo» dell’Enciclopedia italiana, da lui firmata, anche se sulla base di un testo redatto da Giovanni Gentile, si afferma, proprio con ampi rinvii a Renan, che questi ha il merito di aver diffuso «illuminazioni pre-fasciste».

Ma questo aspetto è in fondo marginale. Riguarda quell’assenza di un’effettiva volontà di fare davvero i conti con il Ventennio che caratterizza la storia politico-culturale – e certo non solo a destra – del paese. Assai rilevante, invece, è un altro aspetto già accennato da Augias.

Nel comunicato della Presidenza del Consiglio, la citazione di Renan non è corretta. Costituisce infatti un pastiche. Si tratta di un passo che riprende parole e sintagmi presenti in una pagina del volumetto, ma li riorganizza in un ordine che non è quello dato dallo studioso francese per esprimere il suo pensiero (si confronti la frase del comunicato della Presidenza del Consiglio con le pp. 37-38 dell’edizione princeps Paris, Lévy, 1882).

Citazione e interpolazione

Si pone così un primo problema. Meloni ha tutte le ragioni di proclamare che la cultura è di tutti e non può essere oggetto di appropriazione di parti politiche. Ma la cultura può esercitare questo universale ruolo sociale se viene proposta per quello che è. La correttezza filologica di una citazione è la base ineludibile di ogni autentica operazione intellettuale. Come si può rivendicare che si vuole proporre quel che di meglio ha prodotto l’umanità, quando, attraverso un’interpolazione, si muta il testo cui si attinge?

Si potrebbe ovviamente rilevare che la responsabilità risiede nella sciatteria di collaboratori cui si rivolge una Presidente del Consiglio arrivata al potere senza poter formare un’adeguata classe dirigente. Ma la questione non investe soltanto l’abitudine al rigore critico del discorso. Presenta un ulteriore risvolto, forse più rilevante: l’interpolazione del brano di Renan non è innocente.

Risponde infatti a una logica precisa: vuole sottolineare il nesso tra nazione e sacrificio. Non che il tema sia assente nel passo dello studioso francese, ma nella sua visione volontaristica della nazione sacrificarsi per la patria è solo una componente di un “plebiscito” che ha diverse altre motivazioni. La riformulazione del passo citato nel comunicato della Presidenza del Consiglio appare funzionale a identificare quel plebiscito soltanto con «i sacrifici compiuti e di quelli che ancora siamo disposti a compiere».

L’ideologia sottesa a questa prospettiva è ben svelata dall’enciclica Sapientiae christianae con cui, nel 1890, Leone XIII mutava la posizione cattolica attorno alla costruzione degli Stati nazionali. Rivedendo le chiusure del predecessore, il papa vi osservava che la dottrina cattolica sosteneva l’amore per la patria, al punto da proclamare la liceità di sacrificarsi per essa fino a dare la propria vita.

Ma, al contempo, osservava che la nazione rientrava in quella sfera naturale che resta pur sempre sottoposta ai valori soprannaturali di cui la Chiesa custodisce il deposito. Oggi potremmo tradurre questa prospettiva con altre parole: la misura del sacrificio non è il bene della patria (individuato dai suoi governanti), ma la traduzione dei valori evangelici nella vita nazionale.

Il comunicato della Presidenza del Consiglio riformula il brano di Renan per diffondere un messaggio che viene così sintetizzato: la disponibilità al sacrificio degli italiani fa sì che «nessuna meta è preclusa all’Italia». Non è difficile scorgervi la riproposizione dell’ideologia novecentesca che fa della nazione il supremo criterio ordinatore della vita collettiva.

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