Che non vincano i secondi fini

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Il “merito” della riforma della Costituzione è la Costituzione stessa. All’inizio pareva una banalità, ora è una pura e semplice necessità.

Stando alle voci della propaganda, al plurale, il referendum di novembre (ormai la data è quasi certa) si configura come uno straordinario appuntamento per l’esercizio del voto di scambio. Sia il fronte del “si” che quello del “no” vi partecipano con grande impegno anche se, probabilmente, non se ne rendono conto. Perché – ed è il peggio del caso – non sono in mala fede.

Di che si tratta? In qualche modo le due parti in contesa fanno intendere agli elettori che se voteranno in un certo modo determineranno una sorta di … aggiunta al responso delle urne. Che non produrrà alterazioni sul contenuto del quesito vittorioso, ma darà a molti l’impressione di aver ottenuto un vantaggio o un beneficio ulteriore o comunque l’appagamento di un’aspirazione o di un desiderio politico.

La sfilata dei “fini secondi”

Ogni soggetto in causa espone motivazioni che vanno al di là del quesito specifico sulla struttura delle istituzioni che si vogliono cambiare. Ed è così che si compie la rivincita dei secondi fini sullo scopo primario della consultazione.

Proviamo a dettagliare. Per i seguaci del dottor Gandolfini (fu lui a introdurre il tema; perché dimenticarlo?) il “no” sarebbe la giusta punizione per un governo (e per un presidente cattolico) colpevoli di aver patrocinato la legge sulle unioni civili. Per tutte le opposizioni l’obbiettivo di rovesciare il governo è enunciato all’unisono anche se con molte variazioni di tono. Né alla regola fanno eccezione le minoranze critiche della maggioranza, quelle che hanno approvato la riforma in Parlamento ma condizionano l’orientamento referendario dei loro presunti seguaci al cambio della legge elettorale; ed è qui che ci si inoltra nel vasto campo delle contropartite e dei voti di scambio.

Negli ultimi giorni, poi, le notizie sull’andamento niente affatto gradevole dell’economia hanno portato altre fascine al fuoco di una generale resa dei conti; il che oscura ogni ricerca sullo “specifico” della riforma e porta alla ribalta tutte le ragioni del malcontento che di norma si scaricano sull’esecutivo ad ogni occasione di voto.

Il ricorso ai “bonus” aggiuntivi

In queste condizioni pare davvero arduo il tentativo, che pure alcuni continuano a coltivare, di riportare l’attenzione sulle ragioni della riforma e sugli effettivi vantaggi per il sistema che si otterrebbero, per stare all’essenziale, con il superamento del bicameralismo perfetto o con la rettifica, stavolta a favore del centro, del rapporto tra Stato e regioni. E ciò sconvolge previsioni e pronostici e allarga il campo dell’incertezza.

Ultimamente poi, due notizie – una di fonte governativa e una d’opposizione – hanno marcato la spinta a collegare l’oggetto del contendere a questioni di diversa natura e importanza, la cui semplice enunciazione – si pensa – dovrebbe agevolare il convogliamento dei voti sull’uno o sull’altro polo referendario.

Se votate “no” – promette il fiduciario berlusconiano Stefano Parisi – avrete in aggiunta la convocazione di una vera Assemblea costituente che rifarà l’intera Carta a partire, si comprende, dalle parti più sgradevoli perché recano l’impronta della “sinistra”, cominciando dal primo articolo.

La suggestione suscita sorpresa e malumore nello stesso schieramento di provenienza, ma va segnalata perché esprime una posizione che va approfondita.

Fino ad oggi, infatti, c’era stato un consenso generale sulla scelta di lasciare intatta la prima parte della Carta, quella che enuncia principi e valori, riservando il cantiere delle modifiche ai soli articoli che riguardano la struttura dell’ordinamento. Vuol dire che una parte politica, quella che si proclama “moderata”, intende puntare a una revisione che non lasci intatti i fondamenti etico-culturali della Repubblica. Pare un punto da non ignorare.

Il linkage tra riforma e povertà

L’altra “aggiunta” al pacchetto referendario viene direttamente dal presidente del Consiglio e stabilisce un linkage significativo tra la riforma (intesa come riduzione dei costi della politica) e lotta alla povertà. Intento che rimane nobile anche se declinato in ordini di grandezza oggettivamente sproporzionati per difetto. La stima del risparmio a regime è infatti di cinquecento milioni e non si vede quale effetto potrebbe avere la traslazione di una tale somma dal capitolo spese istituzionali al capitolo sostegno agli indigenti. Difficile immaginare che un simile argomento possa determinare uno spostamento significativo di consensi, se non in quella cerchia di benpensanti che praticano la carità a buon mercato nel senso di “fare qualcosa” per chi sta peggio senza specificare il come e il quanto.

Sul tema, come è noto, esistono proposte e progetti che vanno considerati nella loro interezza, anche sul piano finanziario, e non assegnati all’ambito dell’utilizzo delle (eventuali) sopravvenienze attive.

Una pista da percorrere

Il fatto però che il governo abbia stabilito un collegamento diretto tra la riforma soggetta a referendum e un intervento sociale significativo va segnalato (al di là di ogni limite) come una pista da percorrere con un impegno che sin qui è mancato.

Si tratta cioè di rammentare che in un impianto costituzionale unitario, come è quello italiano, la struttura e la funzionalità dell’ordinamento sono al servizio dei principi e dei valori che la Carta proclama, cioè del suo orientamento sociale.

La posizione di chi sostiene l’utilità della riforma sarebbe ben altrimenti credibile se riuscisse a dimostrare che gli snellimenti previsti potrebbero consentire di superare almeno in parte gli ostacoli che sin qui hanno impedito la piena attuazione del dettato costituzionale. Meglio ancora se fosse in grado di distinguere ciò che deriva dalla sordità delle strutture da ciò che è da ascrivere alla responsabilità delle forze politiche.

Due spazi da esplorare

Due spazi per rendere l’idea: quello del diritto al lavoro (art. 4) e quello della eliminazione degli ostacoli di carattere economico e sociale che determinano condizioni di disuguaglianza (art. 3). E tanto meglio se a sostegno degli annunci della propaganda vengono precise indicazioni programmatiche, nel senso di progetti impegnativi, da assumere come autentiche priorità repubblicane.

A volte anche le ipotesi meno appropriate aiutano a indicare la strada giusta. Che è quella di riconciliare la seconda parte della Costituzione con la prima, fornendo agli elettori argomenti persuasivi con precise assunzioni di responsabilità. Vuol dire aiutare tutti a ritrovare nella visione unitaria della Carta – valori e istituzioni – le ragioni di un impegno popolare in grado di dare un’anima alle strutture riformate.

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