Francesco e l’islam

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A pochi giorni dal compimento dell’ottavo anno di pontificato di Jorge Mario Bergoglio e a poche ore dalla sua partenza dall’Iraq, arriva la notizia che l’Iraq ha invitato l’imam di al-Azhar, lo sceicco al-Tayyeb, a visitare il paese.

Co-firmatario del Documento sulla fratellanza umana con Francesco, dunque al-Tayyeb si recherà con gioia nel Paese dove risiede l’ayatollah al-Sistani, incontrato nella sua Najaf dal papa pochi giorni fa, proprio per parlare di fratellanza.

Francesco è riuscito, nel nome della fratellanza, a riavvicinare due delle massime autorità islamiche, espressioni di quei sunnismo e sciismo che vengono usati per giustificare la guerra civile islamica? Al-Tayyeb in Iraq vedrà al-Sistani? Se sarà, non sarà un caso.

Civiltà che non possiamo perdere

In questi otto anni di pontificato il tema “islam” ha ricoperto un ruolo molto importante, forse cruciale. Le stesse indicazioni chiave sulla sua idea di Chiesa spiegano perché: “Chiesa in uscita” e “ospedale da campo” sono espressioni a tutti note, e difficilmente un odierno ospedale da campo potrebbe essere indifferente a quanto accade in Libia, Egitto, Yemen, Siria, Iraq, Somalia, Afghanistan, per citare solo i più noti e devastati campi di battaglia.

Guardando all’insieme di quella che viene chiamata “la casa dell’islam” la storia sembra darci un solo termine di paragone, il XIII secolo, i tempi delle invasioni di mongoli. Davvero tre grandi civiltà, come l’ottomana, l’araba e la persiana hanno solo distruzione e campi profughi da offrire ai loro figli?

È innegabile il concorso esterno, l’aiuto lungo la discesa in questi odierni inferi di potenze neo e vetero-coloniali che hanno trasformato queste terre anche in campi neutri dove le grandi potenze combattono per i loro interessi energetici e strategici. Ma oltre alle sofferenze atroci e incalcolabili di generazioni condannate a non avere presente e probabilmente futuro, resta il problema di tre grandi civiltà da salvare, da recuperare al cammino dell’umanità.

Tutto questo a Francesco è stato chiaro fin dal 2013, quando in Evangelii Gaudium scrisse: “La città produce una sorta di permanente ambivalenza, perché, mentre offre ai suoi cittadini infinite possibilità, appaiono anche numerose difficoltà per il pieno sviluppo della vita di molti. Questa contraddizione provoca sofferenze laceranti. In molte parti del mondo, le città sono scenari di proteste di massa dove migliaia di abitanti reclamano libertà, partecipazione, giustizia e varie rivendicazioni che, se non vengono adeguatamente interpretate, non si potranno mettere a tacere con la forza”.

L’urbanizzazione fallita – dal Cairo a Teheran – è colta da Francesco come causa originante tante crisi in un mondo che ha fatto della ricchezza del suo sottosuolo la croce di chi lo vive. E le piazze così sono state capite già allora, all’inizio del pontificato, come un soggetto politico e culturale, il motore di una repressa volontà di riscatto di queste grandi civiltà.

Il cammino verso il ferito islam, deturpato da imperialismi che si avvalgono di ideologie religiose eretiche, come la teocrazia iraniana e il puritanesimo wahhabita alleato dei sauditi (in una sorta di scontro tra teocrazia e cesaropapismo) determinati a conquistare l’Islam, è partito dunque dalla comprensione della ferita interna tra le masse che invocano l’unicità di Dio che ci rende uguali, mentre le eresie perseguono la loro unicità nel nome di Dio.

In questa visione la fratellanza di Bergoglio è stata un medico delle piaghe altrui, piaghe contagiose. Il nichilismo islamico diffusosi in questi territori tra enormi acquitrini di abbandonati che non potevano più credere nell’Islam ufficiale, nella solidarietà araba, nella comunità internazionale, è divenuto la linfa vitale di visione apocalittiche, pronto a raccogliere qualsiasi bandiera, anche quella dell’Isis, pur di esprimere con l’amplificatore più potente a portata di mano la propria sete di violenza.

Questo nichilismo islamico ha prodotto come rigetto un’islamofobia occidentale che origina nella paura, ma giova ai cattivi maestri dell’odio nel mondo islamico che la usano per dimostrare che il problema in Europa non è l’integrazione, ma il pregiudizio verso l’islam e quindi bisogna combattere, perché l’odio è questione di fede, non d’altro.

Dal Cairo ad Abu Dhabi

Ma l’ospedale da campo non è un laboratorio, Francesco ci crede perché crede che l’uomo è un essere relazionale. E quindi è andato a incontrare questo mondo, ricucendo il rapporto con l’università islamica più importante, quella di al-Azhar, nel 2017. In quel centro, ridotto a un ufficio governativo che fabbrica fatwa e poco altro, ha voluto entrarci di persona e ha perfettamente compreso il dramma psicologico degli eredi di un grande passato luminoso vissuto come espressione di inaccettabile cupo declino:  “Fin dall’antichità, la civiltà sorta sulle rive del Nilo è stata sinonimo di civilizzazione: in Egitto si è levata alta la luce della conoscenza, facendo germogliare un patrimonio culturale inestimabile, fatto di saggezza e ingegno, di acquisizioni matematiche e astronomiche, di forme mirabili di architettura e di arte figurativa.

La ricerca del sapere e il valore dell’istruzione sono state scelte feconde di sviluppo intraprese dagli antichi abitanti di questa terra. Sono anche scelte necessarie per l’avvenire, scelte di pace e per la pace, perché non vi sarà pace senza un’educazione adeguata delle giovani generazioni. E non vi sarà un’educazione adeguata per i giovani di oggi se la formazione loro offerta non sarà ben rispondente alla natura dell’uomo, essere aperto e relazionale”.

È anche questo che gli ha consentito quel rapporto personale con l’imam di al-Azhar che in mesi di segreti incontri, conversazioni, di preghiera e di email ha reso possibile un documento che ha portato la Chiesa e al-Azhar non solo a raggiungere il Concilio Vaticano II, ma addirittura a procedere nel suo solco: “La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani.

Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano”.

Fratellanza

Per chiunque conosca la storia teologica islamica questo testo o sbalordisce o rallegra. Rallegra i credenti musulmani che sanno che nell’Islam delle origini non c’è stato islamico: la Costituzione di Medina, che si ritiene scritta da Maometto, era per tutti. Sbalordisce chi invece sa che da tempi immemori la teologia islamica si è strutturata sul concetto di “protezione”, riservata ai popoli del libro in cambio di una tassa e della perdita di alcuni diritti.

Così le società sono state divise in comunità chiuse, sempre più impenetrabili l’una all’altra. Se in un tempo lontano infatti questo sistema poteva essere preferibile a quello europeo dell’intolleranza verso gli ebrei e i musulmani, con il mutare della realtà europea e poi con la globalizzazione è divenuto intollerabile.

Il grande passo avanti di Abu Dhabi, la città dove questo documento è stato solennemente firmato, ha cominciato a riverberare il suo senso nelle piazze della rinnovata protesta araba, soprattutto a Baghdad e Beirut, dove si scontrano il settarismo identitario del vecchio sistema e il pensiero ibrido dei giovani, in protesta pacifica dal 2019.

Proprio come in Francesco, questa protesta ha saputo ricorrere addirittura all’ironia. A Bagdad, in piazza della Liberazione, sotto il fuoco dei cecchini delle milizie identitarie, un giovane seppe scrivere su un muro: “se ti sembra che tutto vada bene vuol dire che bevi troppo”. Era un invito a unirsi alla protesta per cambiare, non contro qualche comunità.

Francesco così ha capito che la piaga della Terra dell’Islam è diventata una piaga che ci riguarda tutti, che coinvolge l’intero complesso euro-asiatico. Il solo modo per prosciugare i serbatoi del nichilismo islamico, che fa da manodopera a basso costo ai diversi centri dell’Islam apocalittico, è la fratellanza e quindi la costruzione di stati sovrani nella sovranità di tutti i loro cittadini.

In visita a Najaf

Per riuscirci occorrere togliere il pretesto della divisione tra sunniti e sciiti, ricchezze diverse ma non incompatibili dell’islam. Per questo è andato fino a Najaf, per stabilire con il leader sciita che rifiuta la deriva teocratica quel nesso fraterno che poteva consentire un dialogo tra sunniti e sciiti, il reciproco riconoscimento come fratelli.  Un mediatore credente in una disputa tra altri credenti, perché no? O forse: chi altro?

È stato questo il senso del suo viaggio, il primo dopo lo stop della pandemia, in Iraq. Così ha offerto ai cristiani la possibilità di tornare essi stessi “mediatori”, o meglio, molto meglio, finestre arabe del mondo arabo, per uscire dalla paranoia della paranoia della protezione, prima imposta e poi richiesta davanti al terrorismo.

Questa chiusura danneggia loro, ma danneggia anche l’islam, isolato in sé stesso e nei suoi problemi che solo insieme agli altri potrà risolvere per tornare a brillare. Per spingere in questa direzione Francesco ha avuto la forza di esortare i cristiani a essere, anche lì, Chiesa in uscita, a non rinchiudersi nel silenzio delle proprie comunità.

Un’esortazione forte e che richiede forza e coraggio, perché senza coraggio non si cambia la realtà. Ma se sopravvivere è meglio di morire, sopravvivere non può bastare, bisogna osare. E questi otto anni di pontificato hanno osato così tanto che il cambiamento nella terra del dolore arabo sembra poter diventare possibile.

L’invito in Iraq dello sceicco sunnita al-Tayyeb è solo un barlume di luce, ma era impensabile. Ora c’è, è il frutto di otto anni spesi nel nome della fratellanza.

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Un commento

  1. Adelmo li Cauzi 13 marzo 2021

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