Francesco e il modello ottocentesco da superare

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Un gentile lettore, il prof. Sergio Meligrana, mi ha chiesto di approfondire il punto c) del mio post su Francesco “oltre” e “altrove”. Si tratta della esemplificazione che proponevo intorno a due sacramenti (ordine e matrimonio), come prova della inadeguatezza del “modello antitetico” di elaborazione dell’identità cristiana, formulato soprattutto lungo il XIX secolo e che si è poi irrigidito nella stagione “antimodernistica” e che oggi continua per inerzia a godere di un credito sproporzionato rispetto alla sua concreta pertinenza ed efficacia.

In che cosa consiste questo “modello” e perché appare particolarmente evidente proprio nei due sacramenti del “servizio”?

a) I sette sacramenti nella Summa theologiae

Per rispondere vorrei partire da S. Tommaso d’Aquino. Nella sua “sistematica sacramentale” non appare mai massimalista, ma ha ben chiaro che l’organismo sacramentale va trattato con la massima delicatezza. Può essere compreso solo «con prudenza e senso delle distinzioni». Perciò i sette sacramenti sono illustrati (S.Th, III, 65, 1, c) a cominciare dai sacramenti di cui ha bisogno il singolo (battesimo, cresima e eucaristia) e questi tre potrebbero essere sufficienti se l’uomo non fosse dipendente dai propri limiti e dalla propria insufficienza. Circa i limiti, egli si ammala e ha quindi bisogno di guarigione spirituale e fisica (e di qui la penitenza e l’unzione dei malati). Circa la propria insufficienza, non basta a se stesso, ma necessita di esercizio di potere e di generazione, e di qui nascono i sacramenti dell’ordine e del matrimonio. La santificazione, chiamata in causa da questi ultimi due sacramenti, riguarda gli altri, non se stessi. E li riguarda in due dimensioni: in rapporto all’autorità da esercitare, perché la società resti unita e in rapporto alla generazione da assicurare, perché la vita umana continui. Di qui lo spazio dei sacramenti dell’ordine e del matrimonio.

Un secondo punto interessante, nella teologia di Tommaso, è come egli gestisce la “correlazione” tra vita naturale e vita spirituale. Quando infatti spiega il “numero” dei sacramenti, Tommaso illustra la questione con un paragone tra vita naturale e vita spirituale: come nella vita naturale si nasce, sul piano spirituale si è battezzati, come si cresce, così si è cresimati, come si mangia e si beve, così si partecipa all’eucaristia. Tutto funziona secondo questa “immagine”, salvo per il matrimonio. Per esso, infatti, si dice «ci si unisce tra uomo e donna e si genera, e questo è il sacramento del matrimonio sia sul piano corporale che sul piano spirituale»: insomma, per il matrimonio, il rapporto tra segno e res è immediato. Natura e grazia si identificano. Questo sarà, nei secoli successivi, il luogo di una rilettura estremamente ricca, ma anche pericolosamente semplificata. Quando infatti questa “identificazione” tra grazia e natura viene spinta oltre il segno, il matrimonio diventa terreno di scontro irrimediabile tra natura, cultura e fede.

b) Dopo la “forma canonica” a Trento

Con il decreto Tametsi, al Concilio di Trento, avviene sul piano del rapporto tra “natura” e “grazia” un primo mutamento istituzionale che sarà gravido di conseguenze nel seguito della storia. Con una decisione giustificata da diversi fattori storici ed ecclesiali, la Chiesa subordina la validità del sacramento a una “forma canonica”, cosa che mai era esistita in 1500 anni di storia dell’esperienza cristiana. In tal modo la Chiesa anticipa la modernità, e con una “forma istituzionale pubblica” apre uno spazio di tutela del soggetto individuale libero. Il tema, già abbondantemente elaborato nel Medioevo, della “libertà del consenso” trova nella “forma canonica” la sua custodia pubblica. La logica comunitaria del matrimonio è così scavalcata in due direzioni: verso il soggetto e verso l’istituzione ecclesiale. La parola di Dio e il libero consenso del singolo ne divengono il centro. Tutta la mediazione complessa di natura, cultura, legge – che la lunga stagione antica e medievale aveva valorizzato – iniziano ad apparire, anche a giusto titolo, in posizione marginale o addirittura irrilevante. Se per Tommaso la “generazione umana” è “ordinata a molte cose”, ossia alla natura, alla città e alla Chiesa (Contra Gentiles, lib. 4 cap. 78 n. 2.) a partire dal XVI secolo la dimensione “ecclesiale” tende ad assorbire progressivamente le altre dimensioni.

Così, in un contesto di “rivolgimento sociale” come quello di fine XVIII secolo e di inizi XIX era ovvio che proprio questo “sistema” – inventato due secoli prima – entrasse in crisi.

c) Nello scontro con lo Stato liberale

Questa evoluzione post-tridentina trova il suo apice nella reazione ecclesiale alle “pretese” dello stato liberale, che si sviluppano agli inizi del XIX secolo, con i “codici civili” successivi al Code Napoleon, che si diffondono in tutta Europa. La reazione a questo sviluppo è, ovviamente, difensiva e apologetica, ma introduce nel corpo ecclesiale un’argomentazione di “pura autorità”, che diventa progressivamente sempre più autoreferenziale. Le tappe di questo sviluppo sono: la prima formulazione del “nuovo assetto”, che è di Pio IX, nel 1852, che corrisponde ad una correlazione tra contratto e sacramento in cui si perdono, in un sol colpo, tutte le mediazioni classiche, per mantenere soltanto l’autorità sul matrimonio. La formula – che ancor oggi ripetiamo spesso in modo acritico, come se fosse vangelo, suona così: «tra fedeli non può darsi matrimonio che non sia allo stesso tempo sacramento, e perciò ogni unione tra uomini e donne cristiani diversa dal sacramento, anche se fatta in base alle leggi civili, non è altro che turpe ed esiziale concubinato». Quella legge civile, che era stata per secoli inaggirabile luogo di esperienza naturale e culturale, viene esplicitamente negata, per poter affermare la “esclusiva competenza ecclesiale”. È evidente che il discorso sul matrimonio subisce la pressione dei tempi, ossia lo scontro istituzionale e drammatico che la Chiesa vive di fronte allo strutturarsi di una nuova esperienza politica dello Stato liberale. Ma questa argomentazione – dopo il trauma della perdita del potere temporale nel 1870 – passerà nel primo grande documento sul matrimonio, Arcanum divinae Sapientiae, di Leone XIII, nel 1880, e diventerà l’architrave del Codice di diritto canonico del 1917, che condizionerà la pastorale matrimoniale di tutto il secolo successivo.

d) La difesa apologetica e la chiusura autoreferenziale

È interessante che l’argomentazione, che a partire dal 1852 viene introdotta nel corpo ecclesiale, procede secondo due estremi. Da un lato assume tutta l’autorità e tutta la competenza sul matrimonio – negando almeno per principio le distinzioni medievali – ma dall’altro nega ogni potere della Chiesa sul matrimonio. La traduzione della tradizione, nel contesto dello scontro con lo Stato liberale, finisce facilmente in una teologia dell’autorità. Solo la Chiesa ha autorità sul matrimonio, e non lo Stato liberale. Ma la Chiesa non ha alcuna autorità sul “vincolo” di un matrimonio “rato e consumato”. Questo “sistema” rimane anche oggi lo strumento fondamentale con cui la tradizione cattolica “pensa” e “gestisce” il matrimonio. O, meglio, crede di pensare e crede di gestire il matrimonio. Perché in tale sistema, sorto nel conflitto con il sorgere di un “nuovo mondo”, le questioni decisive sono tutte “spiazzate” rispetto al reale, con proposte di “soluzione” che sono sempre “troppo” o “troppo poco”. Una Chiesa che ha nello stesso tempo “tutto il potere” e “nessun potere” fa molta fatica a tenere il passo con una realtà come quella matrimoniale, nella quale uno “stile autoreferenziale” si confronta con la esperienza più eteroreferenziale che ci sia! Per interpretare la quale occorre potenziare tutta la “regione intermedia” tra il potere massimo e la negazione del potere. Occorre una Chiesa che riconosca di avere “una certa autorità”, ma che sappia anche riconoscere “altre autorità”.

e) Mediazioni e differenze da riscoprire

La lunga efficacia inerziale del modello tridentino, che diventa “modello codiciale” dal 1917, polarizza l’attenzione ecclesiale sui due estremi: da un lato vi è l’istituzione ecclesiale, che dal 1563 impone una “forma canonica” al matrimonio cristiano. Questa forma diventerà, nei secoli successivi, criterio di competenza esclusiva della Chiesa sul matrimonio cristiano. Ma, parallelamente, resterà in piedi la tradizione medievale del “consenso del soggetto”, rispetto al quale, una volta acquisito e “consumato”, la Chiesa perde ogni potere rispetto al vincolo, che Dio stesso custodisce. Dunque, il sistema si basa su un principio di esteriorità formale in capo all’istituzione e su un principio di interiorità sostanziale in capo al singolo. Tutta la regione intermedia viene progressivamente abbandonata e guardata con crescente sospetto. Natura e cultura tramontano, lasciando spazio solo all’individualità singolare e alla competenza istituzionale. Non è difficile vedere come questa soluzione ottocentesca richieda, ormai da tempo, un’energica riconsiderazione e un nuovo orientamento. Noi oggi siamo vittime delle nostre stesse categorie, di cui facciamo un uso irresponsabile. L’individualismo di cui ci lamentiamo viene, in larga parte, dalle nostre impostazioni di secoli prima. Per correggere questa deriva possiamo muoverci almeno in tre direzioni:

– mediante il recupero di una “sapienza del contingente”, che ha per secoli caratterizzato lo stile ecclesiale, ma che si è inceppata proprio nel XIX secolo, sotto la pressione della “concorrenza” civile. Che la generazione sia “naturale, civile ed ecclesiale” deve essere vissuto, anche nella Chiesa, come una benedetta necessità, non come una dannosa confusione. Il matrimonio, la famiglia e l’amore sono inevitabilmente complicati. Hanno bisogno di logiche naturali e civili per essere luoghi evangelici; se perdono le prime due logiche, perdono anche la terza!

– la ripresa di questa complicatezza matrimoniale richiede la considerazione della libertà del soggetto, non solo all’inizio del percorso, ma nella “storia di vita”, che il matrimonio dischiude. La libertà di coscienza, non solo come “consenso originario”, e la storicità del soggetto, in tutta la sua evoluzione, debbono diventare oggetti di riflessione strutturale, non solo “fattori di esclusione”;

– infine, due differenze si dimostrano importanti: una teologia dell’autorità si deve incontrare con una teologia della libertà; una teologia del maschile deve sintonizzarsi con una teologia del femminile. Senza questa duplice integrazione, useremo le categorie di un mondo che non c’è più e non parleremo ad un mondo che aspetta una parola autorevole, ma non autoritaria.

e) Riflessi sul ministero ordinato

Come ho detto, questa vicenda che riguarda specificamente il matrimonio, può essere riconosciuta anche nel ministero ordinato, la cui logica, tuttavia, avendo una “dinamica naturale” diversa, non ha mai impegnato con tanta lena la sfida ecclesiale nel mondo moderno. Poiché la differenza, qui, sta proprio nella “minore eteroreferenzialità” della tradizione ministeriale, che lavora sul ministero in modo maggiormente “interno” all’esperienza ecclesiale. Ma l’argomentazione, per quanto riguarda ciò che non è semplicemente “posto”, ma “ricevuto”, appare assai simile. Sul celibato e sulla “identità maschile” del candidato al ministero il modo di proporre le argomentazioni segue linee affini a quelle sul matrimonio: da un lato la Chiesa rivendica tutta l’autorità – senza trovare, almeno qui, una vera concorrenza nello Stato liberale – ma poi si aggiunge il riconoscimento di una “totale assenza di autorità” nel modificare la tradizione di ordinazione di “soli maschi celibi”. La sola idea di poter discutere di un “diaconato femminile” mette in fibrillazione un sistema bloccato, che non riesce ad ospitare “logiche relazionali nuove”, elaborate da una società aperta, in cui i “ruoli sociali” non sono predeterminati da una “natura” che è, in realtà, sempre anche mediazione culturale e possibile “eccesso di potere”. Una teologia dell’autorità fa molta fatica a riflettere non solo sul tema della “comunione”, ma anche sul tema dell’“autorità”. L’effetto di risonanza stordisce tutti, prima ancora che il discorso possa cominciare. Ma senza uscire da questo “modello antitetico”, che ci costringe a una teologia della sola autorità, senza una nuova considerazione della libertà, della coscienza e della storia, resteremo bloccati ad un modello ormai incapace di mediare l’esperienza dei cristiani di oggi. E ci lamenteremo delle nostre stesse paure.

f) In conclusione

Non è un caso che i due temi “infuocati” – su cui il mutamento di paradigma conciliare, potentemente riattualizzato da Francesco, appare particolarmente esposto – siano proprio la “disciplina” del matrimonio e del ministero, che si vorrebbero “bloccati” in una presunta identificazione tra il “modello ottocentesco” e ciò che Gesù stesso avrebbe prescritto. La differenza tra la legittima traduzione ottocentesca e la parola del Signore non permette di squalificare quella soluzione storica, ma lascia lo spazio per approfondirla e modificarla, alla luce della parola di Dio e dell’esperienza degli uomini (GS 46). Il modello autoritario e disciplinare, maturato nel confronto traumatico con il sorgere della tarda modernità, deve convertirsi in un modello autorevole e pastorale, più adeguato alla condizione contemporanea. Una “differenza nell’eguaglianza” e una “dinamica di autorità e libertà” sono le sfide fondamentali per il “lavoro di aggiornamento” cui la Chiesa è chiamata non per accondiscendere a ciò che il mondo pretende, ma per onorare al meglio il Vangelo che deve servire. L’asfittica riduzione del Vangelo ad una autorità che si oppone alla libertà dell’uomo, e che può essere testimoniata e annunciata da maschi e non da femmine, da non sposati piuttosto che da coniugati, è una forma di traduzione della tradizione che assomiglia sempre più a una tradizione forse non tradita, ma la cui pressante traduzione latita ormai da molti decenni, per non dire da secoli.

Pubblicato l’8 giugno 2016 nel blog: Come se non

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