Sulla formula del battesimo

di:
phoenix

Foto di Josh Applegate

Le discussioni sollevate dai “26 anni di battesimi nulli” sono un’occasione buona per mettere a punto una serie di convinzioni, opinioni, illazioni e mistificazioni che circolano con la velocità della luce, ma non per questo ottengono un buon fondamento.

Vorrei cercare di chiarire il più possibile che cosa è in gioco nella vicenda che abbiamo appreso attraverso la “lettera” con cui il vescovo ha comunicato gli abusi di un parroco della sua diocesi.

È bene tenere separato il fatto, almeno per quello che ne sappiamo, e le sue interpretazioni, sulle quali è possibile riorganizzare un sapere che sembra, allo stesso tempo, ossessivo e sciatto.

Sembra che un prete della diocesi di Phoenix (USA), da almeno 26 anni, abbia battezzato tutti i fedeli che ha incontrato nel suo ministero utilizzando la formula battesimale: “Noi ti battezziamo nel nome del Padre…”. Poiché la formula del rituale è “Io ti battezzo…” e non “Noi ti battezziamo…”, il vescovo di Phoenix ritiene di dover considerare nulli tutti i battesimi di questo lungo periodo. Una sorta di “damnatio in radice”!

Roma e il vescovo

D’altra parte, un “responsum” della CdF di un anno e mezzo fa sembra avvalorare l’interpretazione con cui il vescovo ha proceduto alla sua dichiarazione di nullità.  Ciò che ora mi colpisce, in questa attuazione di quel testo, è il tenore delle argomentazioni, con cui si cerca di interpretare questo “uso improprio” come un “abuso”. Io non credo che questa fosse l’unica soluzione possibile. Anzi, a me pare che sia una forzatura pretendere di considerare nulla tutta questa serie di atti ecclesiali.

È evidente che i ministri della Chiesa sono tenuti ad utilizzare le formule prescritte, che raccolgono una lunga tradizione e che pertanto hanno un’autorevolezza non facilmente sostituibile. Tuttavia credo che il rimedio della “dichiarazione di nullità del battesimo” debba avvenire solo nel caso in cui la formula non permetta di essere riconosciuta come appartenente alla “medesima fede”: supponiamo se si usasse un formula non trinitaria, ma quaternaria, aggiungendo Maria o qualche santo, ovvero se si aggiungessero parole inadeguate o soggetti impropri ad esprimere il “passaggio a Cristo” del soggetto battezzato.

Ricordo che il “responsum” del giugno scorso era stato sollecitato per l’uso di una formula che suonava così: “A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Altro è dire “noi” e altro convocare tutta la famiglia come soggetto del battesimo!

Ma la questione sollevata riguarda, invece, la prospettiva strettamente formale, che viene collegata, con un salto mortale, all’ultimo significato teologico dell’atto sacramentale. Si dice: “usare Noi al posto di Io significa sostituire la Chiesa a Cristo e questa è la ragione della invalidità”. Credo che sia difficile sostenere in modo coerente e fondato una tesi tanto estrema. Che non è fatta di affermazioni di per sé infondate, ma scaturisce dal collegamento forzato di affermazioni con un loro parziale fondamento. Provo a mettere ordine nelle parole utilizzate. Vi è stato un abuso, ma l’abuso non porta necessariamente alla nullità.

In persona Christi

Anzitutto si dice: “Quell’Io che compare nella formula è Cristo stesso, perché chi battezza agisce in persona Christi. Quindi la sostituzione di “Io” mette la Chiesa al posto del suo Signore”. Questa interpretazione è molto debole, perché non è giustificata dalla storia.

L’espressione “in persona Christi” non è legata a chi pronuncia la frase, ma alla formula dell’eucaristia, che già gli antichi hanno notato essere pronunciata, da colui che presiede la messa, “come se fosse Cristo”. Tutte le altre formule, battesimo compreso, sono pronunciate “in persona ministri”. Quindi, da questo punto di vista, sarebbe possibile ragionare in questo modo: anche se il ministro ha commesso un illecito, modificando la formula, il significato del rito non cambia. Supplet ecclesia.

So bene che la stessa espressione “in persona Christi” è stata poi utilizzata per tutto ciò che fa il prete. Ogni prete o vescovo, qualunque formula dica, la dice “in persona Christi”. Questo, tuttavia, non tocca il fatto che la formula del battesimo può essere pronunciata anche da un diacono, da un laico uomo o donna e persino da un non credente.

D’altra parte, ogni polarizzazione teologica, che opponga Cristo e Chiesa, visibile e invisibile, risponde ad ogni problema in modo unilaterale. Non è necessario essere antimodernisti per difendere la tradizione sacramentale. In ogni battesimo l’io del ministro è solo al servizio dell’Io di Cristo e del Noi della Chiesa.

Perciò non sarebbe azzardato pensare che nell’Io di Cristo sentiamo anche il Noi ecclesiale, e nel Noi ecclesiale possiamo trovare il canto principale della voce dell’Io di Cristo. Che il battesimo sia un atto comunitario e non individuale sembra una notizia estranea al canonista e al vescovo.

Come pensiamo il battesimo

Vorrei ricordare che a non facilitare la soluzione di un problema contribuisce anche la “forma mentis”, non solo la formula del sacramento. È proprio la forma mentis classica, che dovremmo cercare di superare, a farci dividere il sacramento in due dimensioni:

  • Un’essenza indisponibile, che sarebbe quella garantita da formula, materia e ministro, e su cui vigila la Congregazione per la dottrina della fede.
  • Una cornice cerimoniale, estrinseca al significato teologico, affidata invece alle cure della Congregazione per il culto divino.

Questa forma mentis, che deriva dall’idea che in ogni sacramento si possa sempre dividere il dono di grazia dalla risposta di chi lo riceve, ci impedisce di assicurare un adeguato accompagnamento del cammino ecclesiale nei casi dubbi.

Ad esempio, la formula utilizzata nella diocesi americana non può essere davvero compresa senza capire come veniva celebrata, in quale contesto, con quale partecipazione, con quali canti, con che tipo di omelia…

Tutta la dimensione del culto liturgico, che da 60 anni dovrebbe essere promossa anche a Phoenix, dovrebbe restare assolutamente irrilevante per il discernimento? Sono forse i dicasteri romani la fonte dell’esperienza di fede?  Tutto questo contesto celebrativo locale dovrebbe essere oggi un riferimento necessario per comprendere il significato teologico del battesimo, come dell’eucaristia. Ma nelle parole del vescovo non trovo alcun riferimento a tutto ciò.

Una teologia astratta dei sacramenti finisce per trattarli come “passaporti”, col visto o senza visto. E la concentrazione della validità sulla “correttezza letterale della formula” è un modo indiretto di sminuire l’atto stesso, per pensarlo in un orizzonte oggettivo e soggettivo degno di burocrati, non di pastori o di profeti. Una concorrenza tra Io e Noi, come giustificazione di una nullità, è la proiezione di un approccio apologetico alla tradizione, che preferisce giudizi formali col bilancino ad esperienze di sostanza e di incontro.

Il cammello del vescovo

phoenixForse è proprio a questo livello che dovremmo chiederci: tutto questo formalismo miope e pedante, questa preoccupazione per una validità asettica e senza corpo, è veramente utile per annunciare il vangelo e per accogliere i discepoli di Cristo nella sua Chiesa?

Può davvero, un battesimo ridotto a questa arancia meccanica, raccontare qualcosa di buono e giusto di quell’Io che si vuole tanto custodire, ma solo proiettandolo sulla figura del suo “interprete principale”?

Alla decisione del vescovo di Phoenix, per ciò che abbiamo letto nella sua lettera, mi sembra che manchi una teologia del battesimo degna di questo nome, che non si lascia sostituire dal sensibilissimo bilancino del burocrate. Utilissimo a filtrare i moscerini, mentre si ingoiano i cammelli.

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3 Commenti

  1. Paolo 1 marzo 2022
  2. Fabio Cittadini 27 febbraio 2022
  3. patrizia 24 febbraio 2022

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