Abbiamo bisogno della storia?

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Rileggo Jean Baudrillard e mi lascio nuovamente convincere dalla sua tesi sulla storia che, nella modernità, ha smesso di essere storia strictu sensu, perché ha perso la dimensione costitutiva della finalità. Forse, nonostante l’incrollabile fede che nel passato ispirava socialisti e anarchici spingendoli a lottare per il sorgere inevitabile del ‘sole dell’Avvenire’, gli obiettivi finali della storia umana sono sempre stati un’illusione. In questa linea, anche la tesi di Fukuyama sulla fine della storia è un equivoco. Sembra proprio che la storia non finisca. È questo il dramma che ci ospita da tempo. E, se la storia non esiste, a partire dalla sottrazione della sua finalità, che cosa ci resta al suo posto?

L’immortalità della storia, infatti, annulla la stessa storia e condanna il tempo alla ripetitività, apparentemente progressista, della tecnologia e del consumo. Abitudini queste che ci hanno portato alla vigilia di un’altra fine permanentemente rimossa o dribblata: la fine del mondo, la conclusione apocalittica nucleare o la distruzione capitalista della possibilità della vita sulla Terra.

Sarà forse possibile recuperare la storia almeno scommettendo sulle biografie? Soggettivamente, la mortalità crocefissa e risorta di ogni essere umano potrebbe riaffermare la storia? O le storie? Forse, ma non necessariamente e solamente a patto di liberarci dalla colonizzazione capitalista che ci manipola e ci confina all’illusione mortifera dell’immortalità.

Proviamo a pensare ad una risposta data nell’attualità all’assenza della finalità della storia, che incontriamo nella proliferazione dei programmi televisivi, film e giochi che ci mostrano varie ed esotiche sfide di sopravvivenza, solitarie, di coppia, in gruppo. È la riduzione del senso della vita a mera sopravvivenza. Questa riduzione spalanca le porte all’irruzione della violenza del più forte e armato contro il più debole e disarmato. E ai calcoli statistici e malthusiani, non più così segreti e occultati, sulla sopravvivenza di una parte dell’umanità, a scapito dell’umanità periferica, irrimediabilmente inutile e perduta.

È bene ricordare e sottolineare che l’immortalità è un concetto greco illusorio e pervertitore dell’autentico senso della vita e della morte. È grave che possa essere entrato furtivamente nella teologia cattolica, al punto di apparire talvolta nello stesso Messale Romano: questo, insieme al concetto di eternità, che si sostiene a partire dall’equivoco del primato del temporale e del cronologico nell’ambito della Salvezza.

Gesù, infatti, ci dice di Vita Eterna, di Vita in pienezza, di Vita che vince la morte e la paura di morire, adesso e oltre la morte. Gesù, Messia, ci orienta all’attenzione al kairós, ad ogni istante del tempo, che è la porta dove Egli si affaccia, ci chiama e ci conduce. Il tempo, inteso come kairós, è la medicina che ci affranca dalla storia come cronologia senza senso e senza fine. E ci libera dalle temporalità istituzionali delle chiese, delle religioni, dei teismi astratti e illusori.

Ricordo a questo proposito un’accalorata discussione, nel 1992, in Goiânia, con una professoressa di storia. Stavamo progettando di scrivere la storia della Commissione Pastorale della Terra come testo celebrativo dei vent’anni di vita della pastorale e, analizzando la proposta metodologica fatta da un gruppo di specialisti, mi resi conto dell’assenza di indicatori antropologici che aiutassero a comprendere la pluralità regionale delle culture contadine a cui la CPT faceva riferimento.

E così insistevo, solitario e non compreso, con la tesi della necessità di affiancare un approccio antropologico alla ricerca storica. Effettivamente, per esempio, le identità culturali di contadini, discendenti di europei, o di ribeirinhos dell’Amazzonia modificavano radicalmente l’identità delle CPT coinvolte nei processi di resistenza e di lotta. Il dibattito terminò bruscamente con una affermazione della storica: “I popoli originari e le comunità contadine tradizionali, non hanno storia”.

Ricordo bene il mio rassegnato e scandalizzato silenzio in quella circostanza, ma oggi, rivisitando questa memoria, scopro qualcosa che né la professoressa né io avevamo intuito in quel tempo. La storia è, senza dubbio alcuno, un’invenzione occidentale, consacrata anche dalle teologie, ma, ascoltando i popoli indigeni, vale la pena porsi la domanda: “Ma avevamo davvero bisogno della storia?”; e ancora: “E oggi, ne abbiamo davvero bisogno?”.

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