Marchionne lascia tra lodi e critiche

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L’improvvisa uscita di scena di Sergio Marchionne – dovuta al micidiale assalto di una malattia non diagnosticata o non rivelata – ha suscitato, con diverse gradazioni, reazioni che si allineano sulle due filiere, quella della lode e quella della critica, che sempre attraversano il destino di personaggi che, nel bene e nel male, hanno fatto un pezzo di storia.

Marchionne è sicuramente uno di questi. L’impresa che lo ha reso famoso può essere così riassunta. Il 1° giugno 2004 gli viene affidata la guida del gruppo Fiat. Un incarico da fare spavento. Il manager italo-canadese si trova infatti a capeggiare un complesso industriale sull’orlo del collasso. Ricavi in calo, vendite in caduta libera, modelli superati. E poi tanti debiti e pochi profitti. Un possibile matrimonio con gli statunitensi di General Motors va in crisi ancora prima di cominciare. L’ultimo bilancio preso in carico è quello del 2003. I ricavi sono di 47 miliardi di euro, 7 miliardi in meno del 2002. L’indebitamento netto si aggira sui 15 miliardi. L’esercizio si chiude con perdite per circa 2 miliardi. Soprattutto il risultato operativo, ossia quello che la società incassa o prende con la sua attività industriale, è in rosso per mezzo miliardo.

Marchionne

Sergio Marchionne al termine dell’evento “FCA Capital Markets Day” all’interno degli spazi della sala stampa a Balocco, Torino, 1 giugno 2018. (ANSA/ Alessandro Di Marco)

Dal pelago alla riva

Raffrontando quella situazione con i dati di questo luglio 2018, è difficile sottrarsi ad un impeto di ammirazione per l’impresa dell’ammiraglio che ha saputo trarre la corazzata Fiat dal pelago alla riva.

Il primo passo Marchionne lo compie nel 2005. La Fiat aveva stipulato negli anni precedenti un accordo con il colosso statunitense General Motors contenente, tra l’altro, un’opzione a favore di Fiat. Il gruppo torinese può decidere di vendere tutto il suo capitale agli americani che in base all’opzione sono obbligati a comprare. GM però naviga a sua volta in pessime acque e resiste all’dea di accollarsi un’entità pure essa in forte sofferenza. Marchionne negozia allora un accordo che libera GM dai suoi obblighi verso Fiat in cambio di 2 miliardi di euro. Ne ricava alimento per le finanze del gruppo torinese e costituisce il gruzzolo con cui iniziare a riprendere su nuove basi la produzione.

Tutti concordano poi nel ritenere che il vero colpo da maestro Marchionne lo mette a segno nel 2009 nel pieno della crisi che falcidia l’economia. In quel contesto disastrato la Fiat, con la fiducia del nuovo Presidente Barak Obama, acquista la Chrysler, altra fabbrica di automobili in procinto di fallire ed in tal modo costituisce una duplice opportunità di ripresa, sia al complesso italiano che a quello statunitense.

Il conto ai lavoratori

I contraccolpi non sono lievi su entrambi i fronti e a sopportarli sono chiamati, in prima istanza, i lavoratori. Ai quali il nuovo manager prospetta un nuovo schema di relazioni industriali con meno garanzie di stabilità per il lavoro in cambio di una (relativa) stabilità delle imprese. Stabilità che però, nelle condizioni date, appariva come un miraggio. Il rapporto con i sindacati americani è più morbido e un’intesa viene raggiunta e ratificata. Più difficile quello con le rappresentanze italiane onerate dalla memoria delle lotte dell’autunno 1969 e restie a farsi una ragione di una prospettiva che include lo smantellamento di alcune fondamentali conquiste anche qui in cambio di una relativa garanzia del posto di lavoro.

I fatti sono noti. In alcune situazioni, come Pomigliano e Termoli, si giunge al referendum tra i lavoratori e a prevalere è la proposta… del padrone. Poi la situazione si normalizza sui nuovi livelli e si realizza il nuovo decollo delle imprese raggruppate sotto la nuova sigla FCA, sulle due sponde dell’Atlantico con l’avvento di nuovi modelli, alcuni dei quali ottengono successi di mercato assolutamente non comparabili con le posizioni raggiunte nelle esperienze precedenti. Vendite, profitti, utili e dividendi: è la certificazione del successo.

Marchionne

Sciopero alla Fiat Sata di Melfi (Foto Tony Vece).

La figura dello spartiacque della storia

Ora mentre si attende che tutto si compia nell’ospedale svizzero dove mentre scriviamo Marchionne lotta con la morte – e mentre il team dei proprietari si affretta a colmare il vuoto prima ancora che si apra – riaffiorano logicamente, nei “coccodrilli” di circostanza, i temi e le polemiche che accompagnarono l’apparizione di Marchionne e l’enunciazione dei suoi propositi.

Al riguardo dei quali c’è da dire che il protagonista non cercò mai di addolcire l’amara pietanza che si accingeva a servire. La condì infatti con qualche affermazione che all’inizio parve persino avventata. Nel mondo industriale disse, più o meno, si dovrà adottare la stessa formula che usano gli storici quando distinguono il “prima di Cristo” dal “dopo Cristo”. Si sarebbe parlato cioè di ciò che era “prima di Marchionne” e di ciò che sarebbe stato “dopo Marchionne”.

Chi scrive oggi fu tra quelli che allora invitarono a prendere sul serio tali affermazioni, nelle quali si poteva leggere un disegno di ripristino della supremazia delle esigenze del capitale su quelle del lavoro, nel senso che il soddisfacimento delle prime (garanzia degli investimenti e stabilità dei profitti) avrebbe prodotto come ricaduta anche una certa agibilità per le aspirazioni dei lavoratori, altrimenti precluse dalla chiusura degli impianti resa obbligatoria dalle condizioni della crisi.

I due fattori del successo

La circostanza parve appropriata anche per riproporre la questione della gerarchia tra lavoro e capitale, tipica del pensiero sociale cristiano, se non altro per contrastare, sul piano culturale prima ancora che su quello sindacale e politico, la deriva di ingiustizia e di disuguaglianza insita nel “pensiero unico” che ogni potere consegnava nelle mani di un mercato privo di coordinate etiche.

Guardando le cose retrospettivamente, cioè col senno dell’oggi, si deve convenire sul fatto che fin dall’inizio erano in campo gli elementi che avrebbero determinato il successo, per alcuni il trionfo o addirittura il miracolo, dell’iniziativa di Marchionne. Due soprattutto: la carenza di progetti alternativi e la debolezza del movimento dei lavoratori.

La mancanza di alternative

Da tempo la politica in Italia aveva rinunciato ad immaginare di poter compiere un intervento in prima persona nel campo economico. La funzione propulsiva delle “partecipazioni statali” era tramontata assai prima che quel cardine dell’economia mista (privati e Stato) fosse smantellato anche culturalmente. E d’altra parte non erano più in campo suggestioni minoritarie come quelle dell’autogestione che pure ebbero spazio negli anni ’70 e che tuttavia si conclusero, dove il tentativo fu compiuto, con la penosa ricerca di un “padrone” al quale riaffidare le redini dopo il fallimento delle esperienze compiute.

La decrescita sindacale

Quanto al sindacato, la decrescita del suo potere negoziale si rivelava direttamente proporzionale all’espansione della disoccupazione, a riprova della dottrina per cui solo sulla premessa del pieno impiego della forza lavoro si determinano le condizioni per realizzare un confronto paritario con le controparti padronali. E anche a conforto della tesi per cui fin degli albori della crisi, cioè ben prima del 2008, sarebbe stata necessaria una scelta di tutto il sindacato che rilanciasse il pieno impiego non solo come premessa dell’equità sociale, ma anche come condizione dello sviluppo economico. Idee circolate nei remoti anni Cinquanta intorno a figure come La Pira, Vanoni e le ACLI, ma non più coltivate in modo serio per farne le bandiere di un nuovo ciclo di mobilitazione e di lotta.

Così Marchionne ottenne la sua vittoria non accontentandosi di aver ulteriormente indebolito il sindacato per via delle sue divisioni sulle scelte da compiere, ma realizzando pure una rottura del mondo imprenditoriale attraverso l’uscita delle aziende del gruppo Fiat dalla Confindustria, essa stessa dunque debilitata da colpi d’ariete così pesanti.

Le condizioni delle forze in campo

A guardar bene però il nostro protagonista, oltre ai suoi innegabili meriti strategici, poté trarre beneficio dai due fattori presenti nel campo avverso: la mancanza di proposte alternative e la debolezza del movimento dei lavoratori. Soprattutto, dal fatto di essersene accorto − a differenza di altri − e di averne ricavato il massimo di vantaggio per l’affermazione del suo punto di vista.

Più che sui pronostici sul destino di FCA dopo Marchionne – la transizione del gruppo dirigente non deve essere stata del tutto tranquilla – occorrerebbe dunque sostare un momento a riflettere sulle condizioni delle forze in campo nella fase in atto del conflitto sociale e sulle prospettive di ulteriore segmentazione del mondo del lavori indotte dalla diffusione delle tecnologie connesse all’informatica. Dentro tali prospettive c’è spazio certamente per il destino dell’auto elettrica o… autodiretta, ma c’è anche il riflesso di una disparità di condizione tra i soggetti che determinano i comportamenti economici.

Discorsi da dopopartita

Varrebbe dunque la pena d insistere su aspetti di questo genere anziché accapigliarsi ora per allora sui torti e sulle ragioni di una storia che è andata così e forse non poteva andare altrimenti. Sarebbe anche un modo per ricordare a chi, come l’on. Di Maio, rimprovera gli sconfitti di ieri di aver lasciato fare a Marchionne quel che voleva, che i fatti hanno una consistenza oggettiva, che non viene scalfita dalla disinvoltura di chi, non presente sul campo, si attarda a vuoto in certi discorsi da… dopopartita.

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Un commento

  1. sergio 25 luglio 2018

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