Il Perù, tra ferite e speranze

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Questo discorso è stato pronunciato l’11 dicembre 2019 da Gustavo Gutiérrez, celebre esponente della teologia della liberazione, in occasione del conferimento del titolo di dottore “honoris causa”. È intitolato: «Non c’è nulla di più concreto di una buona teoria». Il discorso è stato tenuto presso l’Uditorio del Centro Culturale Ceori Wasi – Mirafiores – Perù.

Voglio ringraziare molto sinceramente il rettore, Iván Rodríguez Chávez, per l’onore immeritato che l’Università Ricardo Palma mi tributa conferendomi un dottorato “ad honorem”.

Sono consapevole di usare un’espressione frequente in questi casi che può sembrare di protocollo: «onore immeritato». Ma come convincervi, cari amici, che questo è ciò che penso e sento davvero? Come dirvi che non sono parole di circostanza e che provengono da un sentimento a cui non è estraneo un certo timore? Come esprimere la mia riconoscenza per questo gesto? Forse un modo semplice e fraterno di farlo è di condividere con voi alcune riflessioni che passano per le nostre menti e i nostri cuori nei difficili giorni che attraversiamo, preoccupazioni che vorrei collocare nell’ambiente universitario in cui ci troviamo.

Un impegno comune

Abbiamo in comune l’impegno di fare in modo che tutti i nati in questa terra la riconoscano veramente come loro nazione, luogo dove, rispettati i loro diritti, possano vivere e realizzarsi come persone; e infine condividiamo anche il fatto che le conoscenze debbano essere messe al servizio del Paese.

Permettetemi di riprendere questi punti:

a) Il Perù è un paese di grandi disuguaglianze e di persistenti contrasti. La nostra storia – vecchia e nuova allo stesso tempo – lungi dal superarli, li ha approfonditi e accelerati. Si tratta, senza dubbio, di uno dei maggiori divari dell’America Latina. In essa di accumulano – non clandestinamente, ma apertamente – morti premature e ingiuste, esistenze segnate dalla debolezza fisica e da malattie, vite che si trascinano tra frustrazioni e angosce. Questo ha creato una situazione complessa a cui la società non ha saputo rispondere sempre come doveva, nel totale rispetto dei diritti umani.

Non si tratta unicamente di disuguaglianze sociali. Siamo anche un paese variegato dal punto di vista razziale e culturale. In questo paese convivono da secoli, senza incontrarsi del tutto, diverse popolazioni che si diversificano per il colore della pelle, la lingua, i costumi, le espressioni artistiche. I vincoli che la forzata convivenza è riuscita a stabilire non sono riusciti ad accorciare in maniera significativa le distanze, né a superare i pregiudizi, la reciproca ignoranza e ostilità.

La vita, passione e morte di José María Arguedas, (scrittore e antropologo peruviano, 1911–1969, ndt) ci offrono una testimonianza sofferta e urgente degli approcci e anche del cammino percorso in un processo che non è ancora riuscito a coagularsi e che, a ben guardare, minaccia di rimanere interrotto.

Non possiamo e non dobbiamo nascondere che in questa eterogeneità, che indubbiamente è anche una ricchezza, ci sono aspetti assai dolorosi e gravi responsabilità di carattere etico. Ciò avviene quando la diversità si accompagna al disprezzo delle persone, alla cecità di coloro che godono di privilegi, alla convinzione – senza alcun dubbio – che alcuni sono nati in questo paese per comandare e altri per obbedire. Implica anche atteggiamenti razzisti – la cui presunta inesistenza tra noi è una delle nostre menzogne sociali, la violazione multiforme del diritto alla vita, la noncuranza – che ha molto di suicidio – di coloro che hanno avuto e hanno la possibilità di creare una società giusta con pari opportunità per tutti.

Quando, in seno a questa diversità si alimentano le differenze, permane una grave ingiustizia sociale. Come la Bibbia dice continuamente, e lo sottolinea il senso comune, non esiste pace autentica senza giustizia, senza rispetto dei diritti umani ed evidentemente del primo di essi è il diritto alla vita.

Ingiustizia sociale

Non ci troviamo davanti a un problema che possa essere risolto unicamente nell’ambito delle politiche da applicare o dei fattori economici da considerare. Alla radice c’è la questione etica di ciò che significa la persona umana, del perché della vita umana nella società.

La coerenza personale o la disonesta doppiezza, la verità o la menzogna nel discorso politico, la certezza che tutti gli esseri umani sono uguali in dignità o la presunta superiorità di alcuni, l’onestà nella gestione delle risorse pubbliche o il servirsene come piccola cassa personale, non sono problemi morali vaghi e fumosi. Sono decisivi per stabilire relazioni sociali giuste e rispettose.

Non c’è nulla di più concreto di una buona teoria. Parafrasando, potremmo dire che nel Perù dei nostri giorni non c’è nulla di più politico (quanto alla costruzione di una polis, città o nazione) di un comportamento etico buono ed esigente. Le varie forme di corruzione (il denaro facile, il gioco delle influenze, l’ebbrezza del potere, l’uso sistematico della menzogna) corrodono la vita sociale e la credibilità di coloro che hanno in essa importanti responsabilità.

Tutto ciò mantiene vive e aperte vecchie ferite che non sono riuscite a cicatrizzarsi nel corso della nostra storia.

A chi pensa che lo scenario descritto sia fosco, è opportuno dire che la realtà – almeno una sua parte sostanziale, lo è ancora di più, soprattutto per i poveri del paese. Se vogliamo invertire questa situazione, dobbiamo avere il coraggio di guardarla in faccia, senza alcun genere di sotterfugi o di scappatoie.

b) È frequente l’affermazione che stiamo attraversando una grave crisi. Un momento in cui – per dirla con Vallejo – (poeta peruviano, 1892–1938, ndt) – «i postumi della sbornia di tutto ciò che è stato vissuto e sofferto nella nostra storia sono cristallizzati nell’anima nazionale». Malgrado ciò, esistono le possibilità di fare di questo paese una nazione per tutti. C’è qualcosa, nonostante tutto, di promettente nel fatto che conosciamo sempre meglio la nostra realtà attuale, così come le strade e i sentieri di montagna che ci hanno condotto ad essa.

Nel Paese assistiamo a dei cambiamenti profondi che non si riducono a situazioni congiunturali ed effimere. Si tratta di qualcosa che richiede vari decenni e che proietti le sue radici lontane nel nostro divenire storico. Le trasformazioni a cui alludiamo non avvengono nella superficie dell’attualità in cui scorrono le ambizioni politiche episodiche e le frivolezze di quanti non vedono al di là dei loro profitti e delle loro arroganze. Questi cambiamenti si verificano piuttosto nel sottosuolo della nazione. Questo è ciò che stiamo vivendo, non lasciamoci imprigionare dalla congiuntura e dagli aneddoti.

Le viscere della nazione

Ora non è più necessario compiere lunghi viaggi per trovare il «profondo Perù» di cui parlava Basadre (storico peruviano, 1903–1980, ndt), le viscere della nazione col suo corteggio di fame e di emarginazione, ma anche di opportunità e di energie che irrompono sempre più nell’insieme del territorio e ci vengono incontro. Oggi il Perù profondo si trova ovunque. Lima, la capitale che ha vissuto nell’indifferenza verso il paese, oggi è la città con il maggior numero di abitanti peruviani di lingua quechua.

D’altra parte, negli ultimi anni abbiamo assistito al crescente protagonismo delle popolazioni amazzoniche, a difesa del loro territorio e di altri diritti. La cruda realtà, ma anche la variegata ricchezza del nostro paese si fanno strada nella coscienza dei peruviani, in maniera lenta e costante. Non tutto ciò che emerge e che tocca i sentimenti e i modi di pensare ci piace, ma è meglio saperlo che non continuare a ignorarlo; o, peggio ancora, fingere di non conoscerlo. È un processo che ci obbliga ad abbandonare vecchie categorie e ad aprirci a nuovi modi di comprendere le cose. Dobbiamo accettare questa sfida.

Questi avvenimenti hanno portato, per esempio, a parlare di disparità in vari campi della vita nazionale. Alla questione sono stati dedicati serie indagini e vivaci dibattiti. Ma indubbiamente ciò che è irregolare lo è in relazione a un determinato principio, ed è questo che deve essere messo in discussione. Il fatto è innegabile, ma non possiamo evitare la preoccupazione di cercare anche di includere la ricerca di nuovi cammini per una necessaria autonomia di settori fino ad oggi dimenticati e rinviati. E questo non è la stessa cosa.

Accettare la sfida della creatività che deriva dalla situazione che si profila, questo toccar terra per quanto riguarda la conoscenza del paese, richiede di trovare le strade di un’autentica democrazia. Questo è, anzitutto, uno stile di vita, un modo di comportarsi socialmente, che implica come elemento essenziale la trasparenza delle decisioni che devono regolare la convivenza sociale. Sapere «chi, dove e perché» (Sartori) si effettuano determinate opzioni è un diritto di ogni cittadino e una condizione indispensabile per sentirsi membro di una nazione. Siamo consapevoli di quanto siamo stati lontani a questo riguardo nel Perù di ieri e quanto in quello di oggi.

Perù, Gustavo Gutiérrez, teologia della liberazione

Discernere la crisi

Questa trasparenza si oppone alla menzogna che, facendo della democrazia una meta frustrante, suscita scetticismi che possono portare un popolo alla disperazione o renderlo facile e inerme preda di ogni genere di messianismi politici.

Discernere nella crisi attuale, percepirne la profondità al di là della congiuntura, e sapere uscirne con inventiva vuol dire liberarsi da uno dei peggiori flagelli che fanno ammalare e avvelenano le relazioni tra peruviani. Ci riferiamo a quanto poco sembra valere la vita umana tra di noi. Gli esempi, malgrado tutte le spiegazioni e le giustificazioni che si vogliano dare, stanno lì a ferire i nostri occhi e i nostri cuori e sono tanto chiari e tanto eloquenti che è inutile entrare nei dettagli.

Se questo atteggiamento continuasse, non ci sarebbe alcuna soluzione possibile. Sarebbe una delle peggiori conseguenze degli anni violenti che ci è toccato vivere. Vale a dire, la posizione che porta a pensare che solo la violenza, la mano pesante del “a chi tocca tocca”, gli attuali atteggiamenti totalitari e arbitrari, possano risolvere le situazioni.

Questo è ciò che non possiamo accettare come esseri umani e come cittadini di questo paese. Occorre un grande sforzo per plasmare un mondo umano basato sulla giustizia sociale e sul rispetto dei diritti umani e la cura dell’ambiente, tema che ha assunto una grande importanza nel contesto del cambiamento climatico che preoccupa molta gente.

È altrettanto urgente creare tra noi quella che è stata definita una cultura della vita, vale a dire un atteggiamento globale che non lasci spiragli a una volontà di morte, aperta o mascherata. Per farlo facciamo affidamento sull’immensa e variegata ricchezza storica e culturale che ci viene dalle diverse popolazioni che vivono e cercano di convivere nel paese. Da questi versanti lontani e diversi, senza che uno si imponga sull’altro, sarà possibile realizzare quella nazione che tutti desideriamo.

c) Abbiamo bisogno di conoscere, riconoscere, questa nostra patria nelle sue altezze e nelle sue profondità, nelle sue ampiezze e nelle sue ristrettezze, nelle sue possibilità e nei suoi vicoli senza uscita. Altrimenti non sarà possibile realizzare ciò che il vecchio Guamán Poma (cronista indigeno del Perù durante la conquista dell’America 1534–1615) ndt) chiamava un «buon governo».

In questa conoscenza, il ruolo dell’università è insostituibile. Dalla sua qualità accademica, scientifica e tecnica dipende che si possa attuare il compito di cui il paese ha bisogno. È chiaro per tutti che oggi, sul piano internazionale, la linea di demarcazione tra il Nord e il Sud è tracciata con tratti sempre più netti dalla cosiddetta rivoluzione tecnologica, approfondendo le conseguenze della «colonialidad del saber» (colonialità del sapere),[1] che così bene descrisse il nostro ricordato amico e cattedratico di questo luogo di studio Aníbal Quijano. Questa rivoluzione tecnologica è diventata, inoltre, il principale fattore di accumulazione dei paesi opulenti.

Nazioni, come la nostra, restano al traino, mentre aumenta la loro dipendenza dai paesi che dispongono di grandi risorse su questo terreno. Ciò si traduce in nuove e profonde disuguaglianze in cui l’esclusione dei poveri si presenta in modo più dissimulato. È stato affermato, a ragione, che alla detta dipendenza si aggiunge una dose di esclusione da parte dei paesi ricchi.

Come se i poveri non ci fossero

Questo gap non si verifica solo nel panorama mondiale. Il problema si riproduce sul piano nazionale nel lacerante declino del livello educativo nel campo pubblico, l’abbandono economico in cui diversi governi hanno lasciato i maestri e i professori universitari in questo tempo. Si stanno creando due classi di peruviani: i pochi di famiglia agiata che hanno accesso alle istituzioni dell’insegnamento accademico, dentro o fuori del paese (in generale costose e private) e l’enorme maggioranza che avanza faticosamente dalla scuola primaria all’università in centri di basso livello, accumulando più anni di studio che conoscenze.

Illustri personalità universitarie – da diverse angolazioni – hanno denunciato questo fatto e hanno chiesto che lo stato peruviano non incoraggi volutamente o per mancanza di interesse una situazione pregna di conseguenze demolitrici per la costruzione di una nazione. Per questo e per elementari ragioni di uguaglianza sociale, dobbiamo avere università aperte ai giovani di tutti gli strati socio-economici del paese. Dobbiamo chiedere allo stato tutti insieme che assolva alla sua responsabilità nel campo decisivo dell’attività nazionale.

Ma non basta la competenza professionale e tecnica. Bisogna che coloro che vi hanno accesso mettano le loro conoscenze al servizio del paese e, più in concreto, dei settori più poveri e dimenticati. Di fronte ad un individualismo esacerbato e prepotente che consiglia con tutti i mezzi di pensare a noi stessi, dobbiamo riaffermare la solidarietà.

La somma delle persone che si ripiegano su se stesse e che camminano per vie parallele non fa un popolo, si tratta semplicemente di una massa senza forza né progetto, preparata per la manipolazione di coloro che dispongono delle diverse leve del potere.

Lungi da noi l’idea di rifiutare le potenzialità di ciascuno. Si tratta di vedere quale significato accordare loro e di essere consapevoli che l’uguaglianza sociale non si trova al punto di partenza ma di arrivo del nostro processo come paese. Anche qui emerge un’etica di una solidarietà più umana e realistica, fornendo un quadro adeguato e costruttivo per l’espansione delle capacità personali.

Perciò è particolarmente urgente sviluppare questo quadro nel caso delle donne. La situazione delle donne nella nostra società, nonostante alcuni passi positivi, si colloca in una scala di valori che denota un profondo disprezzo per la loro condizione umana, a cui viene negata la pienezza dei loro diritti come persone; ad esse spetterebbero i compiti più umili nella famiglia, nel lavoro, nell’organizzazione sociale, nella Chiesa. Ma è chiaro che questo disprezzo è, soprattutto, un avvilimento del maschio come essere umano. Il riconoscimento che la donna ha uguali diritti dell’uomo non è un favore, è l’accettazione di una necessaria equità.

Persone competenti ci sono anche oggi. Esistono numerosi studi al riguardo consacrati a molti diversi aspetti della nostra storia, del mondo culturale e fisico, della situazione sociale e della possibilità di sviluppo. Non ci sono dubbi circa la loro qualità. Nello stesso tempo – contrasto doloroso – viviamo con tanti e così acuti problemi non risolti. Temiamo che in molti casi le conoscenze acquisite non siano servite come strumento per una trasformazione della nostra società, ma per costruire un mondo in cui si chiudono coloro che possiedono queste capacità. In questo caso ci troviamo davanti a una perversione del sapere e capita – come dice il Vangelo – che la luce diventa tenebra. In questo modo, il sapere illumina e permette risultati individuali e getta più ombre sull’insieme della nazione.

Competenza professionale, solidarietà nell’edificazione di una società giusta sono i compiti della formazione universitaria. Ma lo è anche aiutare tutti noi a guardare lontano, a non cadere in atteggiamenti nostalgici che ci fissano nel passato e non costruiscono nulla, a non chiuderci nel momento presente, a prendere coscienza delle nostre energie e possibilità come popolo. Dobbiamo fare in modo che la luce della conoscenza possa illuminare il nostro cammino storico e non aggiunga in maniera paradossale più oscurità a un popolo povero che lotta con coraggio per la sua dignità e sopravivenza.

La grande sfida della gioventù sta nell’assumere il suo compito di fronte agli spinosi problemi del paese, alla sofferenza e alle aspettative di tanti suoi abitanti; nel non tradire la sua responsabilità verso un popolo a cui appartiene. Non dimentichiamo che il futuro non arriva da sé; esso si plasma con le mani, la mente e il cuore.

Cari amici, grazie ancora per questo riconoscimento che mi onora e impegna a rendermi membro del collegio di questa università nella quale  sono passati tanti illustri peruviani.

Lima, 11 dicembre 2019


[1] La colonialità si definisce come «l’imposizione di una classificazione razziale/etnica della popolazione del mondo», che funziona come elemento costitutivo e specifico del modello mondiale di potere capitalistico, attivo in ogni ambito della vita, quotidiana e societaria.

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Un commento

  1. Giampaolo Centofanti 18 dicembre 2019

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