«Più leggero e libero di scegliere»?

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suicidio assistito

Alcune riflessioni sulla nota della Pontificia Accademia per la Vita in merito alla vicenda legata all’assistenza al suicidio per un cittadino italiano.

«Mi sento più leggero, mi sono svuotato di tutta la tensione accumulata in questi anni. […] Sono stanco e voglio essere libero di scegliere il mio fine vita». Sono parole di “Mario” – nome di fantasia dato al paziente marchigiano tetraplegico, immobilizzato da undici anni a seguito di una frattura alla colonna vertebrale – dopo il parere del Comitato etico territorialmente competente, che ha riscontrato nel suo caso la presenza dei requisiti previsti dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale sulla non punibilità dell’assistenza al suicidio.

La sentenza – lo ricordiamo – pone dei paletti precisi e chiari: la persona dev’essere affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili; dev’essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale; deve poter comunicare una decisione libera e consapevole.

Abbiamo già avuto modo di esprimere, su questo stesso blog, delle riflessioni sulle questioni etiche sollevate da tale pronunciamento. Vorremmo, ora, provare a cogliere le sollecitazioni che emergono dalla Nota che la Pontificia Accademia per la Vita ha pubblicato dopo il parere del Comitato etico marchigiano.

In cerca di un dialogo

«Non possiamo in nessun modo minimizzare la gravità di quanto vissuto da “Mario”. Rimane tuttavia la domanda se la risposta più adeguata davanti a una simile provocazione sia di incoraggiare a togliersi la vita».

Una delle questioni più spiacevoli, nel dibattito italiano sui cosiddetti “diritti civili”, è la sterile e dannosa contrapposizione che vede spesso “laici” e “cattolici” fronteggiarsi con toni molto accesi su temi di grande sensibilità. La Nota della PAV sembra percorrere, al contrario, un percorso più costruttivo, ponendo delle legittime domande per favorire un dialogo autentico e proficuo su un argomento così delicato come quello della sofferenza di un uomo tetraplegico. Senza, infatti, voler entrare nel merito di una situazione i cui dettagli clinici non sono stati del tutto rivelati, la PAV si chiede se il vero modo di prendersi cura dell’umanità vulnerabile e sofferente sia quello di aiutarla a morire.

L’ulteriore domanda che emerge da queste riflessioni riguarda, a nostro avviso, il ruolo e i fini della pratica medica. Già, infatti, dalla rivoluzione scientifica del XIX sec. e il conseguente (e lento) abbandono del paternalismo medico di stampo ippocratico, la medicina ha eletto a suo fine primario quello di eliminare malattia e sofferenza, facendo proprio un paradigma che potremmo definire “efficientista”. Probabilmente, nonostante l’eccellente e ammirevole impegno di gran parte del personale sanitario, un simile processo ha portato a ritenere “medicalmente inutile” ogni terapia su quelle persone che presentano un’infausta diagnosi di “inguaribilità”.

La strada dell’accompagnamento – che la PAV indica come via maestra – ci sembra abbracci un paradigma meno efficientista e più improntato sulla cura. Riteniamo, tuttavia, che affinché un simile cambiamento di paradigma entri nella mentalità comune, sia necessario ripensare la pratica medica, investendo maggiormente su una slow medicine, una medicina lenta che, senza abdicare alle evidenze scientifiche, riesca a valorizzare quegli illness script attraverso i quali il malato racconta non solo la sua malattia, ma anche ciò che l’ha preceduta e ciò che la seguirà.

Le cure palliative

«In tale linea, la strada più convincente ci sembra quella di un accompagnamento che assuma l’insieme delle molteplici esigenze personali in queste circostanze così difficili. È la logica delle cure palliative, che anche contemplano la possibilità di sospendere tutti i trattamenti che vengano considerati sproporzionati dal paziente, nella relazione che si stabilisce con l’équipe curante».

Le cure palliative rappresentano, secondo la PAV, la strada più convincente. Esse, lo sappiamo, costituiscono un pallium, un rassicurante mantello che permette anche al malato con prognosi infausta di sentirsi coperto da cure che rendano più dignitosi gli ultimi istanti della sua vita. Si tratta di assumere lo stile che Cicely Saunders auspicava per il trattamento dei degenti nei suoi hospices: «Tu sei importante perché sei tu, e sei importante fino all’ultimo momento della tua vita. Faremo ogni cosa possibile non solo per permetterti di morire in pace, ma anche per farti vivere fino al momento della tua morte».

Non si tratta, pertanto, di cure che possono essere sottoposte a giudizio di proporzionalità perché rappresentano, in linea di principio, quel trattamento dolce di sollievo da ogni forma di dolore, fisico e psicologico.

In tale ottica, la comunità cristiana, da sempre schierata a favore dell’indisponibilità della vita umana, dovrebbe accogliere questa istanza favorendo la creazione di nuove unità per le cure palliative, investendo, in questo, anche parte dei fondi provenienti dalla firma dell’8xmille alla Chiesa cattolica. Del resto, già dal IV sec., comunità cristiane, monasteri e vescovi avevano contribuito a far nascere orfanotrofi, gerontocomi, nosocomi, diaconie e xenodochia per occuparsi della cura dei malati.

I comitati etici

Infine, ma non ultimo per importanza, la nota della PAV si chiede se, proprio in virtù della sentenza della Corte sul caso Cappato-Antoniani, non sia il caso di affidare il compito di valutare la conformità della situazione clinica alle quattro condizioni stabilite dalla sentenza a un nuovo organismo: «Un compito cioè che potrebbe più adeguatamente essere svolto da un comitato tecnico (medico-legale) che verifichi la sussistenza delle condizioni prescritte. Un comitato di etica potrebbe essere più correttamente essere coinvolto in una consultazione previa alla decisione del paziente».

La proposta, più che giustificata, parte dal presupposto che i comitati etici non abbiano, al loro interno, tutte le competenze per potersi adeguatamente esprimere su questioni così complesse e delicate. Potrebbe, tuttavia, presentarsi un rischio. La separazione tra il comitato etico – che sarebbe da coinvolgere previamente, nell’accompagnamento della decisione del paziente – e il comitato medico-legale – impegnato, invece, nella valutazione di conformità tra il caso e la legge – potrebbe rendere esclusivamente giuridica e legale una scelta dal forte valore morale.

Ci si consenta, invece, di auspicare che, proprio in virtù della complessità delle questioni etiche emergenti, il ruolo dei Comitati etici sia sostenuto e implementato, favorendo una presenza più capillare e curandone la composizione in modo da avere, al proprio interno, competenze varie e qualificate, in grado di esprimere in scienza e coscienza pareri validi caso per caso.

  • Roberto Massaro è docente di Teologia morale sessuale e bioetica presso la Facoltà Teologica Pugliese
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