Uscire dalla guerra civile bioetica

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Alla recente sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti in materia di aborto corrisponde una radicalizzazione delle posizioni nel dibattito pubblico – non solo americano. Ne consegue uno scollamento ulteriore all’interno del corpo sociale, con un aumento della conflittualità che rischia di minacciarne la tenuta. In questo quadro si inserisce la proposta di mediazione di Riccardo Cristiano.

Il pontificato di Jorge Mario Bergoglio – il papa che dice che, per la Chiesa, questo è il tempo del discernimento e di avviare processi piuttosto che occupare spazi – potrebbe essere quello che ci aiuta ad uscire dalla guerra civile bioetica sull’inizio e sulla fine della vita umana.

Questa oppone i cantori dell’io sovrano – un sovrano assoluto che dispone di sé come ritiene – e i custodi del diritto di Dio che archiviano a priori i diritti dell’essere umano in quanto tale. È evidente che se il confronto culturale si riduce in questo modo si giunge appunto alla guerra, perché il confronto civile e la coesistenza di idee divengono impossibili.

Per questo – da laico – vorrei chiedere alla Chiesa, ai teologi, ai pastori, di riaprire il dialogo sulla difesa della vita – “dal concepimento alla morte naturale” – come si è sempre detto. Secondo me – e non solo secondo me, almeno ascoltando la scienza – la persona vivente è il portato di un processo che giunge alla vita umana, così come alla morte: in quest’ultimo caso, si tratta di un processo condizionato – come ben sappiamo – dalla disponibilità di farmaci, di terapie e di macchine in grado di assistere la vita biologica.

La vita come processo naturale

La prima evidenza è dunque – per me – che la formazione e la conclusione della vita appartengono a processi naturali sulla cui continuità e complessità, insieme al senso del mistero, occorre da subito convenire. L’ormai scontata presa di distanza dal cosiddetto accanimento terapeutico e la pressoché unanime accettazione delle cure palliative dimostrano che, per quanto riguarda la vita che va a finire, è possibile capirsi tra tutti o quasi.

Nel mentre, l’assolutismo dell’io sovrano è tale da proporre un referendum sull’omicidio del consenziente. Questo tuttavia ha favorito, secondo me, la comprensione tra coloro che sono ragionevoli: i recenti sviluppi sul “suicidio assistito” indicano che un’intesa di buon senso è possibile e l’approvazione del relativo disegno di legge alla Camera ne è la concreta riprova.

Se dunque il mondo laico, secolare e liberale, abbandona, almeno in parte la cultura dell’io sovrano, può incontrare una Chiesa che, come ha scritto padre Ferrer sull’ultimo numero della Civiltà Cattolica, sa considerare che “le norme morali sono necessarie, ma, da sole, insufficienti a determinare come bisogna operare nella situazione particolare. La legge senza la coscienza non ha senso compiuto. Soltanto la coscienza dell’agente morale può formulare la norma concreta per l’azione”.

Ritengo che l’incontro – nella diversità profonda che permane – sia possibile anche sul processo che dà luogo ad una nuova vita umana e quindi sul dramma dell’aborto. Perché la vita biologica e la persona – mi sembra – non sono la stessa cosa: non affiorano nello stesso istante. La vita biologica ha corso dal momento del concepimento, poiché ogni cellula è viva. Ma la vita diviene propriamente umana per via di un processo, che si compie quando quell’organismo vivente diviene persona con i diritti propri di ogni essere umano.

Pensandola così, i due approcci oggi più diffusi mi appaiono ideologici.

Ideologie contrapposte

L’ideologia dell’io sovrano mi appare nella manifestazione – appunto ideologica e non accettabile – che si possa disporre di ciò che nasce, con arbitrio. Anche la stessa sentenza della Corte suprema americana recentemente abrogata – la più permissiva al mondo – riconosceva i diritti del potenziale nascituro, consentendo l’aborto sino al sesto mese, con limitazioni tra il primo e il secondo trimestre, prevedendo solo la salvaguardia della partoriente nel terzo trimestre: questa tempistica già comprendeva una visione della vita umana ritenuta tale solo nel momento in cui era autosufficiente.

Ma anche l’altra è una visione ideologica. La vita va difesa sempre. D’accordo. Difatti, la difesa intransigente della vita del nuovo nato non sparisce il giorno dopo la nascita, mentre non conosco legislazioni prolife che assicurino al neonato assistenza sociale e sanitaria incondizionata, almeno per un arco ragionevole di tempo.

Aborto: la legge 194

Tra questi due estremi c’è la saggezza – a mio modo di vedere – della legge 194 italiana. Non costituzionalizza infatti un diritto: l’interruzione volontaria di gravidanza deriva da necessità terapeutiche, non da un diritto.

La legge 194 del 1978 definisce l’interruzione volontaria della gravidanza “terapeutica”, ammettendola nei casi in cui la gravidanza o il parto costituiscano un pericolo per la salute fisica o psichica della donna “in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”.

Nella 194 risulta chiara la cura che legge vuole della donna, spesso sottovalutata: non solo perché nei primi articoli si introducono importanti volontà di assistenza e aiuto alle donne in difficoltà di fronte a una gravidanza inattesa e quindi tentate dalla scelta abortiva, ma anche perché nell’articolo 4 si riconosce quello che definirei lo stato di eccezione.

Parlare di stato d’eccezione in diritto vuol dire parlare del “caso limite”. L’idea stessa di legiferare al riguardo è problematica di per sé, perché può portare a normalizzare l’eccezione. Ma proprio ciò che è eccezionale può aiutarci a muoverci nella normale eccezionalità di un processo che porta dalla non esistenza al divenire organismo vivente, poi una persona. Ecco perché, a mio avviso, possiamo stare fuori dagli opposti estremismi.

Le parole del papa

Papa Francesco nel corso di due interviste televisive – la prima trasmessa da Canale 5 il 10 gennaio 2021 – ha affermato che tutti gli scienziati, credenti e non credenti, concordano nel dire che dopo un mese dal concepimento l’embrione è ormai un organismo vivente. Queste certezze scientifiche sono state al centro di altre dichiarazioni di Francesco: ad esempio in un’intervista a un’emittente spagnola.

Avvenire le ha così riferite il 4 settembre 2021: “In qualsiasi manuale di embriologia dato a uno studente di medicina alla scuola di medicina si dice che, nella terza settimana di concepimento, a volte prima che la madre si renda conto [di essere incinta], tutti gli organi dell’embrione sono già delineati, anche il Dna. È una vita. È una vita umana. Alcuni dicono che non è una persona, ma è una vita umana!”.

Ritengo che l’intenzione di Francesco fosse quella di argomentare il suo no all’aborto in modo ancor più convincente. E, in effetti, le sue parole hanno fatto riflettere, almeno me. Trovo di enorme onestà intellettuale, da parte sua, quel cenno alla distinzione tra vita, vita umana e persona che non sempre viene fatto.

Eppure, chiunque abbia familiarità, a differenza di me, con la teologia dice che lo stesso Tommaso d’Aquino ammetteva che la vita umana sopraggiunge e poi, dopo essere sopraggiunta, conduce alla formazione della persona. Dunque, come negare che esista un tempo tra il concepimento e la formazione di una nuova vita umana?

Una proposta di mediazione

Per me, durante le prime fasi del processo della vita – che inizia con la fecondazione del gamete femminile da parte del gamete maschile – non si può dire che ci sia vita umana e ancor più una persona, sin dal concepimento. Sarebbe come dire che il processo si concluda nel momento stesso in cui ha inizio.

Esiste dunque un tempo – diciamo intermedio – durante il quale uno straordinario processo vitale trasforma la vita in vita umana: potremmo pensarlo ancora come un tempo del discernimento per la piena genitorialità? Io penso che, durante questo tempo, chi drammaticamente – drammaticamente nel senso di un’azione ben ponderata – rinuncia a portare a termine la gravidanza e non giunge ad uccidere la vita umana.

Potrebbe apparire un sistema “contraccettivo”. Non è così. So che la Chiesa cattolica non riconosce la legittimità della contraccezione, ma ciò non le impedisce di poter distinguere e discernere tra prevenzione e soppressione: questo passaggio, per me, è fondamentale per la comprensione col mondo laico.

Quanto dura questo tempo intermedio? Non sono certo io a poterlo dire. Sicuramente è un tempo breve. Penso che, per quanto breve, con tutte le cautele del caso, sarebbe importantissimo riconoscere che questo tempo c’è.

Il tuziorismo è quella dottrina morale secondo la quale, quando la norma può avere diverse interpretazioni, bisogna seguire ciò che prescrive la legge, alla lettera, anche se l’opinione opposta è probabile. È chiaro che ciò conferisce maggior certezza al soggetto, ma nega la complessità, rimuove e non consente il dialogo e il confronto su posizioni diverse.

Una volta ho chiesto a un musulmano per quale motivo l’Islam proibisca di bere il vino che tuttavia abbonda nel paradiso islamico. Mi è stato fatto notare che Maometto non ha proibito di bere il vino, bensì di andare in moschea ubriachi. Solo dopo i teologi si sono posti il problema di chiarire quando si diventi ubriachi. La soluzione, per non sbagliare, è stata la proibizione.

La certezza risponde evidentemente ad un bisogno dell’essere umano che si sente permanentemente su un terreno scivoloso, anzi, pericoloso! Eppure, questi sa essere più libero del suo bisogno di certezze: la rilevanza del momento del concepimento – l’intelligenza e lo stato di fiducia dell’umano – consentono alla donna e quindi alla coppia il discernimento che occorre.

Un incontro possibile

Aprire alla libertà di coscienza – di quei pochi giorni – potrebbe produrre l’effetto di un incontro tra il credente che ammetta che la vita non è vita umana, né persona, già nel momento del concepimento e il non-credente che abbandona l’idea della sovranità assoluta dell’io e quindi dell’aborto come diritto.

La piena comprensione, per me, si avrebbe riconoscendo le tappe di questo processo: la prima è quella precedente la definizione della vita umana, quella che segue è quella che porta alla definizione della persona, a quel punto c’è l’ultima fase, quella in cui una persona attenda di nascere.

Condividere queste riflessioni comporta una glossa importante: il ricorso, a mio avviso auspicabile, allo stato d’eccezione prima del momento di definizione della persona, non configurerebbe un diritto. Proprio questo dovrebbe sospingere le parti a convenire sui diritti sacrosanti della persona, riconosciuta tale per tutta la vita! La grande novità sarebbe ritrovarsi concordi sui diritti della persona umana, sempre, con un possibile distinguo sul tempo d’eccezione sul quale invitare a riflettere, per il bene di tutti.

Lo penso possibile perché vedo due priorità: cercare il bene maggiore nella concordia tra sensibilità diverse e assumere che il male maggiore è riportare le donne nel cono disumano dell’aborto clandestino che l’ideologia della vita non può evitare. Quest’ultima, da anni, costituisce la principale ragione che ha indotto parti importanti del mondo cattolico a difendere la 194: dal teologo Gianni Gennari negli anni del referendum ad Assuntina Morresi del Comitato Nazionale per la Bioetica, che ne scrisse su Tempi. L’accettazione del male minore è rifiuto del male maggiore che rischia di uccidere madre e nascituro.

Credo che oggi sia prioritario tornare a capirsi: ricreare un’idea di comunità, anche tra portatori di posizioni diverse che sappiano trovare una base accettabile di incontro.

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